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I. — L’introduzione.
In questo libro Spinoza si propone di trattare delle passioni dal punto di vista del loro valore, della loro importanza per la perfezione umana. Comincia perciò con un’introduzione, nella quale, confermando e chiarendo quanto ha detto nell’introduzione al libro terzo contro i concetti volgari di fine e di valore, stabilisce quale sia il vero senso in cui devono essere intesi. Come sempre, quando polemizza contro le concezioni volgari, anche qui Spinoza accentua la negazione e lascia nell’ombra il senso positivo della sua teoria.
I concetti di bene e di male sono semplici valutazioni soggettive (modi cogitandi) che noi formiamo quando paragoniamo un’opera finita con l’opera stessa quale era stata ideata o quando, per un’indebita estensione, consideriamo le cose naturali in rapporto all’idea generale che ce ne siamo fatto e che consideriamo come il modello che la natura si sforza di realizzare. Ma la natura non agisce secondo fini: tutto in essa è necessario. Anche nell’agire umano il fine non è realmente che l’appetitus procedente da una certa rappresentazione, che costituisce una causa efficiente dell’azione, causa procedente alla sua volta da altre cause. La perfezione e l’imperfezione non sono quindi nulla di obbiettivo: nell’ordine assoluto ogni cosa ha necessariamente tutto quanto risulta dalla natura della sua causa ed è quello che deve essere: essa è perfetta od imperfetta, buona o cattiva solo da un punto di vista tutto umano e subbiettivo.
Quale sia questo punto di vista abbiamo già veduto nella introduzione al libro terzo. L’uomo nel suo stato presente non ha nè può avere presente alla mente l’ordine assoluto delle cose, dove tutto è, in senso eminente, perfetto: il fine della filosofia è appunto quello di elevarlo verso quella realizzazione perfetta dell’essere suo, che è anche immedesimazione, per la conoscenza e la volontà, con l’ordine perfetto. Ora è appunto in questa elevazione umana che sono possibili gradi diversi e che hanno un senso le distinzioni di valore, i concetti di bene e di male. — Però anche qui Spinoza fa una riserva. L’uomo nello sforzo di realizzare il vero essere suo si forma come un tipo ideale di perfezione umana: e chiama bene o male tutto ciò che ve lo avvicina o ne lo allontana. Ora questo tipo ideale è una pura finzione sussidiaria (come i concetti generali): perchè ogni uomo ha la sua essenza, quindi la sua perfezione, il suo ideale: il progresso nella perfezione non sta nel mutare di essenza, ma nell’attuare più perfettamente la realtà che è nell’essenza propria. Il che non consiste naturalmente nel realizzare più a lungo l’essenza nell’esistenza empirica, la quale nulla conferisce alla perfezione dell’essenza, ma nell’acquistare la coscienza di quella realtà propria che è superiore all’esistenza empirica.
Chiamo schiavitù impotenza dell’uomo a governare e moderare le sue passioni: l’uomo sottomesso alle passioni non appartiene infatti a sè, ma alla fortuna: alla quale è tanto soggetto che spesso è forzato, pur vedendo il meglio, di fare il peggio. Mi sono proposto in questa parte di ricercare la causa di questo fatto e di più di mostrare il male e il bene delle passioni. Ma prima devo dire qualche cosa della perfezione e dell’imperfezione, del male e del bene.
Chi ha stabilito di fare una cosa e l’ha finita bene, chiamerà perfetta l’opera sua: e così farà ciascun altro che abbia conosciuto bene il pensiero e il fine dell’autore di quell’opera o che abbia creduto di conoscerlo. Se, per es., alcuno vede qualche opera non ancora finita e sappia che lo scopo dell’autore di quell’opera era di edificare una casa, dirà quella casa imperfetta; e la dirà perfetta appena veda l’opera portata a quel compimento che l’autore aveva stabilito di darle. Ma se alcuno vede un’opera senza mai aver veduto nulla di simile, nè conoscere il disegno dell’autore, colui non potrà sapere se l’opera era perfetta od imperfetta. E questo è il primo senso che ebbero questi vocaboli. — Ma poichè gli uomini cominciarono a formare idee generali e ad escogitare dei modelli di case, edifizi, torri, ecc., e a preferire certi modelli a certi altri, avvenne che ciascuno chiamò perfetto ciò che vedeva convenire con l’idea universale che di tal cosa s’era formato ed invece imperfetto ciò che sembrava meno convenire col suo concetto esemplare, sebbene fosse stata compiuta secondo il disegno dell’artefice. Nè altra è la ragione per cui il volgo appella perfette od imperfette le cose naturali, cioè non fatte per mano d’uomo; poichè gli uomini sogliono formarsi tanto delle cose naturali quanto delle artificiali idee generali, che ritengono come esemplari delle cose e che, secondo essi, la natura (la quale non farebbe nulla se non in vista di fini) si tiene dinanzi e si propone come tipi esemplari. Quando perciò vedono farsi nella natura qualche cosa che meno s’accorda col modello esemplare che essi se n’erano formato, credono che la natura abbia mancato o peccato od abbia lasciata imperfetta l’opera sua. Vediamo dunque che gli uomini hanno sempre chiamato le cose perfette o imperfette più per un pregiudizio che in base ad una cognizione. Noi abbiamo mostrato che la natura non agisce secondo fini: perchè quell’Essere eterno ed infinito, che diciamo Dio o Natura, agisce per la stessa necessità per cui esiste. Abbiamo infatti mostrato (Et., I, 16) che la necessità della sua natura per cui esiste è anche quella per cui agisce. Dunque la ragione o la causa per cui Dio o la Natura agisce e quella per cui esiste è la medesima. Come dunque non esiste per nessun fine, così non agisce per nessun fine: e come la sua esistenza, così la sua attività non ha nè principio nè fine. Ciò che si dice causa finale non è che lo stesso appetitus umano, in quanto è considerato come principio o causa primaria d’una cosa. Quando, per es., diciamo che l’abitare è stato causa finale di questa o quella casa non vogliamo dire altro se non che l’uomo, essendosi rappresentato i comodi della vita domestica, ebbe il desiderio di edificare una casa. Quindi l’abitare, in quanto è considerato come causa finale, non è se non quel particolare desiderio, che è in realtà causa efficiente: la quale è considerata come causa prima perchè gli uomini in generale ignorano le cause dei loro desiderii. Essi sono infatti consci, come spesso ho detto, delle loro azioni e dei loro desiderî, ma ignari delle cause da cui sono determinati a desiderare. E quel che volgarmente dicono che qualche volta la natura manca o pecca e produce cose imperfette è da mettersi tra quelle fantasie che ho esaminato nell’appendice della prima parte. Onde la perfezione e l’imperfezione sono in realtà solo modi cogitandi, ossia nozioni che ci formiamo da ciò che paragoniamo fra loro individui della stessa specie o genere: perciò ho detto sopra che per realtà o perfezione intendo la stessa cosa. Perocchè noi siamo soliti a ridurre tutti gli individui della Natura ad un genere solo generalissimo: e cioè alla nozione dell’ente che appartiene assolutamente a tutti gli individui della Natura. Ora tutte le volte che riconduciamo gli individui della Natura a questo genere e li paragoniamo fra loro e troviamo gli uni avere più di entità ossia di realtà che gli altri, in tanto diciamo gli uni più perfetti che gli altri; e in quanto riferiamo agli stessi qualche cosa che involge una negazione come termine, fine, impotenza, ecc., in tanto li diciamo imperfetti, perchè non affettano la mente nostra così come quelli che diciamo perfetti e non perchè ad essi manchi qualche cosa che loro appartiene o perchè la Natura abbia peccato. Poichè nulla appartiene alla natura d’una cosa se non ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente e ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente segue necessariamente.
Per quel che riguarda il bene e il male, essi non indicano niente di positivo nelle cose e non sono altro che modi cogitandi, nozioni che ci formiamo dalla comparazione delle cose... Per bene intenderò d’ora innanzi ciò che certamente sappiamo servire ad avvicinarci sempre più a quell’esemplare della natura umana che ci siamo proposti. Per male ciò che lo impedisce. E diremo gli uomini più perfetti o più imperfetti secondo che più o meno s’avvicinano a tale esemplare. Questo bisogna anzitutto notare quando dico che alcuno passa da una perfezione minore ad una maggiore e non intendere come se io dica che passa dall’una essenza o forma all’altra. Il cavallo infatti è distrutto tanto se si trasforma in un uomo come in un insetto. Io intendo dire che la sua potenza d’agire, in quanto per essa intendiamo la sua natura, è accresciuta o diminuita. Infine intenderò in genere, come dissi, per perfezione la realtà: cioè l’essenza d’ogni cosa in quanto esiste ed opera in certo modo, nessun conto tenuto della sua durata. Perchè nessuna cosa singolare può dirsi più perfetta perchè ha durato più a lungo nell’esistenza: la durata delle cose non dipende dalla loro essenza, la quale non involge in sè alcun certo e determinato tempo di esistere: ogni cosa, sia più o meno perfetta, potrà sempre perseverare nell’esistenza per virtù della stessa forza, per cui ha cominciato ad esistere, e tutte le cose sono in questo uguali. (Et., IV, Introd.).
Niente, considerato nella sua natura, potrà dirsi perfetto od imperfetto: specialmente dacchè sappiamo che tutte le cose che avvengono, avvengono secondo un certo ordine eterno e secondo determinate leggi della Natura. Ma poichè l’umana debolezza non apprende col suo pensiero quell’ordine ed intanto l’uomo concepisce una natura umana molto più eccellente della sua e non vede nessun ostacolo che gli vieti di conquistare una tale natura, egli viene condotto a cercare i mezzi per giungere a tale perfezione; e tutto ciò che serve come mezzo per pervenirvi è detto vero bene; e il sommo bene è il pervenire ad una condizione tale da poter godere di tale natura perfetta insieme con altri individui, se ciò è possibile. E quale è questa natura? È la conoscenza dell’unione che la mente ha con tutta la Natura. (De emend. intell., ed. V. Vloten et Land, 1895, I, p. 5-6).