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IV.

Nel giardino le piccole facevano la ginnastica, ridendo, strillando: sul terrazzo, dove le grandi passeggiavano nella ricreazione, giungevano le voci attenuate per l’altezza. Nella serenità violacea di quel tramonto, in gruppi di due, di tre, di quattro, le grandi passeggiavano lentamente, discorrendo, fermandosi presso il parapetto, figure bianche su cui si staccava vivamente il grembiule di merino nero. Tre o quattro maestre andavano e venivano intente a qualche lavoro d’uncinetto, cogli occhi bassi e la fisonomia immobile, ma prestando orecchio attentamente. Quell’ora della ricreazione era la più aspettata della giornata e la più malinconica.

Quell’aria larga, quel vasto orizzonte che circondava quella fiumana di case che dal colle di Capodimonte, dove si ergeva il collegio, dilagava al mare, quell’aura di libertà, mettevano la tristezza in quei temperamenti giovanili, affoganti per esuberanza o ammiseriti per una precoce anemia. Tutte le mestizie segrete, tutte le tenerezze struggitrici, tutte le effusioni angosciose, tutte le aspirazioni indefinite, tutt’i bisogni di sospirare, di piangere, che la vita crescente mette nelle fanciulle, trovavano in quell’ora la loro espansione.

Salivano lassù le collegiali col desiderio dell’aria aperta, infinita, con l’ansietà del prigioniero che vorrebbe avere le ali: davano un grido di gioia, di liberazione, al trovarsi lassù, abbarbagliate, frementi, bevendo l’aria, bevendo la luce da tutti i pori Correvano le garrule parole, scoppiavano le risate, esse si rincorrevano come se avessero ancora dieci anni, esse, le grandi fanciulle di quindici e di diciotto: per poco non giuocavano di nuovo a capinnascondere. Non pensavano più alle conversazioni morbose dove si ammalava la loro precoce fantasia; non pensavano più a mormorare contro la direttrice e le maestre, eterno tema su cui ricamavano le variazioni più maligne. Diventavano schiette, allegre, infantili. Un giorno, in un impeto di gaiezza, Artemisia Minichini aveva costretta Cherubina Friscia a fare un giro di valtzer — ed era parsa una cosa buffa e naturale.

Ma dopo un quarto d’ora quella esaltazione cadeva dileguandosi a poco a poco. Si chetavano le risa, si abbassavano le voci, come timorose: alla corsa succedeva la passeggiata lenta e grave; si formavano le coppie, i terzetti, dove prima era un coro. E venivano alle labbra fioche e rade le parole — e tutte le pene soffocate di una vita, che vibrava già tutta, facevano curvare quelle teste nel tramonto di estate.

Lucia Altimare era ritta in piedi, presso il parapetto, guardando Napoli, ma come se non vedesse. La figura esile si disegnava sul cielo già sbiancato, e la linea sottile del profilo acquistava una purezza, una nitidezza elegante, che la faceva rassomigliare a un cammeo antico. Invero quei bruni capelli, tenuti un po’ alti, parevano un casco bruno. Accanto a lei stava Caterina Spaccapietra, guardando Napoli con i suoi trasparenti occhi grigi. Pareva pensosa, distratta; ma un momento che Lucia guardò giù, ella trasalì e fece un gesto come per trattenerla.

— Non temere, non mi butto più — disse Lucia Altimare con la sua voce bassa e debole, abbozzando un tenue sorriso. — Ero pazza la settimana scorsa, ma tu mi hai fatta rinsavire. Cioè non tu, ma Dio: per la tua bocca, per le tue mani, il Signore mi ha salvata dall’estremo peccato, dall’ultima perdizione.

Cavò di tasca il rosario azzurro: baciò il piccolo crocifisso d’argento e la medaglia della Madonna.

— Che vuoi, Caterina? fu una follìa. Ma qui dentro — e si chinò a dire sottovoce — nessuno mi capisce, nessuno! Tu sei buona e intendi; ma se sapessi tutto! se potessi dirti tutto! Qui non possono intendermi. La direttrice, in quel giorno, fu fredda e crudele con me. Disse che io avevo scritte frasi indegne di una figlia di gentiluomo, che dimostravo di sapere cose che una fanciulla non deve sapere, che il professore, la maestra, le mie compagne erano scandalizzate, che era necessario a lei mandare quel compito a mio padre, con una lettera severa. Io tacqui, Caterina: che potevo dire? Ma soffrivo mille morti, mi sentivo dentro dilaniare il cuore. Tacqui, non piansi, non pregai. Ritornai in sala, agonizzando di dolore e di vergogna. Mi parlavi, non ti udivo. La morte passò come un: lampo attraverso l’anima mia, e l’anima mia se ne innamorò. Dio.... scomparve.

Tacque, stanca nella voce e nella persona. Caterina che l’ascoltava, presa dalla seduzione di quel linguaggio sentimentale, le disse:

— Fatti dunque coraggio, Lucia. Manca poco al settembre. Ce ne andremo di qui.

— Che importa questo? — disse l’altra alzando le spalle — muterò pena. Vedi tu, lassù sotto il colle del Vomero, un piccolo campanile? È la chiesa in cui sono stata battezzata. In quella piccola chiesa vi è una Madonna tutta vestita di nero, con l’abito ricamato d’oro: ha nelle mani un fazzolettino bianco: rivolge gli occhi straziati, e nel suo cuore divino di donna e di madre, nel suo cuore vivente e sanguinante, sono sette spade di dolori. Caterina, mi hanno battezzata nella chiesa della Madonna dei sette Dolori; è l’Addolorata la mia protettrice. Io soffrirò sempre.

Caterina ascoltava con una espressione di pena.

— Tu esageri. Sai tu forse la vita?

— Io la so — disse l’altra, crollando il capo. — Mi pare di aver vissuto assai, di aver provato assai, di essere diventata vecchia. Mi pare di aver trovato dappertutto cenere e fango. Sono nauseata. Siamo nati solo pel dolore.

— È Leopardi ancora, Lucia. Mi avevi promesso di non leggerlo più.

— Non lo leggerò più. Ma senti, noi siamo tutti esseri ciechi, miserabili, che vanno alla infelicità e alla morte. Vedi questa Napoli bella, sorridente, voluttuosa nei suoi colli fioriti, nel suo mare divino, nei suoi colori smaglianti? Tu l’ami nevvero?

— Sì, perchè ci sono nata — disse a bassa voce l’altra.

— Io la odio, nelle sue vie piene di gente, nei suoi profumi di fiori, di carni, di vini spumanti, nelle sue notti stellate e provocanti. La odio perchè è il riassunto del peccato e del dolore. Laggiù, laggiù dove quei parafulmini sottili si elevano nell’aria, sono i quartieri nobili: vi è la corruzione e il dolore. Qui sotto, dove più le case si ammassano, dove più diventano brune, qui sono i quartieri popolari: corruzione e dolore. Essa è peccatrice come la città di Sodoma, peccatrice come Gomorra, essa è donna peccatrice come la Maddalena. Ma si tortura nel suo peccato, inonda di lagrime il suo letto, si torce nella fatale notte di Ghetsemani. O città trionfante, maledetta e agonizzante!

Il suo gesto tagliò l’aria come un anatema. Ma subito l’eccitamento si abbassò, scomparve la fiammella rossa salita alle guance.

— Star qui ti fa male, Lucia: vuoi che passeggiamo?

— No: lasciami parlare. Penso troppo, e il pensiero fa un solco troppo profondo, quando non si può metterlo nelle parole. T’ho io contristata, Caterina?

— Un poco. Temo per la tua salute.

— Perdonami. Certe cose non dovrei dirtele: tu non ami udirle.

— T’assicuro....

— Hai ragione, cara. Ma sai, senza nessuna esagerazione, la vita non è bella. Hai tu mai pensato all’avvenire, a quest’oscuro avvenire che c’incombe così d’appresso?

— Qualche volta — E non ne hai avuto paura?

— Non so....

— L’avvenire è tutto una paura, Caterina. Sai tu quello che farai della tua vita?

— Io lo so.

— Chi te lo ha detto, spensierata fanciulla? Chi te l’ha pronunciata la parola del futuro?

— È volontà di mia zia che io sposi Andrea Lieti.

— Ubbidirai?

— Sì.

— Senza rammarico?

— Senza rammarico.

— O povera, povera! Questo Andrea ti ama?

— Credo.

— Tu l’ami?

— Mi sembra.

— L’amore è un dolore, il matrimonio è un’abominazione, Caterina.

— Spero di no — rispose l’altra, chinando il capo e congiungendo le mani.

— Io non mi mariterò giammai. No, giammai — soggiunse Lucia, rizzando il capo e guardando il cielo alta e diritta nella sua superbia mistica.


Cresceva il crepuscolo violetto. Le educande s’erano fermate, sempre in gruppi, presso il parapetto, guardando certe finestre che si accendevano ancora di raggi, guardando il mare lontano che diventava di grigio-ferro, guardando i rondoni che filavano come frecce sui tetti, con quello stridìo acuto che pare la loro preghiera della sera.

Giovanna Casacalenda confessava a Maria Vitali che quell’ora le faceva venire il desiderio di morire, morire d’un colpo solo: che poi la imbalsamassero, la vestissero di un abito di raso bianco, le sciogliessero i lunghi capelli sotto un serto di rose, e che fra cento anni un poeta s’innamorasse di lei. Artemisia Minichini aveva il suo aspetto lugubre: le pugna chiuse nelle taschette del grembiule, i gomiti serrati ai fianchi, una ruga che le attraversava la fronte, le labbra assottigliate. Carolina Pentasuglia, la piccola, bionda e poetica innamorata, diceva a Ginevra Avigliana che avrebbe voluto trovarsi lassù, nella Danimarca, su quel tetro, nebbioso e tempestoso mare del nord, su quelle spiaggie deserte dove soffia fra gli abeti il vento aquilonare. Perfino Cherubina Friscia si scordava di spiare i discorsi delle educande, e con le mani inerti, l’occhio vagante, pensava una vita intiera da passare in collegio, sempre chiusa, senza parenti, senza amici, povera zitellona vergine, odiata dalle fanciulle.

— Credo — diceva piano Lucia a Caterina — che mio padre voglia ammogliarsi di nuovo. Non ha osato farlo prima; ma la pazienza umana è una cosa così fragile! Egli è mondano, mio padre. Non m’intende: la mia presenza lo attrista. Egli avrebbe bisogno di una gaia spensierata fanciulla che gli rallegrasse la casa. Non sono io quella.

— E che farai? qualche cosa dovrai pur fare, Lucia.

— Sì, qualche cosa farò.... non per me, ma per gli altri. Le grandi istituzioni hanno bisogno di grandi sacrifizi. Se fossi un uomo, andrei in Africa a esplorare le regioni sconosciute: se fossi uomo, diventerei monaco missionante nella Cina, nel Giappone, lontano, lontano. Ma sono donna, una debole e inutile donna.

— Potresti rimanere con tuo padre, intanto.

— No. Egli ha una gioventù ritardata e io ho una vecchiaia precoce. La mia presenza sarebbe un eterno rimprovero in casa sua. Ebbene, senti. Io cercherò una idea nobile, buona, santa, a cui consacrare il mio spirito e la mia attività: io cercherò una piaga da lenire, un’ingiustizia da riparare, un torto da ristabilire: cercherò dappertutto l’ideale di umanità a cui sacrificare la mia vita. Non so che cosa farò: ancora non lo so. Ma sia come Sorella della Croce rossa sui campi di battaglia, sia come Suora di carità negli ospedali, sia come Dama visitatrice nelle carceri, sia come fondatrice e maestra di qualche asilo infantile, io avrò impiegata a pro di qualche sventura umana la forza e il coraggio di una esistenza inutile.

Caterina non rispose. Lucia la guardò, con un lieve moto di sdegno sulle labbra.

— Non ti pare bello tutto questo, Caterina?

— Molto bello. Te lo permetteranno a casa tua?

— Vorrei vedere che me lo impedissero! Sarebbe una tirannia crudele.

— E la salute?

— Resisterò.... o morirò. Sarà la morte più bella, affranta dalla fatica, con la soddisfazione del dovere compiuto.

— Io non sarei capace di tanto — mormorò Caterina dopo un breve silenzio. — Io ho l’anima piccola.

— Non importa, cara, — disse l’altra, carezzandole infantilmente i capelli. — L’ideale dell’umanità non è per tutti.

La sera era giunta, la ricreazione era finita. Le collegiali rientravano nel dormitorio, passando di là nel corridoio, scendendo per le scale, avviandosi alla cappella per la preghiera della sera. Andavano, senza guardarsi, senza parlarsi, come assalite da un fastidio profondo che le isolasse. Andavano due a due, ma senza tenersi a braccetto: due si tenevano per mano, ma con una stretta molle, come per lasciarsi. Alle spalle loro Napoli si stellava di lumi: esse entravano nella pace raccolta del Collegio, nè si voltavano indietro. L’oppressione di quella lunga ora occidentale affannava i loro petti, e in quell’andare alla cappella, senza un bisbiglio, senza un sorriso, ci era qualche cosa di funebre. Il balcone, richiuso in fretta da Cherubina Friscia che veniva l’ultima, stridette nel suo paletto rugginoso, come un riso d’ironia.

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