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I.
a Caserta, pel cattivo tempo e perchè di quella festa si curavan poco.
Caterina specialmente, liberata dall’obbligo de giurì didattico che la forzava a correre su e giù da Centurano a Caserta e perdere così le intere giornate, provava un gran piacere a restare in casa. Aveva tante cose da mettere in ordine, tante noncuranze da riparare, tanti progetti casalinghi da porre ad effetto. Una faccenda da compirsi presto era quella della conserva delle frutta, che il cuoco faceva a meraviglia, ma che richiedeva sempre una sorveglianza superiore, perchè poi nell’inverno, a Napoli, aprendo le bocce di cristallo, non si trovasse la conserva muffita. L’anno innanzi questo era accaduto per due bocce di conserva di pesche, diventate tutte verdi: un vero peccato. Poi ci era da mettere sotto aceto, nell’aceto vecchio di quattro anni, i capperi, i cetrioletti, i peperoncini forti, le pastinache: ce ne volevano varie bocce, poiché i sottaceti erano un gusto speciale di Andrea, che ne mangiava una quantità grande col lesso e con l’arrosto. Certo, Caterina non ci metteva le mani, ma doveva essere sempre lì, per direzione, per aiuto, per consiglio. Monzù aveva un’alta idea della propria sapienza culinaria, ma dichiarava a tutti che senza l’occhio della signora egli lavorava mal volentieri. Essa aveva una mano ferma, ma dolce coi servi, non parlando mai più del bisogno con loro, non accordando mance straordinarie in denaro, dando invece più spesso abiti vecchi e cappelli fuori uso, non misurando mai il mangiare e il bere, facendoli dormire sempre pulitamente. Le avevano una certa affezione rispettosa, vantandola coi servi delle ville vicine. Oh! ella aveva tanti altri pensieri. Ancora della biancheria da rifare, poiché non si finirebbe mai, con la biancheria. Andrea aveva dichiarato che certe camicie non avevano più goletti alla moda e che non le metterebbe più. Ne aveva fatto venire sei da Tesorone, che è il primo camiciaio di Napoli, e Caterina voleva tagliarne altre diciotto in tela d’Olanda finissima, impuntirle, e poi passarle a Giulietta, che era molto esperta per cucire alla macchina. In ultimo, poi, ella voleva farsi cucire due vestaglie per l’inverno, sopra un bel modello che aveva Lucia Sanna, sebbene temesse che alla piccola statura non andassero troppo bene queste vesti larghe e fluttuanti.
Anche Lucia Sanna diceva di restare in casa volentieri, accanto al suo caro marito. Alberto seguitava a essere infreddato, ma migliorava un poco: ora, invece di tossire al mattino, tossiva un po’ la sera, forse pel fresco delle lenzuola, diceva lui. Si faceva già riscaldare il letto, ma quando era troppo caldo tossiva pel caldo. Cardarelli gli aveva ancora detto che i polmoni erano deboli, ma sani, che cominciasse l’olio di fegato di merluzzo a colazione, che continuasse il liquore arsenicale di Fowler dopo pranzo e qualche cucchiaiata di acqua di catrame al mattino, quando si levava, per solidificare la mucosa. Al cibo, badasse, al cibo: latticini, uova, carne: mai salumi, mai pepe, mai eccitanti, mai fritture. Anzi per questa faccenda Alberto si raccomandava alla signora Lieti, sua buona amica e seconda infermiera, le era sempre attaccato alle gonne quando ordinava la colazione e il pranzo; e Caterina aveva una grande pazienza con lui, discutendo le vivande, facendo qualche proposta che egli respingeva, accordandosi, infine. Del resto, salvo quel po’ di raschio in fondo alla gola, raschio stupido e ostinato che lo faceva un po’ tossire la sera, per liberarsene, Alberto si sentiva perfettamente bene. Così non fosse mai andato a fare quella passeggiata, cavalcando Tetillo, in cui aveva traspirato e poi si era raffreddato: ora starebbe benissimo. Quando diceva questa cosa ad Andrea e Lucia, quei due scambiavano un’occhiata rapidissima di compianto.
Poi, Alberto era sempre più innamorato di sua moglie, ronzandole sempre attorno, soddisfatto della chiusura dell’Esposizione che toglieva il pretesto a tante uscite, a tante passeggiate, nelle quali egli si seccava enormemente, egli che non prendeva interesse a nulla e a nessuno. Gli piaceva restare a casa, in camera, sino a tardi, assistendo alla toilette di Lucia, ammirando la figura snella e l’ondulazione dei capelli neri sotto il pettine e le unghie rosee e tutte le minute cure che ella prodigava alla sua acconciatura. Alberto aveva del fanciullo malaticcio e vizioso, che ama stare in mezzo alle gonne, tra gli odori del vinaigre e della veloutine, andando, venendo, rialzando un busto, sedendosi sopra una sottana, sturando una bottiglina, mettendo, un dito sulla pasta dentifricia, fiacco, indolente, infemminito dalla debolezza fisica. E faceva certe domande sciocche, talvolta sapendo di dire una sciocchezza, ma provando un piacere a essere cretino con sua moglie, perchè costei lo proteggesse di più, lo compatisse di più. Lucia gli rispondeva con pazienza, con quel sorriso rassegnato che faceva male a vedere, ma che a lui pareva il sorriso dell’amore. Quando ella si alzava, Alberto si alzava, ella veniva in salotto, Alberto la seguiva: quando ella lavorava, Alberto le parlava seguitando a farle delle domande stupide, a cui ella rispondeva con qualche stravaganza da sbalordirlo. Alberto ammirava sempre più in sua moglie le idee singolari, le cose che ella vedeva e che gli altri non vedevano, la coltura, la voce. Ora, ogni tanto la baciava, meno riservato di prima, attaccandosi a lei tenacemente. Egli dimenticava sinanco la propria salute per lei. L’acuto egoismo di quell’essere infermo, dal sangue povero e dalla fibra molle, taceva solo dinanzi all’amore per Lucia.
Oh! lei, Lucia, a sentirla dire, restava in casa volentieri. Quel palazzo reale finiva per diventare antipatico, troppo grande, troppo pesante, troppo architettonico.
In quanto al parco, era un orrore, di natura pettinata, infronzolita e incipriata, con i laghi pieni di trote e di pesci rossi che i borghesi amano, con la verdura rasa dalle forbici, con quella eterna cascata in fondo, striscia bianca, immobile, odiosa.
— Vi è il giardino inglese — osservò una volta Caterina.
— Tu l’hai visto? — domandò Lucia.
— No, mai.
— Come, stai ogni anno quattro mesi a Centurano e non hai visto mai il giardino inglese?
— Non vi è mai stata occasione. Non vado quasi mai nel parco. Vi condurrò te e lo vedremo insieme.
— Io non ho alcun desiderio di vederlo. Io odio i giardini inglesi.
Non se ne parlò più. Restava in casa volentieri Lucia, ma si occupava lungamente a vestirsi, mutando sempre. La sua camera era piena di casse e di bauli: aveva scritto a Napoli e le era venuta altra roba di mezza stagione, uscita fresca fresca dalle mani della sarta. Aveva ogni specie di vesti da camera, da quelle bianche, larghe e fluttuanti, che danno un’aria così casta alla persona, a quelle corte, sboffanti, come le dame Pompadour, vesti civettuole: da quelle tutte merletti, vaporose, lievi, volanti a un soffio, a quelle di stoffa aprentisi sopra un davanti di raso, a piegoline. Le stavano bene tutte, perchè una donna snella sempre sta bene. Ella, quando Caterina la trovava bella e glielo diceva, sorridendo placidamente, quando Andrea le faceva un inchino cerimonioso, rispondeva sempre:
— È per Alberto che mi vesto, non per me.
— Naturalmente — diceva sottovoce, a parte, Alberto a Caterina, ad Andrea — questa povera Lucia si sacrifica troppo per me. Almeno abbia la soddisfazione di essere bella per me.
Dopo l’acconciatura, Lucia andava a colazione, indi riprendeva il suo posto favorito, nel salotto di Caterina. Ella aveva cominciato un lunghissimo lavoro, tutto di fantasia: sul canavaccio grosso e rude, senza disegno, a lunghi punti di lana e di seta, a caso, ricamava le più strane cose, un fiore, una ragostina, una stella bianca, un gallo, una mezzaluna, una graticciata di finestra, un serpentello, una ruota di carro, alla rinfusa, andando a dritta e a sinistra. Era la gran moda di Parigi, avere un salotto coi mobili tappezzati con questo canavaccio ruvido, ricamato così stranamente. Restava libera l’imaginazione delle signore ricamatrici di farvi nascere su le più bizzarre e dissimili cose; e la imaginazione di Lucia si sfogava a ricamarvi le cose più diverse fra loro. Tutti in casa avevano una curiosità per quell’immenso lavoro, per quello che ogni giorno vi metteva di nuovo Lucia. Alberto le dimandava dal letto, ogni mattina, come se le chiedesse una notizia della più alta importanza:
— Che ci metti, Lucia, oggi?
— Una cipolla, Alberto.
— Una cipolla, una cipolla! Oh è proprio buffa! Ieri ci ricamasti una violetta del pensiero e oggi una cipolla. Come la ricami?
— Con la seta di un rosso fuoco. Il giorno seguente:
— O Lucia, dimmi che ci metti?
— Un piffero.
— O Dio, un piffero! Che stravaganza! Avremo un salotto da pazzi. Tutti perderanno il tempo a vedere di che si tratta, senza sedere.
Mentre lavorava, si chiacchierava anche un po’. Caterina cuciva e tagliava sulla grande tavola, seguendo i consigli di Lucia, pel cui gusto aveva un gran rispetto. Lucia era diventata per Caterina più profondamente affettuosa e le faceva domande e confessioni intime che chiamavano il rosso del sangue sulla faccia dell’amica. Beninteso, quando gli uomini non ci erano. Quando non si usciva., Lucia si ritirava in camera sua un’ora prima del pranzo.
— Che farà in quest’ora? — domandò una volta Andrea a sua moglie.
— Non so: è molto probabile che preghi.
— In collegio pregava molto?
— Moltissimo: anche troppo per la sua salute.
Lucia ritornava pel pranzo con lo stesso abito, ma pettinata diversamente, variando sempre il modo di pettinarsi. Ora portava i capelli ammassati sulla nuca, col pettine di tartaruga: ora ravvolti a tortiglioni, con una rosa fresca: ora intrecciati e molli sul collo, con qualche margherita appuntata qua e là: ora rialzati alla greca, con un filo microscopico d’oro che passava sulla fronte e si legava dietro. Le sere in cui si metteva il fazzoletto di seta rossa, alla creola, era irresistibile.
— Mettiti il fazzoletto di seta rossa, mettitelo — la pregava Alberto.
Per questo lei amava di stare in casa. Ma come aveva detto in segreto Alberto a Caterina e ad Andrea, la sua Lucia era dietro a un altro lavoro importante. Nessuno doveva saperne niente, zitti dunque: Lucia lo aveva pregato di non dirne nulla a nessuno, ma loro erano amici carissimi e gente fidata. Nientemeno che Lucia stava scrivendo un romanzo, un grande romanzo, tutto di fantasia, tutto di creazione, che sicuramente avrebbe superati quelli di tutti gli scrittori italiani. Lucia ci lavorava dopo la mezzanotte: lui, Alberto, se ne andava a letto: Lucia disponeva la lampada in modo che non gli ferisse gli occhi — la cara anima era piena di queste attenzioni delicate — apriva la sua scrivania, tirava fuori il suo quaderno e si prendeva la testa fra le mani, meditando prima di scrivere. Poi si curvava a scrivere lungamente, senza fermarsi mai. Talvolta, sotto l’impeto della ispirazione, ella si alzava, passeggiando, agitata, contorcendosi le mani.
— Pare un poeta che improvvisi — soggiungeva Alberto — e a cui manchi la rima. Mi fa pena qualche volta. La chiamo, si scuote, par che cada dalle nuvole. Capite, stava componendo. Non intende quello che io le dico: ma risponde come trasognata. Ora non la chiamo più in quei momenti, perchè capisco che disturbo il suo ingegno. Ma più spesso mi addormento, e Lucia, credo, non viene a letto che alle due, alle tre. Io, il romanzo non l’ho letto e non le chieggo di leggerlo. Dicono che gli scrittori non amino far vedere i loro lavori prima che siano finiti. Quando lo avrà terminato, lo leggerò. Credo che me lo dedicherà. Sarà un’opera da stordire.
Anche Andrea si mostrava lieto della chiusura dell’Esposizione: aveva trascurati molti suoi affari, pel comodo degli altri. Ci aveva un mondo assai di cose da fare, diceva lui, che quella dannata mostra gli aveva ritardato. Finalmente ricuperava la pace della sua casa e non doveva passare tutto il giorno in quel maestoso palazzo reale, facendo dieci chilometri su e giù, nei saloni, su quei mattoni lustrati a cera, che stancano le gambe più resistenti. Ora, usciva la mattina, molto presto, più del solito, nel carrozzino a un cavallo, per andare a Caserta a sorvegliare il ritiro della propria roba dalla mostra. Tornava per la colazione, si rivestiva: quella sua sciarpa di seta bianca che gli serviva di goletto e di cravatta, per casa, non la portava più: era sempre in goletto rovesciato e cravatta nera. — Per le signore — diceva egli, ridendo. Durante la colazione parlava vagamente dei suoi progetti pel pomeriggio.
— Esci ancora? — chiedeva Caterina.
— Non so... avrei da fare. Uscite voi, signore?
— Se vuole Lucia — diceva timidamente Caterina, ma col desiderio che si rivelava di non uscire.
— Io non ho voglia — diceva l’altra, sollevando stancamente le palpebre.
— Esci tu meco, Alberto?
— Non ho voglia — ripeteva l’altro — Io non so... forse non uscirò — mormorava Andrea.
Ma a colazione finita, quando tutta la gente era riunita nel salotto, lo prendevano le impazienze e si alzava per uscire. Talvolta riusciva a trascinar seco Alberto, nel phaéton: lo portava a Marciasse, ad Altifreda, sinanco a Santamaria. Andavano su e giù, per le strade maestre, nel tepore dolce dei pomeriggi autunnali. Alberto, piccolo, meschino, stretto nel suo paletôt, il fazzoletto di seta annodato alla gola, una coperta ravvolta attorno alle gambe, era il contrapposto di quel giovanottone gagliardo, vestito di chiaro, collo libero, cappello grigio alla cacciatora, con la penna d’aquila nel nastro, mustacchio arricciato. Andrea guidava benissimo, ma sulle vie larghe allentava un poco le redini e lasciava prendere certe rincorse al cavallo, che spaventavano Alberto.
— Andrea ha intenzioni di omicidio su me — disse una sera a sua moglie che lo guardò fisamente, quasi lo interrogasse sul tôno di quello scherzo.
Nelle loro passeggiate, Alberto, quando aveva voglia di discorrere, gli parlava dei suoi due soggetti favoriti: la sua salute e sua moglie — gli decantava le bellezze di Lucia e la profondità del suo ingegno e l’impensato delle sue risposte. Talvolta scendeva a certi particolari che fra uomini, fra giovanotti ammogliati, si dicono sorridendo — e Alberto ci metteva certe intonazioni di malato voluttuoso, certe velature morbose di etico innamorato, che irritavano Andrea. Allora pazzamente sferzava il cavallo, faceva schioccare la frusta come un carrettiere, si lasciava andare all’ebbrezza fisica di una corsa trabalzante, sulle pietre della via maestra.
— Tu sei pudico come una verginella — gli diceva qualche volta, ghignando, Alberto, e si convinceva sempre più che questi uomini molto robusti hanno i muscoli troppo sviluppati a sfavore dei nervi. Gli uomini forti sono freddi: questo consolava Alberto che era debole.
Ritornavano a Centurano con un galoppo furioso. Appena voltavano l’angolo, vedevano un fazzoletto bianco agitarsi sul balcone: era Lucia, ritta, bella, elegante, che li salutava, che li aspettava. Qualche volta, più indietro, dietro la spalla di Lucia, si vedeva Caterina che sorrideva: non si avanzava, perchè temeva le maldicenze dei vicini che trovavano ridicole codeste espansioni fra marito e moglie. Allora Andrea gridava hip, hip, a Pulcinella, il cavallino ardente che faceva la viottola, in salita, di gran galoppo: sotto il balcone saluto rapidissimo, e nel cortile una voltata magistrale, un’entrata trionfale. Per lo più Lucia scendeva nelle scale a incontrarli, a chiedere ad Alberto come si sentisse; dava la mano ad Andrea congratulandosi del suo valore di auriga. Caterina non era lì, occupata agli ultimi ordini del pranzo, poichè sapeva che Andrea non voleva mai aspettare.
Una delle ragioni per cui Andrea aveva desiderato che l’Esposizione si chiudesse, era la libertà di poter andare a caccia. Sua moglie lo sapeva, ella che l’altro anno era rimasta cinque o sei volte, sola, ad aspettarlo per giornate intiere, molto lunghe e molto noiose, occupata a cucire, pranzando sola, dormendo sola, presa da una malinconia insolita nel suo temperamento equilibrato. Ora, quest’anno, temeva che suo marito se ne andasse per troppo tempo e troppo spesso, il che poteva sembrare una grave scortesia agli amici. Non gliene parlava, ma da un momento all’altro le pareva di dover ascoltare: domani parto. Egli invece non diceva nulla: tanto che una sera Alberto gli domandò, sbadigliando:
— E a caccia, Andrea, non ci vai?
Egli esitò: poi, deciso, rispose:
— Quest’anno, no.
— E perchè?
— Ho fatto un voto.
— Un voto? A sant’Uberto?
— No: alla Madonna Addolorata.
Le due donne non levarono gli occhi, ma sorrisero: ambedue diversamente. Caterina pensò che Andrea fosse stato buono a non andarsene, per cortesia verso la sua amica e per quel povero Alberto. Ella era sempre in pena per non fare annoiar troppo la gente che aveva in casa; e se Andrea se ne fosse partito per la caccia, come avrebbe fatto lei, con le sue scarse risorse di spirito? Oh! Andrea si sacrificava senza mormorare, senza far più udire i brontolìi della sua grossa voce, non si lasciava più andare in quelle collere subitanee che la sgomentavano. Andrea arrivava sino all’estrema cortesia di non addormentarsi più sul seggiolone, nell’ora della digestione