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Al Veglione
La stanzina era immersa nell'oscurità. Ogni tanto, un bagliore rossigno si rifletteva sul muro: veniva dalla finestra. Nella via passavano gruppi di gente mascherata e con torcie che girava per le strade, cantando, ballando e schiamazzando. Verso le undici della sera una chiave girò nella toppa. Magda entrò, nell'ombra; senza accendere il lume, camminò nella stanza, a tentoni. Un profondo sospiro le sollevò il petto.
— Che silenzio... — mormorò sottovoce.
Rimase così un pezzo, immobile nel mezzo della stanza, come una statua nera nell'ombra. Si lasciava avvolgere da quell'ambiente cupo e deserto.
— E che freddo! — soggiunse, rabbrividendo.
Poi, quasi por sottrarsi a quelle cattive impressioni, accese rapidamente due o tre candele, gittò pezzi di legno nel caminetto. Con le mani delicate sollevò il soffietto e accese il fuoco. Subito la stanzina s’illuminò. Era tutta gaia nella stoffa chiara dei suoi parati a fiorellini rossi, nei suoi mobili eleganti, nelle trine della sua toilette. Gaia di colore, ma deserta. Magda si guardò attorno. Aveva freddo, sempre che ritornava ad aspettare in quella stanza solitaria colui che doveva venirci. Non si riscaldava che al solo suo arrivo:
anzi, appena ne udiva il passo per le scale, le mani le bruciavano come per febbre, il sangue le dava una vampata alla faccia. Ora essa gelava, coi brividi che le passavano sul volto bianco, che le ammollivano le radici dei capelli fulvi. Da dieci giorni egli mancava da quella stanza.
Lei lo aspettava ogni giorno.
— Neppure questa sera verrà — pensò lei, sciogliendosi i magnifici capelli per pettinarli.
Ma guardandosi nello specchio, si rincorò. Si trovava bella nelle labbra rosse e carnose, negli occhi verdi che si facevan fosforescenti alla sera, nella bianchezza senza macchia della fronte, del collo.
— Verrà sicuramente — pensò rassicurata.
Si assorbì nel ridurre a minime proporzioni la ricca capigliatura che ondeggiante rassomigliava alla criniera di un leone, nel prodigare alla sua persona le cure più minute che una donna bella, ricca e disoccupata può inventare. Un passaggio di torcie la sgomentò.
— Quanta gente per le vie... — pensò — ma egli verrà sicuramente.
Pure, come l’ora passava, cresceva la sua inquietudine. Le mani si stancavano, andavano a rilento, cadevano fiacche in grembo: tutta la sua persona era presa da un senso di infinita debolezza.
— Coraggio, egli verrà — ripeteva a sè stessa.
Così andò all’armadio di legno scolpito e ne cavò fuori un costume completo da Follia, metà di raso azzurro, metà di raso rosa, tutto a sonaglini di argento, col berrettone puntato, ornato di campanellini.
Era un costume corto, scollato, quasi senza maniche. Vi mise le calze, una di seta azzurra, una di seta rosa, gli stivalini anche differenti fra loro: era pronta anche la marotte carica di sonaglini. Tutto questo insieme di abbigliamento le fece vergogna. Lei abituata agli strascichi di broccato e di trine, alle severità dei velluti, aveva orrore di quell’ignobile abito corto da ballerina, da saltatrice di corda. Non l’avrebbe mai messo, mai. Rimaneva in piedi, presso il divano, contemplando col viso addolorato quell’abito. Non avrebbe mai osato metterlo, mai.
Suonò mezzanotte. Non aveva che un’ora per vestirsi ed andare, un’ora sola. Lentamente, sedendosi ad ogni istante, abbattuta od ogni istante da subitanei abbandoni, rialzata da impeti subitanei, senza guardarsi nello specchio, arrossendo nelle spalle nude, dal collo alla fronte, rabbrividendo come una febbricitante. Quando vide che sotto la gonna si distinguevano i piedi sino al collo della gamba, si buttò sul divano, tutta raggricchiata, non osando più muoversi; quando si fu decisa ad appuntare sul capo il berrettone e che solo facendo un movimento tutti i campanellini suonavano, ella ebbe tutta l’angoscia del suo ridicolo. Non sarebbe mai andata.
— Non importa, egli verrà — pensò ancora, con un eroismo muto.
Mise alle dita i suoi anelli gemmati che le facevano rassomigliare la mano a qualche cosa di fulgidamente alato, infilò il dominò di raso nero, che la coprì tutta. Prima di partire fu presa da una esitazione, quasi che abbandonasse per sempre una persona cara. Pareva che tutto le dicesse sommessamente: Rimani, rimani.
— No, io andrò — disse lei a voce alta, quasi per incoraggiarsi — poichè egli verrà.
Solo nella via sentì il freddo delle spalle nude sotto il raso nero del dominò; non aveva messo pelliccia, lei abituata a stare calduccio. Ma come la febbre divoratrice le saliva al cervello, non sentì più il freddo. Una nuova paura fu quella di non trovare carrozza. Camminava impacciata e guardinga, gelata dal freddo, riarsa dal caldo, urtando nelle colonnine; smarrendo la via sotto la maschera. Già qualche viandante si era fermato a veder passare questo dominò imbarazzato, profumato ed elegante. Uno l’aveva chiamata, offrendole da cena. Lei tremava, lei, la contessa, abituata alla devozione dei servi, al rispetto degli amici — sola, abbandonata, morente di vergogna e di paura.
Finalmente una carrozza passa, ella chiamò, vi salì dentro come un naufrago che giunge a riva.
— Che importa? Egli verrà.
Era la sua giaculatoria, la sua litania, la sua ultima, solenne, grandiosa speranza. Era la preghiera: in lui si riassumeva tutta la sua vita. Non vide la via, non avvertì il tempo trascorso. Si trovò innanzi all’atrio senza sapere come. Scendendo di carrozza, sulla soglia, un dominò la complimentò brutalmente sulla bellezza del piedino. Ella tirò innanzi rapidamente, non trovando il corridoio buono che la menasse al suo palco, smarrita, mordendosi le labbra sotto il sussulto nervoso.
— Pazienza, egli verrà.
Quando arrivò al suo palco era la una, l’ora dell’appuntamento. Lei si mise a guardare attentamente nella platea, dove si agitava una folla nera e urlante, variegata di costumi vivaci e di dominò chiari. Ballavano, saltavano, con le braccia in aria, le gambe di qua e di là, come burattini chiassosi e fracassoni. Una nebbia rossastra saliva al soffitto del teatro; non si distinguevano molto le faccie. Lei fissava i suoi occhi acuti attraverso la maschera; un turbamento le appannava la vista.
— Egli verrà, egli verrà.
Dopo aver esplorato la platea, esplorò i palchi, uno per uno. Nulla.
— Verrà, verrà, verrà.
Stette a guardare un lunghissimo, un interminabile galopp, di cui la fila danzante pareva un serpente, ora squassante la coda, ora balzante, rotto a tronconi. Tutta la sala si lasciava prendere dalla follìa del chiasso. Si udivano le voci sottili, in falsetto, delle maschere che non volevano farsi riconoscere. Uno stridìo acuto, un urlare incomposto. Lei se ne sgomentò. Tutto questo le pareva una ridda infernale, un’orgia di dannati. Giammai sarebbe discesa laggiù, nella bolgia.
— Egli verrà, verrà qui.
Qualcuno entrò nel palco; Magda non lo conosceva. Le parlò come ad una mascherina sola, che aspetta avventure; lei impallidiva di sdegno, lei, la fiera contessa indomata. Non rispose: il qualcuno, stancato, finì per andarsene. Erano le due e mezzo.
— Sarà forse nella sala, avrà dimenticato il numero del palco. Se lo cercassi? Così egli verrà.
Combattuta fra la paura e l’amore, discese lentamente nella sala, cercando lui. La chiamavano da ogni parte, vedendola sola, sentendo il maledetto e ridicolo tintinnìo dei campanelli: chi la prendeva pel braccio, chi la urtava, chi le gettava una parola sul volto bianco della maschera, chi gliene susurrava una all’orecchio. Lei resisteva, si scioglieva, non rispondeva, tirava innanzi, mezzo impazzita, cercando sempre, come una belva ferita, con lo sguardo feroce ed umile nel medesimo tempo.
— Egli verrà, egli verrà.
Non lo trovò, non lo sapeva cercare forse. Poi la sormontava il dubbio che lui fosse andato in palco, mentre lei era assente. Risalì aspettando ancora, morendo ad ogni minuto, fremendo ad ogni calpestìo nel corridoio, tremando ad ogni rumore di voce, stirando i guanti sotto le larghe maniche, sfilacciando la trina del suo dominò.
— Egli verrà.
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VITTORIA DI ANNIBALE.