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VIII. — Conoscenza ed azione.
Le prop. 48-49 sono una specie di passaggio al libro terzo sulle passioni, le quali non sono che un aspetto particolare, l’aspetto attivo della conoscenza inadequata. Non vi è una facoltà di volere diversa dall’attività delle idee; il volere (in largo senso) non è che il nisus, l’appetitus, con cui ogni idea si afferma come ente. Le volizioni non sono quindi che affermazioni o negazioni di idee: l’intelletto e la volontà sono una cosa sola.
Prop. 48. Nella mente non vi è una volontà assoluta, ossia libera; la mente è determinata a voler questo o quello da una causa che è determinata alla sua volta da un’altra e questa di nuovo da un’altra e così all’infinito.
Prop. 49. Nella mente non vi è alcuna volizione, ossia affermazione o negazione, fuori di quella che l’idea, in quanto idea, involge.
Corollario. La volontà e l’intelletto sono una sola e medesima cosa.
Negli scolii annessi alle prop. 48 e 49 Spinoza si estende anzitutto contro il concetto di facoltà; non vi è una facoltà di volere, ecc.; non vi sono che gli atti concreti. In secondo luogo mostra che l’atto di volontà è coestensivo all’intelletto: non vi è una volontà o una facoltà di giudicare, affermare e negare, che sovrasti per così dire al contenuto dell’intelletto e ne sia indipendente: ogni atto di volontà, ogni giudizio è semplicemente l’atto d’un contenuto concreto della nostra conoscenza, l’affermazione o la negazione implicata in un’idea. Qui Spinoza combatte la teoria cartesiana dell’errore: e ne coglie occasione per ritornare sul suo argomento preferito, l’illusione del libero arbitrio, celebrando l’eccellenza della dottrina della necessità, secondo la quale ciascuno non è che un momento della vita divina e tanto più è perfetto, quanto più s’immedesima, per la conoscenza, con l’unità infinita di Dio.
Allo stesso modo si dimostra che non vi è nell’anima alcuna facoltà assoluta di conoscere, di desiderare, di amare, ecc. Onde segue che queste e simili facoltà o sono pure finzioni o sono soltanto enti metafisici ossia universali, come noi usiamo formare dagli esseri particolari. Così l’intelletto e la volontà sono con questa o quella idea, con questa o quella volizione nello stesso rapporto in cui è la petreità con questa o quella pietra e l’uomo con Pietro o Paolo. (Et., II, 48, scol.).
[Ma, diranno,] noi sperimentiamo che è in potere della mente nostra così il parlare come il tacere e il fare tante altre cose che perciò si fanno dipendere dal suo arbitrio... Certo gli affari degli uomini andrebbero molto meglio se fosse egualmente in potere degli uomini tanto il tacere quanto il parlare. Ma l’esperienza mostra abbastanza a chiare note che gli uomini niente hanno meno in potere loro che la lingua e niente possono meno governare che i loro appetiti: onde i più credono che noi operiamo liberamente solo quelle cose che desideriamo lievemente, perchè il desiderio di queste cose può essere facilmente represso dalla immagine d’un’altra cosa frequentemente rievocata; ma non quelle cose che desideriamo con una passione veemente, la quale non può venir soffocata dall’immagine di un’altra cosa. Ma veramente, se non avessero sperimentato che noi facciamo tante cose di cui dopo ci pentiamo e che spesso, quando cioè siamo agitati da passioni contrarie, vediamo il meglio e seguiamo il peggio, nulla li impedirebbe di credere che noi facciamo tutto liberamente. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte e il fanciullo irato la vendetta e il pauroso la fuga. L’ubbriaco crede d’aver detto, per una libera decisione della mente, quello che poi in istato di sobrietà vorrebbe aver taciuto: così l’uomo che delira, la donna chiacchierona, il fanciullo e tant’altra gente della stessa risma credono di parlare per un libero decreto della mente, mentre non possono contenere l’impulso che li trascina a parlare; cosicché la stessa esperienza non meno che la ragione ci insegnano chiaramente che gli uomini si credono liberi unicamente perchè hanno coscienza delle loro azioni ed ignorano le cause da cui sono determinati: e di più che le decisioni della mente non sono che gli stessi desiderii, i quali variano secondo la diversa disposizione del corpo. Ciascuno infatti tutto governa secondo i suoi sentimenti: quelli che sono agitati da sentimenti contrarii non sanno quel che vogliono: e quelli che non sono mossi da alcun sentimento sono spinti in un senso o nell’altro dal più leggero motivo. Le quali cose con tutta chiarezza mostrano che e la decisione della mente e l’appetito e la determinazione del corpo sono per natura simultanei o meglio sono una sola e medesima cosa che, quando è considerata sotto l’attributo del pensiero e per esso esplicata, diciamo decisione, quando è considerata sotto l’attributo dell’estensione e dedotta dalle leggi del moto e della quiete, è detta determinazione... E quando noi sogniamo di parlare, crediamo di parlare per una libera decisione e tuttavia non parliamo, o, se ciò avviene, parliamo per un movimento spontaneo del corpo. Noi sogniamo anche di nascondere agli uomini certe cose e ciò per la stessa decisione per cui, quando vogliamo, tacciamo ciò che sappiamo. Noi sogniamo infine che facciamo per una libera decisione ciò che nella veglia non oseremmo fare. Vi sono dunque, io vorrei sapere, due specie di decisioni, l’una fantastica, l’altra veramente libera? Che se non si vuol andare a tanta stravaganza, bisogna necessariamente ammettere che quella decisione della mente, che si crede libera, non differisce dall’immaginazione o dalla memoria e non è altro che quell’affermazione che l’idea, in quanto idea, necessariamente involge. E con queste decisioni si formano nella mente con la stessa necessità con cui si formano le idee delle cose reali. Quelli dunque che credono di parlare o di tacere o di fare altro per una libera decisione della mente, sognano ad occhi aperti. (Et., III, 2, scol.).
Io dico libera quella cosa che esiste ed agisce per la sola necessità della sua natura; coatta quella che è determinata da un’altra cosa ad esistere e ad operare in una certa e determinata maniera. Così Dio esiste necessariamente, ma liberamente, perchè esiste per la sola necessità della sua natura. Così ancora Dio intende liberamente sè ed assolutamente tutte le cose: perchè dalla sola necessità della sua natura segue che egli intenda ogni cosa. Vedi dunque che io pongo la libertà non nella libera decisione, ma nella libera necessità.
Ma discendiamo alle cose create, che tutte sono determinate da cause esterne ad esistere e ad operare in un certo e determinato modo. E per intenderci chiaramente, prendiamo una cosa semplicissima. Per es., una pietra riceve da una causa motrice esterna una certa quantità di movimento, per la quale dopo, anche cessato l’impulso della causa esterna, continuerà necessariamente il suo moto. Questa persistenza del moto nella pietra è coatta non perchè necessaria, ma perchè determinata dall’impulso della causa esterna: e ciò che si dice qui della pietra si deve intendere di qualunque cosa singolare, per quanto complessa e capace d’un’attività multiforme: e cioè che ogni cosa è necessariamente determinata da una qualche causa esterna ad esistere e ad operare in un certo e determinato modo.
Supponi ora che la pietra, mentre continua a muoversi, pensi e abbia coscienza del suo tendere, per quanto essa può, a conservare il movimento. Essa, pur essendo conscia soltanto del suo tendere ed essendo tutt’altro che indifferente, crederà di essere lìberissima e di perseverare nel movimento soltanto perchè essa lo vuole. E questa è quella libertà umana che tutti si vantano di avere e che consiste solo in ciò che gli uomini hanno coscienza dei loro appetiti, ma non delle cause da cui sono determinati. (Lett. 58).
La libertà è virtù o perfezione: tutto ciò che implica nell’uomo impotenza non può quindi venir riferito alla libertà. Quindi l’uomo non può esser detto libero perchè può non esistere o può non servirsi della ragione, ma solo in quanto ha la facoltà dì esistere e di operare secondo le leggi della natura umana. Quanto più quindi affermiamo un uomo essere libero, tanto meno potremo dire che possa non servirsi della ragione e preferire il male al bene: e perciò Dio che esiste, intende ed opera con assoluta libertà, esiste, intende ed opera anche necessariamente, cioè per la necessità della sua natura. Perchè non è dubbio che Dio opera con la stessa necessità con cui esiste: come dunque esiste per la necessità della sua natura, così opera anche per la necessità della sua natura, cioè opera con assoluta libertà. (Tratt. polit., I, 7).
Si confronti la dottrina di Spinoza sulla libertà con la dottrina del calvinismo ortodosso, imperante allora in Olanda: «Sic libertas est comparata, ut non pugnet cum omni necessitate et determinatione. Pugnat equidem cum determinatione violenta, sive cum necessitate coactionis, sed optime convenit cum necessitate immutabilitatis, infallibilitatis et dependentiæ. Nam Deus necessario odit peccata... et eadem odit libere, idest non coacte. Sic beati spiriti in cœlis maiori libertate sunt præditi quam nos in hac vita. Illi antem necessario tantum justa et recta volunt... et hæc est maxima voluntatis perfectio, ferri dumtaxat in bonum». (Atti del Sinodo nazionale di Dordrecht, Hanau, 1620, p. 706).
Resta infine di mostrare quanto la conoscenza di questa dottrina serva alla pratica della vita, il che facilmente rileveremo da quanto segue. E cioè: I) In quanto c’insegna ad agire secondo la sola volontà di Dio e ad essere partecipi della natura divina, il che tanto più si avvera quanto più perfette sono le nostre azioni e quanto più comprendiamo Dio. Onde questa dottrina oltre che rende l’animo assolutamente tranquillo, ha anche questo che ci insegna in che consista la nostra suprema felicità o beatitudine, e cioè nella sola conoscenza di Dio, dalla quale siamo indotti ad operare solo ciò che la carità e la coscienza consigliano. Di qui chiaramente vediamo quanto s’allontanino dal vero apprezzamento della virtù coloro che aspettano d’essere rimunerati da Dio con grandi premi per la virtù e le buone azioni, come per un penoso sacrifizio, come se nella virtù e nel servire a Dio già non consistessero la felicità e la più alta libertà; II) In quanto insegna come dobbiamo comportarci di fronte alle cose della fortuna o alle cose che non sono in nostro potere, cioè di fronte alle cose che non hanno la nostra natura per causa; e cioè aspettare e sostenere con animo eguale l’una e l’altra faccia della fortuna, poiché tutte le cose seguono dall’eterno beneplacito di Dio con la stessa necessità con cui dall’essenza del triangolo segue che la somma dei suoi angoli è uguale a due retti; III) Questa dottrina giova anche alla vita sociale in quanto insegna a non odiare, a non disprezzare, a non deridere, a non irritarsi, a non essere invidiosi. Di più in quanto insegna a ciascuno a contentarsi del suo e ad aiutare il prossimo non per femminea tenerezza, nè per favore, nè per superstizione, ma per i dettami della ragione, così come il tempo e le circostanze consigliano; IV) Infine giova questa dottrina anche alla società civile in quanto insegna come debbono essere governati e diretti i cittadini perchè non servano, ma pratichino liberamente il bene. (Et., II, 49, scol.).