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Libro quinto - Capitolo 19
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"Già ne’ semplici anni mi ricorda aver creduto questo luogo molto essere da riverire, dicendo alcuni, d’una semplicità con meco presi, che qui Diana, dopo i boscherecci affanni, col suo coro venia a ricreare, bagnandosi, le faticate forze: e tali furono che dissero, ma falso, che Atteon qua entro guardando, essendoci ella, meritò di divenire cervio. Qui ancora le ninfe di questo paese testavano riposarsi, qui le naiade e le driade nascondersi: ma la mia stoltizia ora m’è manifesta, ora veggio quanto poco lontano veggono gl’ingannati occhi de’ mondani, i quali con ferma credenza, a diverse imagini faccendo diversi templi, quelle adorano, dicendole piene di deità. O rustico errore più tosto che verità! Elli hanno appo loro gl’iddii e le dee e i celestiali regni, e vannogli fra le stelle cercando. E che ciò sia vero, rimirisi i nostri visi, adorni di tanta bellezza, che nullo verso la poria descrivere: ella avria forza di muovere gli uomini a grandissime cose. Dunque, quali iddii o quali dee, qual Venere, qual Cupido, o qual Diana più di noi è da esser riverita? Folle è chi crede altra deità che la nostra. Noi commoveremmo i regni a battaglie e ne’ combattenti metteremmo pace a nostra posta: quello che gl’iddii non poterono fare, avendo Elena porta la cagione. Quali folgori, quali tuoni poté mai Giove fulminare, che da temere fossero come la nostra ira? Marte non fa se non secondo che noi commettiamo. Cessi adunque questo luogo da essere riverito, se non per amore di noi: e che ciò sia ragione, io vi mostrerò la mia forza maggiore che quella di Venere essere stata, e udite come:

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