< Filocolo < Libro secondo
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Libro secondo - Capitolo 19
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- Oimè, dolce anima mia, or che è quello che tu di’? Come potrei io mai consentire se non cosa che ti piacesse? Tu ti duoli della menoma parte de’ nostri danni. Principalmente già sai tu che mai per me onorata non fosti, ma sola la tua virtù è stata sempre cagione debita agli onoranti di tale onore farti: la qual virtù per la mia partita non credo che manchi, né similemente l’onore. E chi sarebbe quelli che contra te potesse incrudelire, o per invidia o per altra cagione? certo nullo; e se pure alcuno ne fosse, io non sarò sì lontano che tu di leggieri non possi farlomi sentire, acciò che io con subita tornata qui punisca la iniquità di quelli: e però di questo vivi sicura e sanza pensiero. Ma, ohimè, che di quel fuoco, del qual tu di’ che io ti lascio l’anima accesa, io ardo tutto! E veramente mentre io starò lontano da te, la mia vita non sarà meno angosciosa che la tua: e io il sento già, però che nuova fiamma mi sento nel cuore aggiunta. Ma sanza fine mi dolgono le parole le quali tu di’, avvilendoti sanza alcuna ragione. E certo di quello che io ora dirò, né me ne sforza amore né me n’inganna, ma è così la verità come io estimo. In te niuna virtù pate difetto, né belli costumi fecero mai più gentilesca creatura nell’aspetto, che i tuoi, sanza fallo buoni, fanno te. La chiarità del tuo viso passa la luce d’Appollo né la bellezza di Venere si può adeguare alla tua. E la dolcezza della tua lingua farebbe maggiori cose che non fece la cetera del trazio poeta o del tebano Anfion. Per le quali cose lo eccelso imperador di Roma, gastigatore del mondo, ti terrebbe cara compagnia, e ancora più: ch’egli è mia oppinione che, se possibil fosse che Giunone morisse, niuna più degna compagna di te si troverebbe al sommo Giove. E tu ti reputi vile? Or che ha la mia madre più di valore di te, la quale nacque de’ ricchissimi re d’Oriente? Certo niuna cosa, né tanto, traendone il nome, che è chiamata reina. Adunque per lo tuo valore se’ tu da me degnamente amata, sì com’io poco inanzi dissi al mio padre. E cessino gl’iddii che tu in niuno atto o per nulla cagione t’avessi offesa o t’offendessi, però che niuna persona m’avrebbe potuto ritenere, che io subitamente non mi fossi con le propie mani ucciso. Vera cosa è, e ben lo conosco, che, consentendo io l’andata mia a Montoro, io diedi a te gravoso dolore; ma certo e’ non dolfe più a te che a me. Ma che volevi tu che io facessi più avanti? Volevi tu che io con mio padre avessi sconce parole per quello che ancora si può ammendare? Se a te tanto dispiace la mia andata, comanda che io non vi vada: egli potrà assai urtare il capo al muro, che io sanza te vi vada! E se tu consenti che io vi vada, egli m’ha promesso di mandarmiti: la qual cosa se egli non fa, io volgerò tosto i passi indietro, però che io so bene che sanza te vivere non potrei io lungamente. E non pensare che mai, per lontanarmi da te, egli mi possa mai trarre te della mente, che, quanto più ti sarò col corpo lontano, tanto più ti sarò con l’anima vicino, ché certo impossibile sarebbe ch’io ti dimenticassi, se tutto Letè mi passasse per la bocca. Però, anima mia, confortati, e lascia il lagrimare; e fa ragione ch’io sia sempre teco, e non pensare che ’l mio amore sia lascivo come fu quello di Giansone e di molti altri, i quali per nuovo piacere sanza niuna costanza si piegavano. Veramente io non amerò mai altra che te, né mai altra donna signoreggerà l’anima mia se non Biancifiore -. E dicendo queste parole, piangeano amenduni teneramente, spesso guardando l’uno l’altro nel viso, e tal volta asciugando ora col dilicato dito, ora col lembo del vestimento, le lagrime de’ chiari visi.

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