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III
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III.

Andrea, questo grosso fanciullone, natura semplice e primitiva, temperamento gagliardo e furioso che era poi così facile alla tenerezza, si sentiva infelice e non voleva essere infelice. Egli si ribellava al dolore, si ribellava allo spasimo. Perchè non gli lasciavano amare Lucia? Chi si metteva fra lui e la femmina sua? Quando Caterina si frapponeva, egli avrebbe strillato, pestato i piedi in terra, singhiozzante come un fanciullo a cui la madre toglie un balocco: le sue convulsioni interne rassomigliavano alle terribili nervosità dei bambini cocciuti, che muoiono di un capriccio non soddisfatto. Lucia vedeva gonfiarsegli gli occhi per le lagrime e il viso farsi rosso per lo sforzo di ricac- ciarle giù: ella si commuoveva, impallidiva. Quando era quel disgraziato Alberto che si frapponeva, con la sua personcina magra, la sua voce rauca, e i suoi colpetti di tosse, ad Andrea venivano certi impeti di afferrarlo alla vita e buttarlo per terra, di camminargli sopra coi piedi per schiacciarlo. Lucia vedeva passare questo soffio di follìa sulla faccia di Andrea e al primo gesto si faceva innanzi, sgomentata come per impedire una catastrofe. Allora egli prendeva il cappello e usciva, a piedi, pei campi, sotto il sole, a passo affrettato, stringendo i denti, coi muscoli tesi, coi nervi vibranti, andando, salutando macchinalmente la gente che incontrava, sorridendo anche senza vedere. Tornava tutto molle, tutto in sudore, fiaccato: dormiva profondamente il buon sonno di un tempo, un paio di ore, coi pugni chiusi, la testa sprofondata nei cuscini. Quando si svegliava, godeva un istante di felicità completa, il benessere del riposo goduto, l’equilibrio delle forze, ma subito il tarlo riprendeva il suo rosicchiamento e lui, piagnoloso come un fanciullo che si è svegliato troppo presto, pensava:

— O Dio, quanto sono infelice! Perchè mi sono svegliato, se sono così infelice?

Era invero un fanciullo nell’amore, senza molti ragionamenti, senza sottigliezze metafisiche, senza sofisticazioni malaticce, senza morbidezze sensuali. Amava Lucia e la voleva: ecco il suo scopo, chiaro, netto, preciso. Vedeva innanzi a sè la propria volontà, rigida e inflessibile, come un colpo di spada che trova la via del cuore. Sapeva di far male, sapeva di tradire, vedeva lucidamente il fatto del tradimento, ma senza fronzoli sentimentali. Non aveva terrori mistici, nè languidezze di coscienza errante, nè ravvolgimenti di anime depravate. Egli faceva il male, non per fatalità, non per castigo di Dio, non per influenza di fantasia, ma perchè amava. Egli non si giustificava, cercando in Caterina qualche difetto immaginario, delle mancanze, dei torti, per cui egli fosse scusabile di amare altrove: egli non diceva a se stesso che Alberto meritava di non essere amato, che era un marito assurdo per una donna come Lucia. La sua coscienza si ribellava a questi pretesti dei cuori vili, che cercano attenuanti all’amore. Loro due facevano il male, tradivano, perchè amavano altrove. Ecco tutto. Non è una fatalità l’amore: è l’amore stesso, più forte di ogni altra cosa. Così soffriva perchè non poteva amare liberamente, nel pieno sole, con la lealtà di un cuore equo che ha il coraggio dei propri errori. Egli non capiva gli ostacoli, lo irritavano fisicamente, come un carro che gli attraversasse la via. Avrebbe voluto scostarli con una spallata o scavalcarli, si lagnava con sé, per questa ingiustizia che gli veniva fatta dalla sorte, di non poterli sormontare. Talvolta, quando erano tutti riuniti nel salone, gli veniva la voglia di prendere Lucia nelle braccia e di portarsela via. Era il suo diritto quello, diritto cieco, diritto di violenza, ma che conveniva al suo temperamento. Lo capiva lei? Quando le si faceva troppo dappresso, ella aveva un piccolo moto di repulsione.

Ma come in lui la passione ribolliva, così fuori si ergevano più grandi, più insistenti gli ostacoli. Quel tisicuzzo di Alberto non abbandonava mai sua moglie, dormicchiando, sbadigliando, leggicchiando, rosicchiando pastine di catrame, sputando nel fazzoletto, lagnandosi, tastandosi il polso cento volte al giorno, lamentandosi di certi avvampamenti e di certi sudori freddi. Caterina, è vero, andava e veniva per gli ordini, per qualche faccenda da dirigere, per qualche lettera da scrivere; ma poiché il suo marito restava in casa, essa faceva di tutto per sbrigarsi presto e per venire in salotto a cucire. Alberto guardava e vedeva tutto, voleva toccar tutto, aveva certe curiosità puerili di uomo ammalato e disoccupato. Caterina era meno curiosa, più discreta, restando in silenzio, ma ascoltando e vedendo tutto. Impossibile di parlare un minuto da solo a solo con Lucia.

Due o tre volte avevano tentato questo, quasi dimenticando gli altri due; ma, rientrando in se stessi, li avevano trovati muti, pallidi di noia, la faccia stirata dallo sbadiglio compresso. Caterina e Alberto non avevano nulla da dirsi. Dopo cinque minuti tacquero. Alberto considerava Caterina come una eccellente donna, ottima massaia, ma un po’ stupida, inferiore a sua moglie di molto. Caterina non faceva giudizi, ma aveva per Alberto una compassione quieta e senza emozione: non altro. Non vi era comunicazione di spirito fra loro e vi era repulsione fisica. Ad Alberto, Caterina produceva quella impressione negativa che fa l’assenza del sesso; non gli sembrava nè brutta nè bella, non gli sembrava donna. In Caterina parlava l’istinto della salute che ha ribrezzo del morbo. Allora venivano le ore tetre, in cui Lucia presa da una disperazione muta si stendeva sul divano, rigida come una morta, i piedi nascosti sotto la gonna, lo strascico pendente, la testa sui cuscini, le braccia arcuate e le mani congiunte sotto la nuca, gli occhi chiusi, la faccia pallidissima. Rispondeva poco e a monosillabi, duri, freddi. Non apriva gli occhi, passando le ore così. Alberto si affannava a interrogarla: ella taceva. Caterina, che conosceva questi malumori profondi dal collegio, gli faceva cenno di tacere, di lasciar passare. E tacevano tutti e la tetraggine si allargava su loro. Di botto, in punta di piedi, Andrea prendeva il cappello e se ne andava, senza guardare dalla parte del divano. Caterina si turbava a questa partenza, perchè sapeva che suo marito non poteva soffrire queste scene bizzarre. Lo raggiungeva per le scale, richiamandolo, parlandogli sottovoce.

— Abbi pazienza, Andrea — gli diceva.

— Ma che avrà? — domandava lui.

— Non so. Sono pensieri strani che le guastano il cervello. Ella dice che sono visioni e che il medico le chiama allucinazioni. Ella vede cose che noi non vediamo.

— Che creatura singolare!

— Poverina, sai, è molto sofferente. Se tu sapessi quel che mi racconta, quando voi altri non ci siete. Temo che abbiamo fatto male a consigliarle di sposare Alberto...

— Ma che ti dice? Raccontami.

— Tu non devi uscire?

— Sì, hai ragione: vado. Se cercano di me, dirai che sono uscito per affari. Nel salotto non si respira. Vi è un tanfo di malattia.

— Presto se ne andranno, e...

— Non dico questo. Mi dirai il resto questa sera. A rivederci.

E per colmo di disperazione, in certe sere Lucia si faceva bellissima, lo guardava fisamente, con ostinazione, con una provocazione calma e persistente che lo torturava. Si torturava, egli che non conosceva l’arte delle lunghe aspettazioni, nè aveva la flemma che vince gli ostacoli. Egli aveva la fretta di coloro che vivono presto e bene, che non hanno la fede nel futuro, che vogliono la vita pronta, facile, non come un ideale da raggiungere, ma come una realtà da godere giorno per giorno. Che cosa era questo avere sempre presente Lucia, a due passi, bella, desiderabile, desiderata, e non poterla avere? Egli non era dômo, lottava, stringendo le pugna che avrebbero voluto abbattere qualche cosa — poi, ricadeva, spossato, vinto dall’esaurimento, senza voglia più di vivere, avendo questo ritornello nel pensiero: che tutto sarebbe stato sempre così, che non vi era rimedio, e che valeva meglio morire.

Di notte, era impossibile passare un’ora sul balcone. Appena sentiva scricchiolare un po’ il letto, Caterina si svegliava e domandava:

— Vuoi qualche cosa?

— No — diceva lui, duro, rabbioso. Qualche volta non rispondeva. Quella si riaddormentava, ma aveva il sonno leggiero. Egli sapeva che se si fosse alzato e fosse uscito al balcone, dopo poco, Caterina senza far romore sarebbe scivolata dal letto e sarebbe venuta in accappatoio bianco, ombra piccina, fedele e amorosa, a vegliare con lui, poichè egli non poteva dormire. Oh lui la conosceva Caterina, e misurava tutto l’affetto calmo, profondo, previdente, quasi materno, che era in quella piccola anima. A volte gli veniva una pietà immensa, quando la testolina di lei si appoggiava, sicura, sul suo largo petto, quasi fosse quello il porto della calma: una tenerezza desolata gli veniva per quella donnina, ch’egli non amava più. Era passato tutto questo, cancellato, cancellato. Scritta la parola fine, chiuso il volume. Ma da questa pietà, da questa tenerezza, sorgeva più alto l’amore per Lucia, che dormiva o vegliava, due stanze dopo la sua. Avrebbe dato della testa nei muri, qualche notte, per sfondarli. Si sentiva tanto bollore nel cervello che n’era capace. Infine, per rimedio disperato, arrivò a parlare di Lucia con sua moglie tutte le volte che restavano soli. Caterina ne parlava volentieri, tanto più che le piaceva mettere Lucia nella simpatia di suo marito. Lucia era la persona che modificava un po’ il tranquillo temperamento di Caterina: quella fantasia esercitava la sua influenza su lei — e Caterina lo dimostrava ingenuamente, trovando delle immagini, ella che non ne trovava mai, per discorrere di Lucia. Invero, Andrea era poco abile nell’interrogare e nel mascherare una curiosità troppo acuta, ma Caterina non era esperta di simili sfumature. Ella diceva, diceva con la sua parlantina regolare, con un’onda continua di parole. Era di notte, prima di dormire, che veniva il discorso. Egli smorzava il lume e il discorso continuava all’oscuro. Ella parlava sottovoce, col capo appoggiato ai cuscini, guardando l’oscurità: Andrea ascoltava avidamente, bevendo le parole. La interrogava sul collegio, il grande e inesauribile soggetto che le donne non dimenticano mai, anche quando sono passati molti anni. Ella gli diceva della follìa mistica di Lucia, che aveva sconvolto il collegio con le sue penitenze, le sue estasi, i suoi pianti alle prediche, i suoi deliquii alla comunione: aveva sinanco portato il cilicio, poi la direttrice glielo aveva tolto, perchè ne ammalava. Gli narrava le sue strane risposte e i compiti fantastici che turbavano la classe, e le superstizioni che l’agitavano: talvolta Lucia, alla notte, si alzava di letto e veniva presso il letto di lei, Caterina, e piangeva, piangeva silenziosamente.

— Perchè piangeva? — domandava Andrea turbato.

— Perchè soffriva. Nel collegio qualcuna la trattava da stravagante, chi la chiamava romantica, chi fantastica: il medico diceva che era ammalata e che doveva uscire di là.

Seguitava a dirgli i gusti bizzarri, come il non mangiare frutta al martedì per le anime del Purgatorio, e non bevere vino al venerdì per la Passione di Cristo. Mangiava molti dolci e beveva grandi bicchieri d’acqua.

— Anche adesso li beve — osservava Andrea profondamente interessato.

Poco a poco la voce della narratrice si stancava, si abbassava, il racconto diventava lento, ed egli non osava destarla. Caterina si addormentava un momento, poi ricominciava, a frasi spezzate. Finiva per dire addormentata:

— Povera Lucia!

— Povera Lucia! — ripeteva Andrea macchinalmente.

Caterina posava, addormentata, ma egli restava sveglio, con là febbre addosso messagli da quel racconto, resisteva alla voglia di svegliare sua moglie, per dirle:

— Parlami ancora di lei.

Poi, quel metodo, lo aveva insensibilmente preso anche con Alberto. Quando se lo portava a passeggiare, abilmente gli metteva il discorso sulla moglie. Detto fatto: Alberto non voleva udire altro. Come per Caterina, Lucia era la sua idea fissa, il suo soggetto favorito. Ne aveva tante da contare che Andrea non sentiva bisogno d’interrogarlo più: lo interrompeva con qualche interiezione, per dimostrare che ascoltava e che si interessava. Alberto ne aveva da dire per un secolo, come egli si era innamorato, come parlava Lucia, che gli scriveva, come vestiva da fanciulla. Si ricordava specialmente di certe frasi, il carro di Jaggernaut, il dramma della vita, l’amore di testa, il silenzio del cuore — e le ripeteva, pastosamente, come assaporandole. Gli ripeteva certi particolari minimi, una data, il fiore ch’ella portava nei capelli quel giorno, i guanti che le salivano fino al gomito, la sottana di seta che faceva un certo fruscìo, ondeggiando sotto la pelliccia. Alberto non dimenticava nulla: un giorno l’aveva trovata con la febbre in letto, la testa avvolta in un fazzoletto di seta bianca che celava i capelli, imbacuccata come una monaca: un altro giorno ella gli aveva fatto il segno della croce sul petto, un gesto ascetico per preservarlo dal male. Un’altra volta ella gli aveva detto che sarebbe morta presto, che ne aveva il presentimento, e che aveva già fatto il testamento: voleva essere imbalsamata, perchè aveva paura dei vermi, avvolta prima in un lenzuolo di batista, poi in un grande pezzo di raso nero, profumato all’ambra, i capelli intrecciati con le perle, un crocifisso d’argento sul petto.

— Una cosa da piangere, Andrea mio — continuava Alberto — io non poteva farla tacere. Volle dirmi tutto, tutto. Finimmo col piangere ambedue, l’uno nelle braccia dell’altro, come se dovessimo morire lì per lì.

Ma come Alberto Sanna diventava troppo espansivo nelle sue confidenze e ai pomelli sporgenti gli saliva la porpora malaticcia dell’eccitazione, Andrea provava la tortura della gelosia. Alberto Sanna si entusiasmava per la delicata bellezza di sua moglie, per la dolcezza dei suoi baci, e andava avanti, avanti; il suo compagno si faceva pallido, mordeva il suo sigaro, e non sapeva come resistere alla voglia di buttare Alberto in un fosso. Questo ammalato, che respirava affannando alla pianura, e alla salita il respiro gli sfuggiva come un fischio, questo gretto omuncolo parlava delle gioie dell’amore con una enfasi, come se fosse capace di intenderle. Andrea lo squadrava e lo trovava un burattino rattino così legnoso nel suo soprabito già invernale dal bavero alzato, col cappello abbassato sugli occhi, che alla collera si univa il disdegno, e gittava il sigaro con violenza contro un tronco d’albero. Non vi era modo di farlo tacere più, Alberto. Egli aveva quella appassionata sfacciataggine degli innamorati, che narrerebbero al mondo come è tornita la spalla dell’amante loro, come il corpo sia più bianco del volto: un impudore sereno, per cui diceva ad Andrea che Lucia portava le giarrettiere di seta azzurra, ricamate a violette del pensiero, col motto: Honny soit qui mal y pense. E gli chiedeva, sorridendo:

— Che te ne pare eh? Non è grazioso?

La consolazione diveniva una tortura, il sollievo si cangiava in spasimo. Andrea si faceva tetro e grave.

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