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OLIMPIO
OLIMPIO
Un giorno che piovea dirottamente,
(Era il pallido ottobre), e i valligiani
Del mondo si perdean dentro la mota,
Un giovinetto, amico mio, bizzarro
Gobbo, dagli occhi stranamente neri,
Questi versi cantò sotto l’ombrello:
— O padre eterno, se hai tempo da perdere
E se non dormi nei placidi cieli,
Tu che ogni giorno alla turba ti sveli,
Padre, una volta, una sola, a me svelati!
Deh mi esaudisci e mi dona, o Signore,
Un po’ di lusso, di calma e di amore!
Voglio un giardino ove i cedri coi salici
Fingan le valli dell’Etna e del Rosa;
Dove il colibrì, tra i fior di mimosa.
Canti in famiglia col gufo e la rondine;
Dove, coperto di un’ellera eterna,
Mi sembri un chiosco la casa materna.
Voglio una donna cui tutte somiglino
Le cento donne a vent’anni sognate;
Voglio una donna di tempre infocate.
Che sia la santa, che sia la Proserpina,
E vinca in arte di teneri ludi
Quante hai lassù schiere d’angioli nudi!
Dammi la calma, la calma degli angeli
Quando han cenato e che in cerchio fumando,
Dentro le piume dell’ali soffiando
Globi di ambrosia da pipe di zucchero,
Dicon fra lor: siamo un capolavoro! —
Deh fa che tale io mi creda con loro!
Oh schiudi, schiudi il celeste deposito
Dei puri olezzi, dei raggi serbati
Ai fiori e agli astri che ancor non son nati!
Sol io non valgo una viola, una lucciola?
Via! mi esaudisci e mi dona, o Signore,
Un po’ di lusso, di calma e di amore! —
Così cantava Olimpio, il gobbo strano.
E la pioggia cadea, colla beata
Quiete degli immortali, in un monotono
Metro rimando sulle fronde e i ciottoli
L’Iliade delle gocciole.
L’ombrello
Di Olimpio segna sulle bianche nubi
Un semicerchio che sembra la porta
Di una lontana galleria nel cielo,
Buja come un mister. Sono allagate
Le vecchie casse dei poveri morti.
Sono allagati i giovinetti nidi
Degli usignuoli; un passeggier non scorgi,
Per quanto è vasta la pianura.
I carri
Dei contadini sotto i porticati
Se ne stan colle braccia in su rivolte
Come turchi preganti; i focolari
Prestano un lume intermittente e pallido
Alle finestre, e il genio campagnuolo
Sembra da quelle osservar tristamente
La rovina dei fiori.
E Olimpio canta:
— I miei giorni in un sogno dileguano;
Son già lungi, ben lungi i più belli!
Come un volo — di uccelli — che emigrano
E che solo — precipita in mar.
Li ricorda? sa forse l’Oceano
Se le piume avean d’oro lucenti,
Se eran belli — i concenti — di lagrime
Degli uccelli — che ha visti annegar?
I miei giorni in un sogno dileguano!...
Presto un gobbo di meno avrà il mondo;
E in un buco — profondo — ma piccolo
Qualche bruco — la terra di più!
O natura, se nascono i salici
Dalle salme dei gobbi, ah perdio!
Così torci — tu il mio — che mi veggano
Rane e sorci — guardando all’insù...
Mi ameranno: il tranquillo rigagnolo
Spargerò d’ombre tremule e fresche;
Degli amici — alle tresche — di foglie
Cantatrici — un idillio farò.
Chi sa! forse l’amore oltre il tumulo
Ai mutati viventi non falla:
Qualche errante — farfalla — può nascere
Qualche amante — che il gobbo sognò! —
Così cantava Olimpio il gobbo strano:
E intanto i ceruli
Monti lontani
Scotean la nebbia
Dai dorsi immani,
E un rezzo tiepido
Giunto — in quel punto
Sapendo niente — dall’Oriente,
Dalle piramidi.
Dai templi eccelsi,
Scotea fra i gelsi.
Modestamente,
L’ultime gocciole
Che, lente lente,
Cadean sui prati,
Simili a lagrime
D’occhi — malati.
Fiocchi — di lana
Parean le nuvole,
E una campana
Lontana — al dubbio
Del vïatore
Dicea: tre ore.
«Veh, un gobbetto! Oh il bel gobbetto!»
Dal più folto di un boschetto
Questo grido a un tratto uscì.
E il gobbetto, il bel gobbetto.
Cessò il cauto e impallidì.
«Oh per Bacco! dentro il sacco
Porti un putto, porti un pacco,
O una tromba da suonar?
Oh per Bacco! giù quel sacco.
Lo vogliamo esaminar!»
Ed ecco dal folto compare un bel volto,
E un altro lo segue, da un’iride avvolto
Di lunghi capelli che sembrano d’or:
Son due giovinette che usciron dal folto.
Soffuse le guancie di vago rossor.
Han fior sulla vesta, han fior sulla testa,
Li han forse cosparsi per irne a una festa?
Van forse a un altare per farsi adorar?
Han fior sulla testa, han fior sulla vesta,
E il povero Olimpio sta muto a guardar.
«Belle dame — dice poi —
I tesor del sacco mio
Se volete esaminar,
Le padrone siete voi;
Ma lasciate ch’io v’osservi
Che son ossa e che son nervi
Che vi occorre di slacciar.
«Con quegli occhi celestiali.
Con quel labbro, con quel crine.
Con quel seno ammaliator,
So che molti e molti mali
Si pon fare, e esperte siete,
Che già punto entrambi avete
Questo povero mio cor.
«Ma però se occulte piaghe,
Se dolor senza lamenti
Non vi basta di crear;
Nè il pensier vi rende paghe
Che ridendo assassinate,
E che sempre, ove passate.
Resta un’anima a pregar;
«Che, di notte, a voi pensando.
Chi vi ha viste alla mattina
Ha l’inferno al capezzal;
E, alla coltrice parlando.
Può giocarsi il posto in cielo,
E infelice e bieco e anelo,
Come l’angelo del mal,
«Risvegliarsi il giorno dopo
Pien di affanno e di memorie
Qual chi riede da lontan;
Se non bastano allo scopo
Per cui Dio vi ha poste in terra
Queste vittime di guerra
Già cadute o che cadran;
«Se il piacer già in voi ne langue,
E vi punge il desiderio
Di più pratici martir;
Ecco il cuore ed ecco il sangue
Di un gobbetto innamorato...
Il mio sacco è preparato.
Non vi resta che a ferir!»
Le giovinette risero,
E dissero fra lor:
Questo gobbetto è lepido
In parola d’onor!
E volte a lui: — Sei piccolo,
Però ne sai di belle;
A raccontar storielle
Dinne, chi t’insegnò? —
Nessun, mie donne amabili;
Ho imparato da me;
Oh il sacco delle bubbole
Por ve lo posso ai piè. —
Deh, se ne sai, raccontane! —
Come vi garberà —
Vieni in giardin: la vecchia
Addormentata è già. —
Splendea la luna e al raggio
Umido di rugiada,
Per la fiorita strada
La comitiva entrò.
Ombrie bizzarre Olimpio
Spargea col suo gobbetto,
E le due donne stretto
Se lo tenean fra lor.
Al vago lume un timido
Gnomo il poeta par...
— Delle storielle il titolo
Prima di cominciar? —
E il gobbetto inchinandosi:
— Corbellerie stupende!
Saran Fiabe e Leggende
Di spiriti e d’amor!