Questo testo è completo. |
◄ | Libro primo - 9 | Libro primo - 11 | ► |
Dette queste parole a’ suoi, prese vana forma simigliante d’un nobilissimo cavaliere, il quale sotto la potenza del gran re Felice, reggitore de’ regni di Speria, nipote di Atalante, sostenitore de’ cieli, governava vicino a’ colli d’Appennino una città chiamata Marmorina. E salito sopra un cavallo, le cui ossa per magrezza quasi quante fossero apertamente mostrava, e correndo sopra esso, pervenne ne’ lontani regni, e trovato il re, il quale le silvestre bestie cacciando prendea diletto, fu davanti a lui. E come tal volta sogliono i corpi morti gravosi cadere alla terra sanza essere urtati, cotale costui fittivamente cadendo davanti gli si gittò, e con voce affannata, tanto che appena s’udiva, piangendo cominciò a dire: - O signor mio, tu vai l’innocenti bestie davanti a te cacciando, e nelle loro innocenti interiora metti aizzando gli aguti denti de’ feroci cani, ma io misero ho nella vostra città Marmorina lasciato il romano fuoco, il quale, sì com’io vidi già per li più alti luoghi, tutta la città guastava: e come ciò avvenisse a me è occulto; se non che avendo noi il giorno davanti celebrati i santi sacrificii di Bacco con grandissima festa, e la vegnente notte, riposandosi, ciascuno avea già di sé la quarta parte passata, quando io, quasi dormendo, cominciai a sentire grandissimo pianto d’uomini, di garzoni e di femine, e impetuoso suono di non usate armi. Allora, abandonato del tutto il quieto sonno, pauroso mi levai, e salii negli alti luoghi della nostra casa, e vidi tutta la città piena di fuoco e di noiose ruine, e di maggior pianto furono ripiene le mie orecchie. E già presso alla nostra casa udendo il terribile suono delle sonanti trombe, disarmato corsi per le fidate armi, per risalire armato nelle fortezze della nostra casa, scendendo contra i molti amici, i quali contra i crudeli osti, per lo bene della città s’apparecchiavano con le taglienti spade d’aspramente combattere. Allora dissi, quasi avendo nella loro vita compassione: "O giovani, or non vedete voi che fortuna sia nelle presenti cose? Quelli iddii nei quali la forza in che la speranza della nostra signoria dimorava, sono fuggiti e hanno abandonato i loro altari; e però voi soccorrete indarno alla città. Ma se voi avete certa fidanza nelle vostre armi, andiamo, e in mezzo de’ nemici combattiamo, essendo io duce: e quivi, o vinciamo, o, sdebitandoci di tal vergogna, mandiamo le nostre anime alle infernali sedie: "sola salute è a’ vinti non isperar salute"". La città, da tutte parti presa, era da’ nemici con gli aguti spuntoni guardata; ma noi poi, assicurati, ci movemmo ad andare alla non dubbiosa morte tutti per una via. Oimè! chi potrebbe mai narrare la ruina e la tempesta di quella notte? Chi potrebbe parlando dire la menoma parte della uccisione o con le lagrime agguagliare la fatica? L’antica città, la quale molti anni vittoriosa sotto le nostre braccia dimorò, fu da’ miei occhi veduta quella notte cadere quasi tutta in picciola ora; ma noi miseri, portati da’ miserabili fati, ovunque andavamo, per le larghe vie trovavamo cadere corpi gravati da mortale gelo: ad ogni passo trovavamo nuovo pianto, e in ogni parte era romore e uccisione infinita. E andando per diverse parti della città, dandone l’accese case aperti passaggi, più volte scontrandoci in picciole schiere di nemici combattemmo. Ma già quasi propinqui all’ultima ora della notte, vaghi del nuovo giorno, fummo da innumerabile moltitudine di nemici aspramente assaliti, e quivi difendendoci virilmente, vidi io gran parte de’ miei compagni bagnare la terra del loro sangue, e sanza niuna misericordia essere dagli avversarii uccisi. Onde non potendo noi più sostenere il crudele assalto, con alquanti diedi le spalle, fuggendo verso il nostro palagio; ma quivi trovata più aspra battaglia, quasi furiosi, sanza alcuna speranza di salute, io e’ miei compagni tra gli aguti ferri de’ nemici ci gittammo. Quivi io, ferito in molte parti, rientrai nelle mie case, nelle quali alquanti de’ miei compagni vinti vilmente si fuggirono; e saliti nel superiore pavimento, vedemmo tutta la città essere d’ardenti fiamme e di noiosi fummi ripiena, la quale piangendo riguardavamo. Allora fummo assaliti di nuovo accidente, però che rotte le porti dell’antico palagio, salì uno grandissimo uomo romano con molti seguaci, il quale, sì come il fiero lupo le timide pecore sanza difesa strangola, così costui andava uccidendo qualunque davanti gli si parava. A lui vidi io uccidere il vecchio padre e due miei figliuoli, e altri molti. Sopra il quale volendo io prendere debita vendetta, ricevetti infiniti colpi della sua spada; ma poi la vecchia madre e altre femine con lei, mettendo le loro persone per la mia vita tra la sua spada e ’l mio corpo, fortunosamente mi trassero delle sue mani. E uscito fuori della non già città, veggendo che per me più niuno soccorso vi si potea porgere, miserabilemente me verso queste parti mi dirizzai, e qui nel vostro conspetto mi sono fuggito. E dicovi che il vostro regno è sanza dubbio assalito da gente tanto acerba, che non che contro a voi, ma ancora contro i nostri iddii hanno prese armi; e che ciò ch’io ho narrato sia vero, manifestevelo il sangue mio, il quale per tante ferite potete vedere davanti da voi spandere. Io ho appena, fuggendo, potuta la mia vita ricuperare, la quale omai credo sarà brieve; e le mie ferite, le quali più tosto medico e riposo che affanno richiedevano, marcite costringono l’anima d’abandonare il misero corpo. E però vi priego che voi v’apparecchiate acciò che i vostri nemici, i quali credo che non sieno di qui guari lontani, possiate con più forte fronte ricevere che io non potei, e acciò che voi altressì vendichiate le mie ferite, acciò che io tosto tra gli altri spiriti possa alzare la testa per la vendicata morte -. E appena finì queste parole con intera voce, che davanti al re il corpo sanza anima freddo lasciò.