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PAESAGGI
A Carlo Mancini.
(Da un quadro di Emilio Praga).
PAESAGGI
I.
Era un parco antico e squallido
Da molt’anni abbandonato;
Desolato
Come un campo di battaglia,
Pien di nidi, e rami e zolle,
Come un colle — orïental.
Querce ed olmi e abeti e frassini,
In ferace abbracciamento,
Sotto il vento,
Si movean come un sol albero;
E alle nubi, augusta e folta,
L’ampia volta — era guancial.
E, disotto, eran rigagnoli
Zampillanti in vaghi suoni
Pei burroni;
E, con gesti da cadaveri,
Tronchi fracidi riversi,
E cospersi — d’alghe e fior.
Eran templi d’erba e d’ellera,
Gallerie di clematiti.
Foschi siti;
Trasparenze glauche ed umide,
D’ombre tremule rabeschi.
Toni freschi — e toni d’or.
Compagnie di strani Fauni,
Su marmorei piedestalli,
Scabri e gialli,
I sentier ne sorvegliavano,
E specchiavansi agli stagni;
Mentre i ragni — erranti ordir,
Fra quei menti aguzzi e lepidi.
Si vedean le argentee reti;
E, faceti.
Gli augelletti si posavano
Su quei pugni irsuti ed alti,
A far salti — ed a garrir.
Ai meriggi, alto silenzio
Incumbea sulla riviera;
Se non era
Il cader di un frutto fracido
Che facea, nell’acqua immota,
Una nota — e nulla più.
I tramonti vi eran tragici;
Ombre orrende, incendii immani!
Draghi o nani
Somigliavano gli arbuscoli,
E i grandi alberi giganti
Inneggianti — a Belzebù.
Il viator che, a notte, rapido
Presso il parco transitava,
Palpitava;
Si sentìa sul viso battere
Come scosse l’aure dense
Da ali immense — di sparvier.
Nè fanciul di nidi in caccia,
Nè pastor, nè mendicante,
Nè brigante,
Nè giammai di amanti coppia
(Tanti spetri vi eran corsi!)
Osò porsi — in quei sentier.
II.
L’uom se ne va senza indagar l’arcano;
Giunto alla meta, al termine abborrito,
Al di che tutto strugge,
Si accorge di aver stretto nella mano
Un po’ d’aria che sfugge.
Egli, o s’illuda alle apparenze incerte,
O preghi, ignaro del Nume, o allibito
Sghignazzi in faccia al cielo,
O del Real dorma sul seno inerte,
Vive e muore in un velo.
I suoi piacer sanno di tosco, i mali
Gli aizzan l’alma ai giubili vietati
Che presente e non trova:
E dalla culla all’avel (due guanciali!)
Ciò che sempre s’innova.
Carlo, ne san più assai gli immensi boschi
Sovra cui sono i secoli passati;
Dove, immobile e chino,
Al suon dei rami palpitanti e foschi,
Meditava il bramino.
Di certezze più ricca è la brughiera
Che, a dispetto dei geli, eterna il fiore
Del luppolo e del timo;
Sa dove porta la regal riviera
Le sue pietre e il suo limo.
Pane immortale, fra le biade, irride,
Coi suoi cori di Fauni, al mietitore;
Lo stagno, a cento a cento,
Cader dal fiero campanil rivide
Le crocette d’argento.
E la montagna che si specchia al lago
Vince in gloria la Venere di Milo;
Prima che il greco artista
Sfidasse il sol colla divina imago,
Di quel masso alla vista,
Che stendea lungo il limpido orizzonte,
Sotto il raggio lunar, l’ermo profilo,
Qualche pastor poeta
Fermò la greggia e, colla gioia in fronte,
Disse: — È costì la meta! —
Sì, ciò che l’uom calpesta e per cui passa
Senza tender l’orecchio e alzar le ciglia,
Ciò con cui io favello
Pel tramite dei versi, e in te trapassa
Pel veggente pennello,
Carlo, è un tesoro che ci ha dato Iddio
Come ci diè gli amici e la famiglia!...
Oh! dimmi, quante volte
Ha le tue fedi un blando nuvolìo
Nelle sue spire avvolte!
Dimmi che cosa sa narrar la terra
Dissepellita dall’aratro appena,
Quanti avvisi divini
La primavera dal suo sen disserra...
Dimmi i cenni marini!
Spesso io mi curvo al tripode profondo,
Atomo qual mi sono; e l’alma scena
M’agita e mi sublima;
E mi inabisso nei mister del mondo
Per risalirne in cima!
Un dì, (lontano come i dì felici)
Per una landa erravo ove tu avresti
Una tela eternata;
E pensavo a mia madre ed agli amici,
E alla patria lasciata.
Trovai quel parco. In mezzo era un castello:
Di fulgori splendean biechi e funesti,
Pel tramonto, i suoi vetri.
Là stetti e appresi ciò che fosse quello
Ch’altri chiamava: spetri.
III.
Lungo il viale,
Per i viottoli,
Nelle sale,
In mezzo ai portici,
Dalla freccia
Delle aguglie
Fino all’ultima
Corteccia,
Dove intreccia
La sua feccia
Il ramingo
Scarafaggio,
Perchè un raggio
Dell’albor
Vi dipinga
Perle ed or;
Nelle ogive
Che si abbracciano
Più lascive
Delle Najadi;
Nelle grotte
Che somigliano,
Quando è squallida
La notte,
A una botte
Dove, a frotte,
Istrioni
Con megere
Vanno a bere;
Sul manier,
Nel vallone
Torvo e ner;
Per le vaghe
Latitudini,
Per le plaghe
Che si incurvano,
Trasparenti,
Sulle cernie
Zone roride
Fuggenti,
Dove i venti,
Caldi e lenti,
Van dicendo
Alla rugiada
(Chè non cada
Pria del dì),
La leggenda
Delle Uri;
Dappertutto,
In terra e in aria,
L’alto lutto
Ed il silenzio,
Le movenze
Spaventevoli
E le magiche
Apparenze,
Son parvenze,
Son coscienze,
Son memorie
Palpitanti,
Favellanti
In amistà
Della storia
D’altre età!
IV.
Vedi la selva delle querele estatiche
Drizzar nel buio le braccia ritorte,
Funebre asilo di civette e d’upupe
In vago sonno assorte?
Le diresti Titani, a cui l’olimpica
Ira inchiodava i piè possenti al suolo,
Da mill’anni seguenti delle nuvole
E invidianti il volo.
Sai perchè sì lontano i rami allungano
Dal poderoso tronco?... Un dì, la plebe
Che le giovani piante errar vedevano
Per le feraci glebe,
Intenta ai riti della bionda Cerere,
Balzò alla picca, alla corazza, al brando,
E si accalcò dinnanzi a un frate pallido
Che proclamava un bando.
Poi, fu un urlo terribile; e partirono.
Le alte cime mirar nel polverio
Quei mille e mille all’oriente perdersi,
Cantando preci a Dio.
Non più brillar di falci in mezzo all’alighe
Nè vociar di bifolchi, e comitive
Tornanti a sera con a spalle i pargoli;
Non più donne giulive,
Inghirlandate di spiche e di mammole!...
Sol qualche vecchio errante, all’imbrunire,
Sovra cui la tristezza, colle tenebre,
Lenta, parea salire.
Muto il castello, deserto il tugurio!
Si sentìa che la vita in altra terra
Battea, che tutte avea rapite l’anime
Quella lontana guerra.
E fu allor che alle quercie malinconica
Si fè la balda gioventù ferace:
Però pensàr che, dopo qualche secolo,
Dovea tornar la pace;
Che popolata rivedrian di mandrie
La valle, e che il meriggio alla frescura
Ricondurrebbe delle ombrìe balsamiche
Una gente futura.
Ed assorte in pensier di spaventevoli
Colpi di scimitarre e catapulte,
In mezzo all’alta noia ed al misterio
Delle campagne inculte,
Intrecciarono i rami, e avvilupparono
Fronde a fronde, in feroci atteggiamenti;
E, contesti di vôlte e d’archi, eressero
Mistici monumenti;
Onde il venturo mandrian, destandosi
Là sotto, — « Ecco, dicesse alle sue donne,
Che fèr le quercie mentre i miei bisavoli
Pugnavano a Sionne ». —
V.
I salici piangenti hanno attitudini
Di prèfiche commosse:
Sembran sudarii per raccoglier lagrime
Le sottoposte fosse.
E, come vive, le cime si cullano
Sotto il molle zeffiro;
Nè sai se il suono che nell’aria espandono
Sia rantolo o sospiro.
Ondeggiamenti di blande Nereidi,
Gesti da cortigiane,
Inchini di Elfi, o di chi al suol prosternasi
Per un tozzo di pane.
Neghi a quei rami un sentimento, un’anima,
Chi non nacque poeta!
Quegli non oda il sovrumano eloquio
Della natura queta;
Sia sordo alla eloquenza inenarrabile
Del grande Essere ignoto;
Non scorga il filo arcano, incomprensibile,
Che lega l’aria al loto!
Quegli, al tramonto, quando il cielo è incendio,
E van le avemarie.
Da campanile a campanil, dicendosi:
« Siam dell’àlme le spie!»
Quando la valle si ingombra di nebbia
E di vaghi colori
Ed una mesta voluttà ineffabile
Assalta i nostri cuori;
E ti senti immortal, pensando al celere
Riapparire del sole;
E, se pur fosti coll’amica, inutili
Ti sarian le parole;
Quando dall’Universo assorto è l’atomo,
Quegli sbadigli, o vada
Davanti a sè, segugio inconsapevole,
Per una ignota strada!
Oh! pel ciel che splendea colle miriadi
Delle vaganti stelle;
Pei campi a cui davan bagliori e screzii
Lucciole e coccinelle;
Giuro che a me quei desolati salici
Dipinsero l’istoria!...
Così potessi la vision terribile
Cassar dalla memoria!
Erano, in mezzo al tenebror diafano,
Spalle in catene attorte,
E lunghe braccia che parean difendersi
Fra la vita e la morte.
Contorcimenti di dannati, impavide
Pose da gladiatore;...
Quei tozzi tronchi di rabbia fremevano,
E fremevan d’amore.
Nodosità, curve, punte, sembravano
Cercar vendetta a Dio;
Mentre, al raggio lunar, le bianche foglie
Bisbigliavano: oblìo!...
La Musa mi fe’ mago. Allor dai salici
Uscì questa parola,
Ch’era lamento e che parea bestemmia:
«Ci ha piantati Loyola!»
VI.
Più in su della nebbia,
Più in su della torre,
Nei campi che l’aquila
Superba trascorre,
Ergeva il fantastico
Suo ciuffo un abete,
Possibile pania
Di incerte comete.
Immobile, olimpico,
Nell’aria gelata,
Diceva agli arbuscoli
Dell’ima vallata,
Specchiando il pinocchio
Nel placido stagno:
«Per questi viottoli
Passò Carlo Magno».
VII.
Il castello, immobil macchia,
Cosa informe e minacciosa,
Trafiggea co’ suoi pinacoli
L’ampia bruma nebulosa;
Dalle gotiche — compagini
Piante esotiche — a cui garba
Por sui muri un po’ di barba,
Scomponean lo stil corretto
Di un pregievole architetto.
E lontan, lontano, all’ultimo
Fil di cielo, un guizzo strano
Segnalava, incerto e rapido,
Qualche nomade uragano.
Le finestre illuminavansi,
Argentavansi — le mura;
Poi, nell’aria opaca e oscura,
Riappariva ancor più tetro
Il Castel, come uno spetro.
Da sospir, da supplichevoli
Gridi invasi erano i campi;
Forse arcane metamòrfosi
Accadean sotto quei lampi...
Larve pallide — sfuggevoli
Per le squallide — vallèe
Parean Strigi, o parean Dee;
Al mio piè, filando bava,
Una biscia striscïava.
Le ninfèe si arrovesciavano
Come vergini tentate;
Un ronzio d’ali invisibili
Le avea certo ridestate.
Di languore, di bisbiglio,
Di scompiglio — ebro, pagano,
Si coprìa l’immenso piano...
Era un coro a voci uguali,
E cantavano «Sponsali».
VIII.
I fior che nascon tardi e a cui par che la luna
L’acre olezzo regali, già per l’aiuola bruna
Cominciano a brillare, come un altro corteggio
Di stelle. E, in mezzo ad essi, venirsene a passeggio
Ecco la castellana col suo vago paggetto.
Tutto è d’oro lo strascico, è d’argento il corsetto;
È neve il dolce viso che il fanciul signoreggia.
Certo è un sogno d’amore ch’ella fra sè vagheggia,
Carezzando, lasciva, que’ suoi capelli biondi!
Egli, con un ceruleo sguardo, par che la innondi
Di dolcezza infinita...
Così, mentre il barone
Russa, pensando ai fasti di qualche vecchio arcione,
L’ideal coppia passa.
L’allodola la mira,
E, dal ramo ospitale, di voluttà sospira.
IX.
L’aurora! E già i frassini.
Comari verbose,
L’albor commentavano
Con stridule chiose;
Poi, punto d’invidia,
Scrosciava il querciuolo...
Già tutta, in un solo
Superbo monologo,
La selva stormì!
Gli augelli si destano
Cantando alleluia,
Le vette si indorano,
La valle è men buia;
Lontani comignoli
La nebbia disvela,
Comincia a far vela,
Nel tremulo spazio,
La nave del dì!
X.
Carlo, e mentre si aprian tarlate imposte
Di cascinali, ed apparian d’un tratto
Camicie bianche alle finestre nere,
E, nella brina, per sentieri ignoti,
Già cigolava qualche vigil carro
Da cui, forse dicendo una preghiera,
Guardava il parco leggendario un pio
Beneditor di solchi, uscì da un cespo
Di tuberosi, interprete io suppongo
Di quel verde mister che mi invaghiva,
Questo motto gentil:
«Tu ci hai compresi!»