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R. Schumann (op. 68) Indice

LIQUIDAZIONE



lettera al direttore d’un giornale


Signor Direttore,

Ella mi propone, molto cortesemente, di lavorare per il Suo giornale. Grazie tante, ma non sa, caro signore, cosa c’è di nuovo? Chiudo l’officina. Che vuole? I miei libri non vanno, è gran ventura se qualcuno me ne arriva alla seconda edizione; capisce, a questi tempi! Intanto gli anni passano, l’ingegno si stanca, mi cade il cuore. Creda, non v’è più avvenire per me. Ora, gli scrittori nuovi, chissi so bravi, come diceva don Ciccio De Capo a Massimo d’Azeglio. La roba mia non ha il taglio nè il colore che piacciono al pubblico, e non c’è rimedio; chiù d’accussì no saccio fare. Vuole che mi ostini a questo melanconico mestiere? Chiudo l’officina e vendo quel po’ di ferri. Tutta roba in cattivo stato, roba di poco valore, ma tanto ne vorrei pur trarre qualche cosa e prego anzi Lei di venirmi in aiuto.

Ci ho, per esempio, dei meccanismi usati da romanzo. Li darei per una miseria; supponga per il volume Chérie di Goncourt; e con pochissimo si possono rimettere a nuovo come tanti sanno fare.

Lei mi dice che non usano più, che ora si fa tutto vivo e naturale; tanto è vero che poi i libri muoiono naturalmente, da sè; una cosa prodigiosa. Ha ragione, non ci avevo pensato. Allora

mi accontenterò se un confratello del mio stampo me li prende per qualchecosa meno di Chérie, per un giuoco di pazienza, per una scatola di frasi da comporre odi alcaiche, supponga. È ancora troppo? Piglierò gl’Inni Sacri del Manzoni, che non valgono più niente, e facciamola finita.

Ho pure delle vecchie lenti da presbite, per osservare le cose e le anime. Veramente sono in forse di spezzarle per uno scrupolo di coscienza. Dopo averle adoperate un pezzo in buona fede, m’è venuto il dubbio amaro di non so quale occulta falsità nel cristallo. Che non sieno del tutto acromatiche mi pare impossibile; tuttavia, passi! Si può credere che abbiano preso il colore del mio spirito. Sarebbe un piccolo guaio. Una goccia d’alcool e io le garantirei perfettamente e per sempre oggettive a

ogni valoroso artista che sappia guardare senza spirito. Ma il peggio si è ch’io vedo un mondo diverso da quello che vedono i miei confratelli d’arte; diverso dal vero, insomma.

Vedo un mondo ove appare del brutto, del sudicio, del vile più ancora che non ne rispecchino certi libri dei miei colleghi; e appare anche del buono, del bello che non esiste certo, perchè in quei libri non si trova mai. Pare impossibile, ma io non vedo dei grandi uomini che tutti vedono, e vedo poi invece delle donne grandi che nessuno conosce. Leggo le fantasie degli scogli alpini benchè siano così alte, e non posso leggere quelle di certi scrittori benchè siano così basse. Vedo in tutte le anime qualche riflesso bagliore di una luce ignota, di una idea sovrana; e non posso veder la luce dell’idea sperimentale neppure nel cervello di Emilio

Zola. Non vorrei che una goccia di maledetta poesia fosse stata mista al cristallo; perchè l’artefice fece queste lenti prima che il romanzo diventasse scienza, prima che un maestro, discorrendo di tale mirabile evoluzione, correggesse timidamente Voltaire così, presso a poco: Nul genre n’est bon si ce n’est le genre ennuyeux.

Sa, signor Direttore, come finiranno queste lenti? Nè le vendo, nè le spezzo; le tengo, le faccio legare in oro perchè mi ricordino il generoso fuoco del mio cuore quando s’illudeva, folle ma felice, di penetrar con esse l’universo, per trarne, secondo una propria idea dell’arte, fantasmi d’anima eterna e vive ombre di esseri; perchè mi ricordino qualche spirito fedele e ardente che voleva pur seguirmi e guardar con esse, sdegnando chi ci sdegnava. E prima di morire

gitterò in mare, come il vecchio re di Thule, cristallo ed oro, perchè nessuno più se ne inebbrii dopo di noi e si perda.

Lei mi chiede: e documenti umani? Ne tenevo parecchi, ma davano pessimo odore. I rispettabili personaggi delle mie collezioni ne erano stomacati; qualcuno ne soffriva addirittura nella salute. Una bella signora altera della collezione d’ideali, un abate e due venerabili dame della collezione di macchiette parlavano di andarsene. Ho dovuto gittare dalla finestra quanto avevo di poco pulito, beneficando forse, senza saperlo, qualche spazzaturaio della letteratura; qualche povero collega, avido di lettori, di quattrini e di fama. Non dico mica di non possederne ancora, documenti umani. Ne ho di rari e curiosi che mi costarono un occhio quando li raccolsi, con infinita compiacenza, nel taccuino. Pure li cedo

tutti per un solo biglietto circolare di ferrovia, de’ più modesti. Quando osservo la vita, e la penso e la porto nel mio petto, essa vive ancora, dentro a me, del mio stesso calore, del mio sangue; quando la noto nel taccuino, vi muore miseramente, vi si dissecca, io vi cerco invano una ispirazione, la mia fantasia la sdegna, il mio cuore non la sente più. I miei migliori documenti umani non sono miei; mi vivono bensì intorno o almeno passano davanti a me.

Poveri ideali miei, e voi pure andrete dispersi. Questo me ne consola, che tutti, anche la bella signora schifiltosa, conoscono il fango della via e degli uomini, perchè è appunto là ch’io gl’incontrai veramente. E questo ancora me ne consola, che nessun nemico inferiore, nessun poeta dell’arte nuova dirà loro villania che li tocchi, tanto al di sopra

della folla passa il loro sguardo inteso al di là della vita. Io apro ai nobili signori, inchinandomi, la porta, onde tornino nel mondo, le donne pure ad amare e soffrire, gli uomini forti a soffrire e operare. Se parleranno di me che li ospitai, certo diranno che la mia casa non era degna di essi, ma che la mia devozione lo era.

Quanto alle macchiette, ai personaggi di seconda riga, è un altro discorso. Qui faremo affari, signor Direttore. E tutta roba da vendere e da vender bene. Ne tengo di ogni qualità, vecchie e giovani, brutte e leggiadre, stupide e argute. Tengo qualche gentile signora, qualche bel cavaliere che Lei, a prima giunta, piglierebbe per ideali. Li smonti un poco e vi guardi dentro; vedrà che non c’è l’ombra d’un’idea, sono macchiette. Tengo dei personaggi solenni, dei

dignitari, delle celebrità, degli aristocratici che mi guardano dall’alto in basso e non sospettano di essere graziose macchiette della mia collezione, classificate per ordine di ridicolo, ciascuna con l’etichetta della propria particolare vanità, ciascuna atteggiata giusta la propria linea comica, interna o esterna.

Poi ci ho le macchiette serie, le macchiette amabili, atte a sostituire, occorrendo, gl’ideali, a rappresentare le prime parti.

Mi pesa di staccarmene, perchè la loro conversazione quieta e modesta mi riposa lo spirito e parecchie sono veramente amiche mie, persone care.

Queste le potrei cedere solo a qualche delicato artista, capace di rispettarle, di metterle in scena con lo stesso ambiente degno, buono in cui vivono la vita reale; capace di rappresentare con maggiore sentimento, finezza ed effetto ch’io non saprei, quel vero nè sublime, nè basso, nè patetico, nè ridicolo, che si trova tutti i giorni in tutti i luoghi.

Avrei dei paesaggi quasi finiti. Ahimè, non c’è abbondanza d’altro in Italia. Il sentimento della natura, da dieci anni in qua, ce l’hanno tutti; ed hanno una ricchezza di tavolozza ch’io non possederò mai. Non ho cobalto, si figuri; come farò a descrivere un cielo che adesso paia tollerabile?

Come saprò io mettere in un volume i colori che altri oggi sa mettere in un sonetto?

Lessi di recente dei prodigi d’analisi ottica, degli spettri solari in versi. Cosa vuole che faccia io senza neanche cobalto? Chiudere, chiudere e vendere i miei paesaggi a peso di carta.

Io sono solito tenere un fiore sul mio tavolino.

Se mai vi fosse nel mondo qualche semplice creatura di molto cuore e di poco spirito che avesse letto le cose mie con una tal quale benevolenza per esse e per me, le offrirei la bianca ultima rosa che muore sulle carte abbandonate. Ci siamo amati, la povera regina ed io. Ella era una mistica poesia, uno slancio idealista della terra amorosa, e mi diede la sua idea di bellezza, il suo arcano spirito di fragranze. Io le diedi un rispettoso culto, una dimora semplice dove ne voce nè pensiero mai poterono offendere la sua fiera purezza.

Avrei ancora, signor Direttore, un po’ di vecchia fede, che m’ha servito, lo dico apertamente, a scrivere. Ma, se la vendo, come vivrò?


fine.

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