Questo testo è completo. |
◄ | Libro terzo | Libro quinto | ► |
Intanto Giovanni, uggito delle ombre annoiate di Versailles, e sentendo che la donnetta color di rosa aveva trovato pane, era torno a Parigi. Ma una nuova tentazioncella aspettava lui debole, e non bene ancora tenuto in soggezione dalla modesta imagine di Maria. La portinaia dell’albergo suo aveva una sorella seco, e la manteneva col suo poco guadagno: pie con affetto ambedue: non parigine punto; ma come fiori di siepe colti e messi nella stanza d’un conte ammalato. Questa sorella, pienotta di forme oltre all’età sua di ventiquattr’anni, mansueta il viso, e pietosa gli sguardi, e lieta di languido rossore, con voce umile e timida, in tanto gli piacque in quanto egli a lei. Non sapeva che un altro vincolo, e di lei buona non degno, la teneva; e che quel suo volgersi a lui era desiderio forse di sciorsene. Egli, avveduto a indovinare gli enimmi già spiegatigli e a farci su i suoi commenti, è stato sempre duro ad intendere se donna l’amasse, e di quale amore. Venne intanto la lettera di Matilde a dileguare questa nuvoletta importuna.
Il giorno ch’e’ l’ebbe, uscì a passeggiar da Vincennes, ed ecco rincontra la giovine donna dell’albergo, con un capitano di nave, che la teneva per mano. Ella in vederlo arrossì. A lui quell’aspetto che in altro tempo l’avrebbe sedotto a immonde speranze, mortificò i pensieri, e li ricondusse a Maria. Questi subiti passaggi dai desiderii affollati, esultanti, alla romita castità dell’anima, erano frequenti a lui; e davano non so che moto lirico alla sua vita. La quale e’ soleva celiando paragonare tutt’altro ch’a un’ode; alla città di Sinigaglia, che un mese dell’anno è frequente di genti diverse e di gioie strepitanti; poi deserta in un subito, e muta le ampie vie, pur serena.
Maria venne; e, prima che lui, vide Rosa, la buona Lucchese, che, avvertita per lettera, fu alla vettura ad attenderla, e la condusse in sua casa più affettuosamente che mai. Di tempo in tempo Maria le aveva scritto; ma quand’era men tribolata di fuori, forse più piagata dentro. E Rosa rimproverava a se stessa l’averla lasciata, per gelosia del suo Svizzero, uscire di sua casa, anni fa; e a sé imputava i falli e le pene della misera donna. Lo Svizzero l’accolse come se l’avesse lasciata ieri o conosciuta ieri: e aveva dati già tali saggi alla Rosa di sé ch’ella più non poteva adombrare. Giovanni e Maria si videro con la quieta, e quasi timida contentezza d’anime che ad amarsi non hanno impedimento, ma temono ignoti guai. Le confessò egli i suoi trascorsi, fin di pensiero; e uguale sincerità le promise per l’avvenire: e ella a lui.
Rosa essendo custode insieme e mediatrice, le cose andarono presto innanzi, e si venne al discorso del matrimonio. Ma egli che voleva prima trovare a sua moglie un pane non incerto, cercò di mettere a profitto l’ingegno. Maria non osava pressare: ma questo indugio vedeva con dolore secreto. E’ trovò lavoro in un giornale francese, dove gli era fatt’adito anche a ragionare dell’Italia con tanto di compenso da campare la vita, e da restargli non poche ore libere per gli studi suoi cari. Ma ecco nel giornale medesimo comparire uno scritto di francese, irriverente all’Italia: Giovanni volle rispondere; non gli fu consentito: e’ rinunziò al suo guadagno. I Francesi ne lo stimarono; degli Italiani taluno ne lo biasimò: egli rimase non dolente della perdita propria ma dell’altrui sconoscenza. Non osò parlarne a Maria: ma in uno sfogo di rammarico ne toccò un poco a Rosa, che ne fu dolente di cuore. Maria lo vedeva più cupo del solito; e se ne turbava in silenzio.
Una domenica eran ite con Rosa a Auteuil, là sotto san Martino, quando gli ultimi sereni con malinconica dolcezza consolano l’anima già piena del verno imminente. Passeggiavano ora pe’ lunghi viali inghiaiti, ora per le viottole serpeggianti, sotto il sole di gioia insolita lieto. Rosa la confortava; e, come suole chi poco spera in cuor suo, ingrandiva a lei le speranze, non per finzione ma per pietà. Pur vedendo i suoi tetri presentimenti, non seppe stare alle mosse, e le palesò lo stato di Giovanni, pensando trarre dal male un rimedio.
"Senza tanto aspettare la fortuna che venga di non si sa dove, fate una cosa: maritatevi a dirittura, e finitela. Oh che? a questo modo ciascun da sé, non dovete campare? Se i non maritati vivessero d’aria, direi. Fate casa insieme, e spenderete meno."
"Ma l’avvenire?"
"E Dio? E le tue braccia? E Rosa? Codesto non mi dà punto noia. Sai tu quel che mi mette in pensiero? Ch’egli è un letterato. Chi li capisce? Questo qui, tanto, pare più uomo a momenti: a momenti poi gli è più capone degli altri. Il cuore, a giorni, se lo ritirano su nella testa: e le povere donne hanno un bel che fare a cercarlo. Letterati? passa là. Meglio uno Svizzero."
Maria, a ogni discorso aspettava ch’egli le entrasse di questo: e, delusa, se n’accorava in sé più che mai. Quel silenzio or le pareva delicatezza, or caparbietà, ed ora peggio. Avvezza a essere ingannata, temeva fin le apparenze del male; ma, buona com’era, del proprio timore aveva vergogna e rimorso. Egli, non povero di suo, ma per istraordinari impedimenti (men dolorosi perché da gran tempo aspettati) aveva appena del suo da campare la vita. E parte per dignità d’animo, parte per felice semplicità, ignorava i modi di far bottega dell’ingegno: e tanto più ne aborriva che in sua gioventù vi si trovò di quando in quando condotto, senz’abbiettezza ma non senza certa quasi costernazione. Neppur l’amore in lui stimolava questa non ignobile inerzia: che nella parola scolpita dall’arte, animata dall’affetto, ben altro vedev’egli che soldi e centesimi.
Quel che più gli doleva, si era vedere le intenzion sue frantese: chi le opinioni di lui dire troppo timide, chi troppo audaci, chi di bacchettone, chi d’empio. Anche non era poco che l’animo non calunniassero: ma vedendol povero, e sdegnoso di ogni artifizio, e ambizioso di non piacere in tutto a nessuna opinione estrema, e pur non contento ai mezzi termini, non potevan chiamarlo né ipocrita né venduto né stolto. In quella vece chiamavano semplice lui che la lor semplicità affaccendata e boriosa e sì lungamente impotente, e sempre più boriosa e affaccendata che mai, compiangeva. Pure non tutte le sue parole cadevano in terra ingrata: ispiravano, se non fede, riverenza delle cose a lui sacre. E chi negava Gesù Cristo e chi Dio, l’ascoltavano pazienti confessare e Dio e Gesù Cristo.
Le prove del vero e’ traeva sovente dal bello. Passeggiando un dì con un ateo la galleria del Louvre, dove le gioie dell’arte confuse insieme s’intorbidano come vino mescolato con vino: "togliete", diceva, "da codesto cumulo di bellezze, la religione: che resta? I più di questi che ammiriamo son quadri rubati alle chiese: e sui profani anch’essi la luce religiosa si rifletté o si rinfranse. Chiamate pure superstizione il sentimento che ispirò tanti ingegni, fiore dell’umanità. Qual miracolo maggiore di questo, che quella che voi dite stoltezza abbia generate sì splendide maraviglie?" "Ma un ateo avrebbe fatto meglio." "Trovatemelo".
Altra volta deduceva difesa alle credenze dilette da questo rinnegare che, da venticinqu’anni segnatamente, gli uomini irreligiosi o i pochi religiosi fanno in modo infame le dottrine già propugnate furiosamente: e diceva:
"Dottrina senza domma è di sua natura versatile, perch’all’anima umana dà non solidità né forza, ma impeti; e non empie, enfia. Vedete in Italia (dove siffatte trasmutazioni sono, grazie a Dio, più rare che in Francia): il Monti, rinnegatore della sua fede, rinnega gl’idoli politici suoi: il Pindemonte, pio, scrive di coscienza, vive con dignità; né la memoria sua è profanata da apologie più terribili d’ogni accusa. Io lo vidi," (diceva Giovanni) "il buon vecchio, che me giovane oscuro e dissenziente da lui, confutava con urbano risentimento, non tiranneggiava d’ire e di spregi decrepiti: lo vidi sereno, ed amabile di quasi leggiadra vecchiezza, ripensare le non vergognose memorie degli anni andati, e non arrossire di Dio".
Ma ne’ suoi coetanei Giovanni vedeva con dolore le piaghe aperte dal dubbio e dalle audacie della ragione miserabile umana: vedeva dalla baldanzosa sicurezza cascare ingegni vigorosi in quiete disperata, per avere lasciato il cammin della fede, arduo ma sicuro, e che sale. E di questi paralitici nel vigor della vita più d’uno egli amava, ed era amato da quelli; ché la sua fede, sdegnosa delle dispute viete e delle obiezioni scolaresche e delle scipite ignoranze, era pietosa ai dolori e ai languori dell’anima umana.
Egli la schietta fede delle moltitudini e del sesso gracile, sentiva essere cosa sapiente: e per questo, sebbene in molte famiglie protestanti vedesse tale virtù da essere a molte cattoliche esempio e rimprovero; nondimeno le donne protestanti guardava dalla lontana, perché a lui pareva che sdottorassero troppo, o, nol facend’anche, si credessero in diritto legittimo di sdottorare.
Una di queste, e non disamato, conobbe a Montmorency, buona donna, e moralissima molto; ma che con la sua sapienza critica gli dava l’imagine di materia che s’appiccica: sicché molte volte le liete ombre di Montmorency, or disegnate per terra dal sole incerto, or dileguantisi; e i suoni vari e confusi dello stormire, e il verde vivo che veste la terra appiè degli alberi digradanti per l’ameno declivio, sì che dell’uno le cime toccano le radici dell’altro; e la macchia cespugliosa, e i grossi alberi e radi, o i minori raccolti in fratte; e le vallette contemplate dall’alto: tutte quelle gioie modeste, vedute in compagnia della molto ragionevole creatura suddetta, gli venivano quasi a noia.
Era la metà del novembre: e nell’albergo di lui venne una cantante italiana a cui la bellezza era tutta nella voce: piccoletta, gli occhi e le labbra per troppo affaccendato sorridere dilatati e impotenti. Sua madre era seco, ancor bella, di forme e d’atti maschile. Le quali non risparmiavano le tenerezze a Giovanni; e fin della povertà di lui si sarebbero contentate in quel primo imbarcarsi sulla palude della grigia città. D’altra parte Maria, mesta e per le cose udite, e più per il silenzio di lui, si chiudeva in se stessa; e il giorno e quant’ore potesse della notte spendeva al lavoro, per non essere di peso a Rosa, e per mostrare a esso che la non gli sarebbe stata di peso. Ma Giovanni tanto più s’accorava del non le poter promettere vita libera di fatiche e pane sicuro. Tacendo, s’imbronciavano più che più; e quel mal umore che, con due parole franche, si sarebbe rivolto in affetto confidente e in rassegnazione quasi lieta, covavano. Rosa non s’ardiva a mettere bocca: e poi Maria gliel vietava.
A lui, fragile e mal sicuro di sé, la facilità del fallare, quando non bisognasse né tastare l’altrui dubbia volontà né sospingerla, era tentazione grande. Sebbene affettuoso, anzi per questo appunto, e’ temeva l’amore; e lo paragonava alle tepide sponde fiorenti e alla corona de’ poggi che cingono il lago di Garda spumante con fremito tempestoso.
Però fuggendo l’amore, lo cambiò molte volte con ovvia voluttà. Ma qui la facilità stessa era impiccio; e la figliuola lo salvava dalla madre, e questa da quella. Se non che tutti i giorni, tutte le notti trovare un uscio socchiuso, e quattr’occhi invitanti, non era senza pericolo. Ma pensando a Maria, al suo pallore sereno; e non tanto alla presente malinconia di lei (la malinconia è mal adatta conciliatrice d’amore: vuolsi o il dolore o la gioia) quanto a’ suoi guai passati, n’aveva pietà e riverenza. Da ultimo, conoscendo la propria cedevolezza, e ormai mirando in Maria come in iscopo d’immutabile amore; sebben fosse a mezzo il mese, la stanza ch’aveva, già cara, sgomberò.
E la domenica, andati insieme a vedere san Dionigi, le disse ogni cosa. Maria da questa schiettezza s’accorse che il tacer egli delle sue strettezze non era silenzio d’animo tiepido, e si confortò. Lieta gita fu quella: e la strada senza varietà né bellezza, che mette a san Dionigi, fu loro abbellita di dolci parole e dolci silenzii.
Videro la chiesa, all’ingresso magnifica, nel fondo serena, e come cosa che levi da terra. Il sole dalle lunghe invetriate dava sull’opposte colonne, e con l’ombra e col lume variando gli aspetti, le faceva mirabili di forza e maestà e leggerezza. "Vedete" (dicev’egli a Maria) "l’arco a sesto acuto salire umile e snello: ma l’arco a semicerchio casca sopra sé, imagine delle pavide e pesanti audacie umane". Maria contemplava tacendo, tanto più lieta nel bello quanto men dotta a sviscerarlo: ma negli sguardi intendenti le si leggeva l’affetto, intanto che francesi decorati di croce, e Lordi inglesi, guatavano o sbirciavano, la bocca aperta, gli occhi muti, con stupido sussiego, altri con ingenua sbadataggine, o con gioia negli sguardi infantili. Scesero tra le tombe profanate dalla libertà barbara e matta. Que’ sassi, dentro vuoti, di fuora scolpiti d’imagini semplici, gravi, pie, destavano più pensieri che non se custodi di polvere regia. Quante glorie, quanti amori, quanti misfatti andarono a finire in quest’arche! La cenere dei grandi e delle donne adorate, chi sa da qual piede fu pesta, con che fango mista, in che nuovi corpi d’uomo o di bestia trapassati gli elementi di lei! Videro una volta nel fondo buia, con cancello e una lampana; là entro il cadavere d’un’impiccato, del principe di Condé.
Salirono muti: e i pensieri delle illustre miserie fecero in Giovanni più alto l’affetto. L’allegra gita e il mesto ritorno confortarono Maria: qual più non saprei.
Una circostanza da poco, che in altri avrebbe destato altri sensi, la confortò ancora più. Per istornare il pensiero dalla cantante, e rendere schifosa ai propri occhi l’imagine d’ogni amore men puro, aveva Giovanni gettate in carta le parole che seguono:
"Quel canto che par venga dall’anima, e l’anima leva sopra se stessa, per che sozzi canali, prima di venire alle labbra amorose, s’aggira! Sotto quella pelle fremente di voluttà, che sporcizia d’umori, d’omento, d’insetti innumerabili che lì nascono e muoiono! Quel delicato color delle gote, degli occhi, de’ capelli, di che putredine biascicata si nutre! E in quest’avello l’anima immortale soggiorna, ispirata, ispiratrice; e tal sucidume non solo permette ma irrita l’amore!".
Questo foglio, pieno al solito di cassature, egli aveva dimenticato in un soprabito dato a raccomodare a Maria; la qual vedendo che non era lettera, lesse, e tacque. Ma egli, ritrovato il foglio, s’avvide che la lo doveva aver letto. E una sera che passeggiavano a un bel lume di luna (le notti a Parigi hanno una bellezza ineffabile sua), le entrò di codesto. Ella confessò, e sorridendo:
"Ma il fogliolino non parla degli uomini."
"Si sottintende."
"Peccato in verità che non siate chirurgo o medico."
"Sarei più passionato, e più spirituale che mai. Quel che mette disamore e ribrezzo, gli è il difetto che si discopra inaspettato: ma i noti e pensati rinfiammano il desiderio non ignobile, se il basso e debole spengono."
Così dicendo salirono per una via listata di luce. La luce e l’ombra giocavano in vago modo sugli alberi, le case, i muri, i sentieri, parte celandone, parte mostrando con amoroso pudore. Giovanni dopo breve silenzio seguitò:
"Per ignobile che in me fosse il desiderio, sempre si tinse d’affetto: o stima o pietà, o rimorso o dolore, e l’abito stesso che tante brame sazia, tante imbestia, le mie ingentilì."
Da questi vennero Maria con Giovanni a discorsi più cari: parlarono breve dell’amor loro, più a lungo del lor futuro destino. Egli che da qualche tempo pareva come dimentico di ciò, ne ragionò tanto più fermamente: ma la sua povertà gli stava sempre come spina nel cuore: e Maria, nella consolazione, pur s’accorava ch’e’ non le toccasse di questo. La serata, dico, fu lieta di quella letizia tranquilla che a’ buoni è più memorabile d’ogni tripudio; perché non iscende nell’anima come scossone con bufera, ma stilla com’acqua quieta che imbee a poco a poco le zolle sitibonde e i languidi steli.
Ma le gioie d’amore annunziano burrasca vicina. E sebbene questi due cuori, fatti già diffidenti dalla sventura, stessero in guardia contro i subiti mutamenti, quella tema valeva piuttosto a intepidire i piaceri che ad allontanare i dolori. Seguì dunque cosa che mise a repentaglio le tanto vagheggiate speranze.
Fin dall’ottobre aveva Giovanni avuta da un amico suo di Lombardia lettera che diceva: "Voi conoscete l’affetto ch’io v’ebbi sempre: e conoscete la mia nepote: non vi dirò ch’ell’ha ottomila scudi di suo, con altrettanti ch’io le destino: ma vi pregherò di venire a consolare del vostro affetto gli anni miei già cadenti".
Rispose del no ringraziando: la sua vita essere omai sacra al vero, e alle traversie che attendono gli amici del vero; non volere i propri tedii addossare a donna cresciuta nella serena solitudine della domestica pace. E’ temeva inoltre (ma questo non disse) dover essere legato allo zio più che alla nepote, e a lui dover dedicare più cure e più tempo che alla dignità ed agli studi della vita sua non si convenisse. Le quali cure nobil cosa era esercitare spontaneo, e senza sospetto di vili speranze, verso un vecchio povero; ma duro troppo vederle o temerle imposte come dovere ed esercitate com’arte. Di questa sventura, più orribile d’ogni miseria e d’ogni malattia, pauroso Giovanni, ricusò con animo grato ma senza sforzo, e come chi ubbidisce ad amata necessità. Agli altri motivi s’aggiungeva un più possente, Maria.
La quale nel novembre aveva conosciuto un conte romagnolo, che veniva in casa lo Svizzero, prima con isperanze di piacere alla Rosa; poi, visto il terreno duro, con brama di giorno in giorno più rispettosa, di non dispiacere a Maria. L’oriuolaio l’accoglieva bene per riconoscenza; che nel bisogno gli aveva dimostrato il suo buon volere. Grosso uomo; e tuttoché di sangue nobile e d’affettata cortesia, duro il viso e l’accento. Nell’incredulità incroiato e furibondo, ma probo; superbo verso gli uomini, colle donne modesto. Maria lo vedeva senza guardarlo, se non quanto quelle ricercate delicatezze glielo facevano molto notabilmente uggioso: ma le sue buone doti riconosceva, e, così alla lontana, stimava. A lui quella mestizia intelligente, quel pallore, suo malgrado, amoroso, occupavano quasi a forza il pensiero: e a questo aiutavano le lodi brevi ma quasi passionate di Rosa, donna di lodi non prodiga. Giovanni, al trovarlo lì tanto spesso, adombrava; né altrimenti esprimeva il suo malcontento che con certa fredda rassegnazione e sdegnosa. Ella se ne offendeva, interpretandola per non curanza: e mostrava di dar retta talvolta alle parole del conte pur per provare; e parlando all’uno, pensava all’altro; e alle facezie contegnose del nobile uomo sorrideva con l’anima lacerata.
Ecco intanto nuova lettera di Lombardia, che rioffre a Giovanni moglie. Questa parendogli buona congiuntura da conoscere il cuor di Maria; le mandò la lettera dell’amico inchiusa in una sua, che diceva:
"Maria, voi siete mutata verso di me. Vorrei dubitarne: ma troppo lo veggo. Questo m’è dolor grande: ma se il mio dolore debb’essere pace a voi, e se a me stesso dee risparmiare dolori più gravi, sia. Leggete l’inchiusa, e la risposta ch’io fo. Non ve la mostro per vanto, né perché conosciate il cuor mio: che v’importa di ciò? Ma questa mi sia almeno occasione d’interrogare i vostri pensieri. Che risolvete della vostra, che della mia vita, o Maria? Gl’indizii che mi deste d’affetto, eran eglino cenni fugaci di stima e di pietà, ovvero, com’io le intesi, promesse solenni? Saprete voi esser moglie d’un uomo povero, che desiderava, cercava potervi offrire un pane sicuro, e non può? Saprete voi consolare la mia miseria? e non maledirla? Soffrir meco i dispregi del ricco, l’invidia degli uguali; il bisogno in casa, la calunnia fuori? Oh Maria, non ingannate voi stessa, non m’ingannate. Nelle man vostre è la sorte mia. Aspetto un cenno da voi con rassegnazione accorata, con quasi disperata ansietà. Qualunque esso sia, non mi potrà togliere, o Maria, ch’i’ non v’abbia venerata e non v’ami: e l’avervi conosciuto non reputi grazia maggiore d’ogni merito mio".
In queste parole era un accento d’amore profondo ma cupo: e nuovo a Maria. Che sebbene cuor di donna buona sia l’indovino di tutte le lingue dell’affetto, può la passione stessa talvolta velare l’intelligenza; come in acqua limpida ma sciaguattata, mal si riflette il cielo e il sorriso umano.
I precedenti silenzii l’avevano mal disposta: adesso questa lettera le parve una bravata, un metterla al punto. Quelle stesse parole che in altro momento le sarebbero suonate potenti, ora parevano aride e fiacche. Appena letto, prese la penna, e in un impeto scrisse:
"Io mutata? fate bene a mettere le mani innanzi. Temete da me dolori più gravi? Fuggiteli: e non venite a mostrarmi i vostri sacrifizii, quasi rimprovero alla mia povertà. Se una moglie vi s’offre, accettate il presente dell’amicizia: l’amore verrà; se non è già venuto. Accettate, ve lo consiglio. — Oggi mi rimproverate il mio cambiamento: voi a me! chi sa quali rimproveri mi verrebbero un giorno? Siate ricco e felice. Lontano, non mi disprezzerete, spero; e io, sapendovi contento, godrò del ben vostro; ma che v’importa di ciò?
"Ecco quel ch’io risolvo della mia vita. Le prove ch’io vi diedi d’affetto, se fossero o no sincere, il cuor vostro lo dica: io non ho parole per raccontare i sentimenti dell’animo mio: e, le avessi, non è questo il momento. Quel ch’io promisi, prometteste anche voi; ma io, se ve ne rammentate, vi dispensai dal promettere. — La nuova offerta vi libera affatto da me. — A vedervi povero al fianco mio, ogni silenzio, ogni sospiro, mi parrebbe un rimprovero. Piuttosto la morte.
"Avete voluto la mia risposta: eccola. Ma non venite a domandarmi s’io avrei saputo esser moglie d’uomo non ricco. Ah, Giovanni, quando v’ho conosciuto, v’ho io domandato delle vostre provvisioni? Non son io avvezza a campare un’intera giornata con un pezzo di pane? V’ho io mai parlato d’altra speranza che d’essere amata, compianta? Ah Giovanni, le vostre parole mi fanno male. Avreste potuto abbandonarmi senz’essermi cagione di tanto dolore".
Egli s’aspettava tutt’altra risposta; non supplichevole ma tenera, che dicesse: vi ringrazio, eccomi. Incerto in amore, quanto in altre cose sicuro, e’ voleva a ogni passo essere sostenuto, sospinto, rincontrato: e le donne che questo fanno, non sempre sono le più innamorate; perché chi fa questo, ha il tempo di pensare all’altrui debolezza e ai modi di vincerla. L’altera anima di Maria vide in quella lettera come una disfida fatta alla sua generosità; egli nella risposta non vide l’amore offeso, ma la voglia di finirla; non badò all’accorato affetto dell’ultime parole, e non le credette del cuore. Onde rispose.
"Noi non c’intendiamo, Maria. Se m’amaste, non avreste no interpretata così la mia lettera. Ma altri vi sta a cuore, e vi stoglie da me, e mi calunnia. Badate di non ve ne pentire amaramente, badate. Ve lo dice chi v’ama. Un nobile difficilmente perdona a sua moglie gl’impicci che gli cagiona l’origine umile di lei; e le fa scontare la sua breve voglia con freddi e pesati oltraggi. Voi pia, pensate che vita avreste accanto ad un uomo che non crede le cose a voi care tanto. Ma, si mutass’egli, e v’amasse d’amore intimo e rispettoso: i pari suoi, le sue pari, pensate con quale occhio vi guarderebbero. Dicono che il tempo de’ pregiudizii è passato. Ah Dio mio! i poveri e le donne lo sanno. Questo vi dico per ben vostro, Maria. Perdonate. Veggo che tutte le mie parole son torte a mal senso. Tacerò. Ma lasciate ch’io mi dolga de’ vostri oltraggiosi sospetti. Io rimproverarvi mai la povertà vostra, la vostra povertà che vi fece più cara agli occhi miei? Così poco mi conoscete? Ah si vede che non ci intendiamo. E pur mi pareva... Povero me! povera la vita mia!"
Quando Maria ebbe la lettera, era già sera, ed essa in casa sola: onde poté rispondere singhiozzando liberamente, e portare il foglio da sé al portinaio dell’albergo di lui. La lettera, tutta vuoti che avevan fatti le lacrime grondanti, diceva:
"Non mendicate pretesti, per carità: lasciatemi almeno questa misera consolazione, ch’io possa stimarvi. Voi mi parlate d’altr’uomo? Ah se foste stato presente alle parole che intesi, e che dissi! Se m’aveste letto nell’anima allora! Ma né questo è tempo di discolpe, né io n’ho di bisogno, né voi ne chiedete da me. Sola una cosa vi dico: domani partirò per Quimper. Così non l’avessi lasciato mai! Così non fossi tornata in questa maledetta città! Oh la mia pace, la mia desolata pace, perduta per sempre! E chi me l’ha tolta? Un uomo ch’i’ non potrò mai maledire, ma che forse un giorno n’avrà rimorso nel cuore. Iddio ve li risparmi, o Giovanni. Voi non avevate intenzione di tormentarmi così: non è vero? Lo spero almeno. Non è possibile che l’anima vostra sia tanto crudele.
"Addio, per sempre. Vivete, se non felice, tranquillo: fate agli uomini quel bene che desiderate; e guardatevi dagl’ingrati. Possano tutti conoscervi com’io v’ho conosciuto. Del bene che un tempo m’avete voluto, e di quel che m’avete fatto con la vostra compagnia, vi ringrazio. Voi, se dovete confondermi con le tante delle quali vi resta appena un’imagine languida in mente, sia pur così: ma non mi disprezzate, Giovanni; non mi calunniate nel vostro pensiero. Io non vi ho fatto alcun male; o almeno non ho inteso di farvene. Addio".
Lasciato il foglio al portinaio, uscì in fretta, e rivenne ansando, che né Rosa né il suo marito erano ritornati. Allora la piena dell’angoscia la sopraffece: si buttò ginocchioni appiè del letto, guardando a un’imagine della Vergine; ma le lacrime le ne velavan la vista. Si chiuse il viso nelle palme; e piangeva e gridava senza parola, senza pensiero. L’anima da qualch’anno composta in riposo quasi verginale, e mezzo dimentica dei dolori cocenti, aveva ripresa l’antica freschezza; e ora il dolore tornando improvviso e più penetrante che mai, incrudeliva come in anima nuova. I guai passati, che parevano per lontananza illanguiditi, si ripresentavano fedeli al richiamo, schierati tutti, or distinti or confusi, grandi sì che coprivano il rimorso perch’eran rimorso essi stessi; pieni di pietà e di spavento. Ella li sentiva come se fosse un’altra, e insieme se stessa; e non si comprendeva. Quel che più la tormenta adesso, gli è che le pare d’aver con silenzio altero, con le svogliate parole freddato l’animo di lui, datogli pretesto a interpretar male il suo cuore. Vorrebbe riscrivergli, dirgli quant’ella lo ami, chiedergli perdono, promettergli più amore no, ch’è impossibile, ma più abbandonate dimostrazioni d’amore, e più mansuetudine, e più pazienza. Stava per cominciare la lettera: ma ripensando al grande amor suo, e a’ segni che gliene aveva già dati: "se non m’intese," diceva "segno è che non m’ama. Che posso far più?" E ripeteva: "che posso far più?" E singhiozzava disperatamente: e pensava la sua vita avvenire: e a quest’idea insopportabile inorridiva. Entrò Rosa in quel mentre.
Al vederla, le risovvenne della notte quando tanti anni fa la trovò accucciolata sul ponte: e uno spasimo, una vergogna, una riconoscenza amara la prese: le lacrime ristettero; tremava convulsa. Rosa atterrita di pietà, domandava: ella che non aveva parole né voce, le mostrò l’ultima lettera di Giovanni. E Rosa allora rassicurata:
"Gli si risponde; gli si fanno passare questi grilli dal capo: e finito ogni cosa".
"Ho risposto (e allora i singhiozzi ricominciarono: abbracciò l’amica sua, appoggiò il viso al seno di lei, e gridava in voce interrotta): domani... domani me ne torno a Quimper."
"Bene, brava! una delle solite tue. Ma se questa è cosa subito raccomodata! Bisogna proprio avere la smania di tormentarsi. Ma egli che dice, quell’altro capaccio? Non risponde? Non viene? che sorta d’uomini!"
"Glien’ho portat’ora la lettera."
"Ora la finisco io: ci vo da me, e vo’ vedere se..."
"Oh no."
"Come no? Insomma parliamoci chiaro. Ti conviene quest’uomo, o non ti conviene?"
"Impossibile ormai."
"Tu non devi cercare se sia impossibile o no. In due parole io vi metto d’accordo."
"Dirà che son io che ti mando."
"Lascia fare a me per cotesto."
Maria lagrimando senza più piangere, la guardava, e l’abbracciava più stretto: e Rosa impietosita come del dolore di bambina che si sia fatta male da sé: "Andiamo, chétati, se non c’è altro che questo di male". E la baciava in fronte, ed usciva.
Per la strada andava pensando come pigliare quell’uomo ch’ell’intendeva poco, e come sostenere l’onore del sesso. S’imaginava d’essere lei in ballo; e quali parole le sarebbe caro che un’altra dicesse in nome suo all’uomo amato. Maria si pentiva frattanto d’averla lasciata uscire; tormentava il pensiero per figurarsi i sentimenti di lui. Non raccapezzava più nulla, se crederlo l’uomo di prima o un indegno che si facesse gioco del suo dolore.
Rosa entrò ch’egli usciva. Al vederla, tra spaurito e consolato:
"Che c’è?"
"Vengo a sentirlo io da lei quel che c’è." (E in così dire si mise a sedere con autorità, e seguitava). "Da quella ragazza non c’è da saper nulla: ma io non debbo soffrire che le si usin soverchi."
"Io soverchi?"
"Lei soverchi, gnor sì: perché Maria non è capace di far torto a nessuno, e se..."
"Leggete."
E le porse la lettera ultima di lei: Rosa la scorse, e rispose:
"Codesto non vol dir nulla: bisogna vedere quel che la le avrà scritto lei. Vo’ altri uomini vi credete lecito tutta sorta infamità; e poi se una povera donna si risente: oh sesso perfido! Insomma che cosa intendete adesso di fare?"
"Vederla, rimproverarle il suo indegno procedere."
"Rimproverarle che cosa? Facciamo un po’ i nostri conti. Chi è che ha mancato di sincerità? Chi è che avendo in corpo un secreto, se l’è tenuto, eh? I suo’ impicci del non poterla sposare, del voler fare l’eroe piuttosto che procacciarsi un pane a tutti e due, a me l’è venuto a dirmeli, come se la mi volesse per moglie me. Crede lei che quella povera donna sia un ciocco, da non capire, e da non sentir dispiacere di questa doppiezza? Sì signore, doppiezza."
"Ma per carità, vedete in che stato sono; non mi tormentate: lasciatemi dire."
"Che vuol ella dire? Meglio che la stia zitto. Levare una povera donna dal luogo dove la se ne stava tranquilla, prometterle un destino sicuro tra breve: e poi, al primo ostacolo, impalarsi lì, e non le dire nemmeno: questo e questo segue; scusate; vediamo di rimediare..."
"Rimediare, ma come?"
"Poverino! a me me lo domanda il come? Eh via si vergogni costì. Dica un poco: le voleva o non le voleva bene a codesta ragazza?"
"Che discorsi?"
"Gli è un discorso da fare: perché chi lo capisce lei? Se le voleva bene, la ragazza era lì. Ci voleva tanto a chiamare un prete?"
"Ma poi?"
"Ma poi? Oh che? mi dica di grazia, così la non campa? Sentiamo, quanto le ci vuole al giorno per lei solo costì?"
"Cinque franchi."
"Per cinque franchi fo un cottimo, e vi mantengo io tutti e due."
"E i figliuoli?"
"E un tremuoto? E il diluvio? O che? i figliuoli dello spazzaturaio non campano? Scuse! Sa ella, signorino mio, a che si sta male? Qui (e si metteva la mano al cuore), qui, e non a quattrini."
"Ma, Rosa, abbiate compassione; finitela."
Ed ella, tagliandogli le parole, che pareva lo volesse mangiare: finischiamola, sì: mi dia le sue lettere, e...
"Mai."
"Mai? Oh che pretensioni sarebbero le sue? mi dica."
"D’amarla sempre a dispetto suo e della mia povertà, di volerla."
"Oh perché non lo diceva prima?"
"Ah Rosa, io sono un disgraziato."
"Un po’ pazzo, scusi: ecco il male. Ripeto, se c’è sotto altri impicci; se Maria non fa per lei..."
"Ma insomma, per carità..."
"Quanto al campamento, quel che fa per uno, e un capo ameno come lei, ci si campa due e tre."
Giovanni aperse il suo scrittoio, ne trasse il danaro che aveva, le lo mise nel grembiule, e disse: ecco, portateglielo, dite ch’ella oramai deve pensare a spenderlo e a risparmiarlo; non mi neghi questa carità.
"Ragazzate! Appena le vede queste monete Maria, la me le schiaffa nel viso. Quel ch’i’ voglio sapere da lei, gli è se la le vuol bene davvero."
"Voi siete donna; e..."
"Io son donna, e conosco gli uomini che son fatti come gli altri uomini: ma i letterati, veda!..."
"Oh sì, l’amo; col cuore l’amo; intendete? col cuore."
"Badate veh! Perché..."
"Se ci bado! Credete voi che possiamo abbonirla?"
"Proveremo."
"Vengo?"
"Oh no, signore."
"Lasciate vi seguiti almeno."
"Purché la stia giù in istrada; e la non salga che quando aprirò la finestra."
Così rimasero. Giovanni fuor di sé voleva baciare la mano di Rosa; la quale ritrosa sorridendo, e contenta in cuore come foss’ella l’innamorata: Sguaiato, costì!
Maria nel vederla le si levò incontro, e non osava fiatare; ma l’altra: non è nulla: raccomodato ogni cosa: pace, e, se tu vuoi, matrimonio.
E mentre Maria rimaneva in atto di rimproverarle lo scherzo importuno: non c’è rimedio: o sposarsi subito o lasciarsi per sempre. Voi altri siete du’ pazzi: starete lì tutta l’eternità a contemplarvi, a mangiarvi l’anima, a aspettare il Messia. Pare come ne’ drammi: tira, tira: c’è ancora due atti prima che vadano a letto, o prima che muoiano. Oh che cosa vi manca?
"Ma, Rosa, ti pare, dopo quel ch’è seguìto?"
"Che cos’è seguìto? Vi siete scritti delle lettere giucche, le quali per opera mia son diventate la scritta di matrimonio."
"Ma spiegami un poco."
"Spiegami! Gli ho detto: ci pensate perché siete povero? Oh voi, povero costì, non campate? Di quel che spende un giovanotto, ci campa la moglie, e anche la balia. Allora pareva come un cieco, che gli si renda la luce degli occhi. E’ non ci aveva mai pensato a questa grande scoperta. Contento, pentito, abbonito. Buon figliuolo!"
"Ma che diceva?"
"Lo vuoi sapere? Gli è giù."
Maria l’abbracciò: Rosa aperse la finestra: il letterato saliva gli scalini a tre a tre.
Ma conoscendo d’aver che fare con due teste secche, Rosa si mise di mezzo, e, lui appena entrato: badiamo che non si torni alle solite. Lasciatemi dire a me. Tutti e due (non è vero?) siete dolenti di quel ch’è seguìto; e insomma, senza tanti preamboli, vi volete bene?
Risposero con lo sguardo, egli più impicciato quasi di lei.
"In nome di Dio! Fate dunque conto d’esser marito e moglie. Voi, signorino, in presenza mia qui, datele un bacio in fronte; poi subito via: che questa non è serata da veglia."
La baciò. Ella guardando a Rosa, sorrise commossa; e guardando a lui, arrossì tranquillata. Rosa lo prese per mano, e: ora che siete guarito, andate a letto.
La mane venne da lui l’oriuolaio marito della Rosa, vestito da festa, lieto e rispettoso. Giovanni l’accolse con gioia, come persona vicina a Maria; ché l’amore raggia da un oggetto su molti, e li fa venerabili o gai.
Per venire, il buon uomo aveva chiusa la bottega: e si vedeva nel suo far di svizzero, povero ma dignitoso, non so che solenne. Giovanni, cattolico di cuore, amava questo protestante sincero; e le sue virtù invidiava onorando, quell’uguaglianza d’umore, quella giovialità tranquilla, quella modesta fermezza. L’accolse con gioia. - Il brav’uomo esitava come chi venga a chiedere grazia grande; e cominciava, così:
"Caro signore, io vengo a pregarla di cosa che la non mi vorrà, spero, negare. Ma non m’interrompa di grazia. So delle sue risoluzioni, caro signore, quel tanto che me ne disse mia moglie: e anco senza saperne, non penserei di lei altra cosa che onorevole. L’opinione ch’i’ ho, caro signore, di lei, non so se la se ne sia potuto accorgere, perché certe cose io non le so dire, ma le sento quant’altri. Sono svizzero, sa?: null’altro che un buono svizzero. Mi scuserà se non fo cerimonie. Quel ch’io la volevo pregare, gli è... non mi scomoda punto, veda... In certe occasioni c’è qualche spesuccia di più... Io ho lì un migliaio di franchi... Mi lasci dire. Glie li offro con cuore. Non mi neghi questa consolazione, gli accetti. Aspettare un anno, due, tre, non mi fa. Ne la prego in nome di Rosa. Rosa è una buona figliuola: troppo le dispiacerebbe..."
"Degno uomo, e vorreste ch’io vi privassi del frutto delle vostre fatiche?"
"Che fatiche? Io non n’ho di bisogno. La lo vede: si campa, con un po’ di giudizio, e coll’aiuto del cielo."
"Ma s’io morissi?"
"Per codesto si può morir tutti. Non pensiamo a disgrazie."
"No, mio buono amico, e ve lo dico in verità: non n’ho di bisogno per ora. Ma se mai..."
"A me piuttosto che ad altri: me lo promette?"
"Sì, ve lo prometto; e vi stringo la mano; e vorrei potervi mostrare il cuor mio."
"Ci voglia bene: ecco fatto. E scusi, sa? Un altro glien’avrebbe profferto con più bel garbo, ma non con più cuore. Io certe cose (ripeto) non le so dire."
"E le cose che sentite voi, degno uomo, nessuno le sa dire: credete. Tra i molti beni ch’io debbo a Maria, pongo questo, d’avermi fatto conoscere voi."
"Oh Maria è una buona ragazza. Ma sfortunata! Glie la raccomando."
Quest’ultima parola commosse più di tutte Giovanni, che gli strinse la mano, movendo le labbra e senza parola.
Da sera a mane che cambiamento nell’anima di Maria! Ieri vedova dell’ultima e più strettamente abbracciata speranza: oggi alle speranze ringiovanite ricongiunta più forte che mai. Quietata nel pensiero della vinta burrasca, nell’avvenire non sapeva affisarsi. Così navicella raccolta in porto, si gode di breve calma, intanto che il mare e il cielo preparano a lei, rinavigatura, tempeste.
Sulla spiaggia di Corsica, che più vicina si stende all’Italia, sentiste mai imperversare con fischi a mille ricrescenti e con buffi profondi quasi tuono, il libeccio; e il lungo fiotto frangersi molto sonante, e le macchie stridere per l’incendio che corre quasi drago immenso portato dal vento, e una nube tra cinerea e rossigna sedersi grave sulle spalle de’ monti? Ma i voraci impeti dell’aria quasi in un subito cadono; e il sole signoreggia beato l’ampio sereno; e i colli ridono nell’azzurro quieto che dal bruno di quelli par fatto più limpido; e il cielo e la terra, memori del passato scompiglio, paiono, ricreati, congratulare alla mutua bellezza.
Si riaveva Maria, e ritornava alla freschezza come del primo amore così del primo pallore: e negli atti più sciolta, nelle parole mostravasi più cordiale. Di lì prese animo il conte romagnuolo; e interpretando a speranza quel mutamento, si pensò di scriverle una lettera, patrizia e letterata molto, in questo tenore:
"Quel nobile ingegno, o signora, del quale in sì gran copia vi fornì la natura, non può certamente non s’essere oramai avveduto della gentile affezione che l’ornato spirito vostro e il leggiadro volto e l’onesto portamento destarono dentro all’animo mio. Né questa poca mia nobiltà di sangue, e questo qualsiasi decoro d’avita ricchezza del qual mi fregiò la fortuna, m’è o sarà caro, se non quanto m’aiuti a onorare tanto bellissimo fiore di leggiadria e di virtù. Le quali doti, la ragione de’ tempi e la considerazione attenta delle mondane cose c’insegnano essere ornamento precipuo de’ petti mortali. E se il volgo degli uomini questa opinion mia dispregiasse, io la sua matta superbia a più gran diritto dispregerei: e quanti sono spiriti gentili e magnanimi, di buon grado verrebbero nella sentenza mia".
Seguitava su questo andare. Maria gli rispose:
"La cortese sua lettera troppo m’onora: io non merito tanto. Quand’anco la mia fede non fosse data ad altr’uomo, temerei d’accettare la sua profferta. Ella troverà facilmente meglio per ogni verso: ma se mi fosse lecito un consiglio, le raccomanderei di cercare una compagna tra le pari sue. Quando pure il più ricco o il più nobile de’ due abbia sentimenti così generosi e volontà così ferma in amare come credo sarebbe la sua, l’accettare certi doni talvolta costa più dell’offrirli. La riconoscenza ispiratami dalla bontà sua mi fa tanto ardita. Perdoni, e mi creda di vero cuore...". Mostrò le due lettere a Giovanni; che disse: buon uomo! migliore di quel ch’e’ pare.
Ed ella: certamente buon uomo. Ma vossignoria non sarà, spero, d’ora innanzi geloso d’un conte così.
Giovanni si rabbruscò, e con accento dolcemente severo: non celiate, Maria, sull’affetto. È sempre venerabile cosa l’affetto d’anima umana qualunque ella sia. Se quest’uomo v’ama da conte, e se amarvi altrimenti non sa, la colpa non è in tutto sua. Ma ve n’è pur tra loro ch’amano con viscere umane; e di quella fortuna da molti invidiata e da loro medesimi forse ostentata un giorno, sentono il peso grave. Io ne conosco.
"Non c’è bisogno di pigliare la cosa tanto sul serio. Quelle parole (Dio lo sa) non erano nella intenzion mia punto crudeli; e venivano da un sentimento..."
"Ve ne ringrazio, Maria. Ma la profferta di quest’uomo mi ridesta nel cuore una memoria consolatrice, e adesso innocente più che mai. Anco a me fu fatta, anni sono, da persona d’altra condizione che la mia, offerta simile; ed era in nobile modo significata. Godo che mi sia data occasione di farvene cenno: ma di più a lungo parlarne ho riverenza: e quella imagine velata di donna avvinta già ad altre sorti giova che rimanga nell’ascoso de’ pensieri, non tocca neppure da parola."
"Domando scusa s’ho, non volendo, offesa una memoria a voi sacra."
"Scherzate adesso, Maria?"
Ed ella, non gli lasciando tempo di finire, con trepida ansietà, e quasi supplichevole: "oh no!"
Conobbe egli allora d’essere amato.
Rosa intanto affrettava le cose. Fu posto al matrimonio il dì vensei di dicembre, la festa di san Giovanni: e risolvettero, subito dopo, lasciare Parigi (città a lei odiosa, noiosa a lui), e rifuggirsi in Corsica dove campare con meno; giacch’egli in Italia non poteva.
Il dì vensei al medesimo altare Giovanni e Maria ricevettero e il corpo del lor Redentore e il titolo di consorte, senz’esultazione di gioia, tementi del mondo e di sé, speranti in Dio, rassegnati a nuovi dolori. La sera, inginocchiati alla sponda del letto, pregarono alla madre della gran Vittima, all’apostolo amico di Gesù, banditore degno del nuovo amore: e Giovanni disse così:
"Dateci, o Dio, gioie pure, dolori sopportabili, amore paziente, lieta e forte concordia nel bene. Datemi un pane per lei. Se destinato a essere padre, donatemi vita e virtù da educare i miei figli. Se i giorni a me numerati son brevi, nelle vostre mani raccomando, Signore, questa ch’è omai tanta parte dell’anima mia. Con l’esempio e con la parola dateci di consolare e nobilitare l’anime de’ fratelli. Insegnatemi ad espiare le colpe mie tante, che non ricadano sulla povera famiglia mia. Perdonatemi. Benediteci. In voi temendo esultiamo: in voi, lieti od afflitti, riposeremo".