< Faust < Parte prima
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Johann Wolfgang von Goethe - Faust (1808)
Traduzione dal tedesco di Giovita Scalvini, Giuseppe Gazzino (1835-1837)
Prologo in cielo
Parte prima - Prologo sul teatro Parte prima - Notte. Stanza gotica a volta alta ed angusta


PROLOGO IN CIELO.


Il SIGNORE, le LEGIONI CELESTI, indi MEFISTOFELE. I tre ARCANGELI precedono.


Rafaele. Il Sole risuona, come da antico, fra l’emula armonia delle sfere fraterne, e compie il prescritto suo viaggio coll’andamento della folgore. Il suo aspetto dà vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il suo profondo. Le alte, incomprensibili opere del Signore sono splendide come nel primo lor giorno.

Gabriele. E veloce, incomprensibilmente veloce si rivolve nella sua magnificenza la terra. Il luminoso sereno del cielo si alterna coll’immenso orrore della notte; il mare leva spumando le sue larghe correnti sul vertice inaccesso degli scogli; e gli scogli e il mare sono via rapiti nell’eterno, infaticabile corso delle sfere.

Michele. E a gara le procelle fremono dal mare alla terra e dalla terra al mare, e imperversando fecondano intorno intorno le forze generatrici delle cose. Là giù il corrusco sterminio balena innanzi le vie del fulmine. Ma i tuoi messaggieri, o Signore, adorano il placido cammino del tuo giorno.

A Tre. Il tuo aspetto dà vigore agli angeli, ma niuno può scrutare il tuo profondo; e le grandi tue opere sono splendide come nel primo lor giorno.

Mefistofele. Poichè, o Signore, ti ci fai un po’ da presso, e domandi come vanno le cose di laggiù, e solevi già un tempo star meco volentieri, — ecco, ti appajo innanzi io pure fra la torma de’ tuoi servidori. Scusami, io non saprei dire alte cose; non se avessi a tirarmi addosso le beffe di tutto il corteggio. E il mio piagnisteo ti moverebbe certo a riso, se tu non fossi già di lunga mano svezzato dal ridere. Di Soli e di Mondi non so che me ne dire, e sol veggio come gli uomini stentino e tormentino sè medesimi. Quel deicino del mondo si rimane perpetuamente del medesimo conio, ed è oggidì quello stravagante ch’egli era nel primo suo giorno. Forse ei vivrebbe un po’ meglio se tu non gli avessi dato non so che barlume della luce del cielo ch’egli nomina ragione, e non ne usa che per imbestiarsi più di qualunque bestia. In vero egli mi somiglia, con tua buona pace, una di quelle cavallette dalle gambe lunghe, che volano sempre innanzi solo per querelarti? Non è, al parer mio, sepolte nell’erba, cantano la loro vecchia canzoncina: e si giacesse egli pur sempre nell’erba! Ei va a ficcare il naso in ogni letamajo.

Il Signore. Non hai tu altro da dire? e mi verrai tu sempre innanzi solo per querelarti? Non è, al parer mio, nulla in sulla terra che vada bene?

Mefistofele. Nulla, Signore! Al parer mio, tutto ci va, come al solito, fieramente alla peggio. Gli uomini nelle immense loro miserie mi fanno pietà; e invero ti dico che non mi regge ormai più l’animo di tribolare quei meschini.

Il Signore. Conosci tu Faust?

Mefistofele. Il dottore?

Il Signore. Il mio servo.

Mefistofele. Davvero! Egli vi serve a un suo strano modo. Il bere e il mangiare di quel pazzo non sono della terra; e il tumulto della sua mente lo incalza fuor della sua frenesia. Egli dice al cielo: Dammi le tue più lucide stelle; e alla terra: Profondimi le tue delizie; nè le cose prossime, nè le lontane contentano mai il suo petto altamente affannato.

Il Signore. Se egli mi serve, ancorchè il faccia con qualche scompiglio, io non tarderò a farlo camminare alla mia luce, chè quando l’arboscello germoglia ben sa il giardiniero che ne’ prossimi anni porterà ricca messe di fiori e di frutti.

Mefistofele. Che ne va, che perderete anche costui? Sol che vogliate darmi licenza di condurlo pian piano per le mie vie.

Il Signore. Quanto egli ha a vivere sopra la terra tanto è concesso a te di fare tue prove. Che l’uomo svia finchè va pellegrino.

Mefistofele. Ve ne so grado, però ch’io non me la sono mai presa volentieri co’ morti; e specialmente io mi diletto delle guance lucenti e pienotte. Nel fatto di cadaveri io non sono in casa mia; egli m’interviene quel che al gatto col topo.

Il Signore. Or via, ti è lasciato fare. Rimovi quello spirito d’alta sua origine, e se ti riesce di avvilupparlo, volgilo in giù teco per le tue vie. E rimanti vergognato quando tu abbi pure a riconoscere che l’uomo da bene, ancorchè paja starsi perplesso, è pur sempre consapevole del buon cammino.

Mefistofele. Egregiamente! solo che l’avrem tosto finita. Non ho un timore al mondo di perdere questa gara; ma se riesco al mio intento, vogliatemi concedere che ne meni trionfo di gran cuore. Polvere egli dovrà mangiare e con gusto, come il famoso mio avolo il serpente.

Il Signore. Di più: tu puoi liberamente apparire nel mondo; ch’io non ebbi mai in odio i simili a te. Di tutti gli spiriti che negano, quegli che mi dà minor noja è il beffardo. L’uomo agevolmente inchina a sonnolenza, e vorrebbe di certo conseguire un perfetto riposo; perciò io gli metto volentieri a’ fianchi uno istigatore che lo solleciti, e lo cacci innanzi e lo tenga in faccende con quella instancabilità che è propria de’ demoni. — Ma voi, prole purissima del cielo, godetevi beati delle bellezze che si spandono dall’eterno mio fonte. Stringetevi in nodo d’amore coll’universo che sempre vive e rinnova, e alle cose che vedete errare mal ferme nel vano, date norma con pensieri sempre drizzati a un segno. (Il cielo si chiude, e gli Arcangeli vanno a diverse parti.)

Mefistofele solo. Di tempo in tempo io veggo volentieri questo Antico, e mi guardo dal rompere seco. È proprio bello a un sì gran signore il parlare così alla buona anche col diavolo.




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