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Baruch Spinoza - Etica (1677)
Traduzione dal latino di Piero Martinetti (1928)
I. - L'introduzione
Libro Terzo Libro Terzo - II

I. — L’introduzione.

Il libro terzo è dedicato all’esposizione delle passioni umane, che procedono dalle idee inadequate e che costituiscono la schiavitù e la miseria della vita umana. Il librò ha carattere più psicologico-descrittivo che spe­culativo: forse appunto per questo ha un ordine meno rigoroso. Esso comincia con una breve introduzione nella quale Spinoza dichiara di voler studiare le pas­sioni umane da un punto di vista freddamente teoretico, come semplici fatti della natura umana.

I più che hanno scritto sulle passioni e sulla condotta della vita umana sembrano trattare non di cose naturali che seguono le leggi della natura, ma di cose che son fuori della natura. Anzi sembrano concepire l’uomo nella natura come un impero nell’impero. Essi credono che l’uomo turbi l’ordine della natura piuttosto che seguirlo, che egli abbia sulle sue azioni un potere assoluto, nè sia determinato da altro che da se stesso. Indi attribuiscono la causa dell’impotenza e dell’instabilità umana non alla potenza comune della natura, ma non so a quale vizio della natura umana, che perciò piangono, deridono, sprezzano o, come per lo più, condannano: e colui che più eloquente­mente o sottilmente ha saputo mordere l’impotenza della mente umana, è considerato come un uomo divino. Non mancarono tuttavia uomini eccellenti (alla cui fatica e diligenza noi con­fessiamo di dovere molto) che scrissero molte belle cose sulla retta condotta della vita e diedero ai mortali consigli pieni di saggezza; ma nessuno, per quello che io mi sappia, ha deter­minato la natura e la forza delle passioni e che cosa possa la mente contro di esse. So bene che l’illustre Cartesio, sebbene anch’egli abbia creduto che la mente abbia un potere assoluto sulle sue azioni, cercò di spiegare le passioni umane per le loro prime cause e nello stesso tempo di mostrare la via per cui la mente può ottenere un dominio assoluto sulle passioni; ma non fece, a mio avviso, se non mostrare l’acutezza del suo grande ingegno, come farò vedere a suo luogo. Ora voglio tornare a quelli che vogliono condannare e deridere le passioni e le azioni umane anziché comprenderle. A costoro sembrerà senza dubbio strano che io imprenda a trattare dei vizi e delle miserie umane col metodo matematico e voglia dimostrare con un ra­gionamento preciso ciò che essi proclamano essere contrario alla ragione, vano, assurdo e degno d’orrore. Ma il mio ragio­namento è questo. Non vi è nella natura nulla che possa essere riferito a suo difetto, perchè la natura è sempre la stessa e dappertutto la sua virtù e potenza d’agire è la stessa: cioè le leggi e le regole di natura, secondo le quali tutto avviene e passa da una forma nell’altra, sono sempre e dappertutto le stesse: quindi uno e identico deve sempre essere il metodo per comprendere la natura di qualsivoglia cosa, e cioè il compren­derla per mezzo delle leggi e delle regole universali della na­tura. Le passioni quindi dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., in sè considerate procedono dalla stessa virtù e necessità della natura come tutte le altre cose singole: e perciò riconoscono certe cause per mezzo delle quali vengono comprese ed hanno determinate proprietà egualmente degne della nostra attenzione come le proprietà di qualunque altra cosa, la cui sola contempla­zione è per noi fonte di gioia. Tratterò quindi delle passioni, della loro natura e forza e della potenza della mente su di esse con lo stesso metodo con cui nei libri precedenti ho trattato di Dio e della mente umana e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di piani o di solidi. (Et., III, Introd.).

Avendo applicato l’animo mio alla politica, non ho inteso narrare alcunché di nuovo e di mirabile, ma soltanto di dimo­strare con un ragionamento preciso e sicuro e di dedurre dalla stessa condizione della natura umana quello che meglio si con­viene alla pratica: e per trattare di questa scienza con la stessa libertà d’animo, con cui ci accostiamo alle ricerche matema­tiche, mi occupai con diligenza di non deridere, di non pian­gere, di non condannare, ma solo di comprendere (non ridere, non lugere neque detestari, sed intelligere) le azioni umane: e così considerai le passioni umane come l’amore, l’odio, l’ira, l’invidia, l’orgoglio, la pietà e le altre commozioni dell’animo, non come vizi della natura umana, ma come proprietà che le appartengono, come alla natura dell’aria il freddo, il caldo, il temporale, il tuono e simili; che sebbene molesti, sono tuttavia cose necessarie ed hanno cause determinate per cui cerchiamo di comprenderne la natura; e la mente gode della loro con­templazione vera allo stesso modo che della conoscenza di quelle cose che sono grate ai sensi. (Tratt. polit., I, 4).

Questa contemplazione impassibile della realtà non esclude il riconoscimento della perfezione o dell’im­perfezione degli esseri empirici: si veda per questo l’introduzione al libro quarto. Ma questa perfezione od imperfezione nasce dalla loro limitazione: anche l’imperfezione del mondo esteriore non è che un riflesso dell’imperfezione interiore dell’essere che lo apprende. Quindi il vero progresso sta nel conoscere, nel pene­trare fino alla realtà eterna delle cose: e questo vuole appunto la considerazione che qui Spinoza istituisce. E l’espansione della perfezione non consiste in un’azione sulle cose, ma in un’illuminazione degli spiriti, in una rivelazione della razionalità eterna delle cose, che è anche la loro perfezione e la loro bontà. Pur accingendosi a considerare la realtà umana nella sua massima imperfezione, nello stato di schiavitù alle passioni, il filosofo non deve credere, dice Spinoza, che si possa e si debba ad essa sostituire un’altra realtà: e quindi trattarne come si fa comunemente, con rimpianto, con sdegno, ecc. Ciò sarebbe un misconoscere che anch’essa ha un fondamento reale e razionale e un togliere a noi il punto di partenza per penetrare più profondamente in quest’ordine e dissolvere così in noi e nella nostra visione del mondo l’imperfezione che risulta soltanto dal nostro conoscere inadequato. Pur riconoscendo che la realtà immediata non è ancora la realtà correlativa all’intelligenza perfetta, noi dobbiamo però cercare, per quanto ci è possibile, di razionalizzarla, di considerarla freddamente nelle sue ragioni d’essere. Questa conside­razione non la giustifica quanto allo stato d’imperfe­zione in cui ci appare: ma eleva l’intelletto nostro ad una visione più alta, nella quale l’imperfezione creata dal nostro modo imperfetto di vedere le cose, gradatamente si dissolve e scompare.

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