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Delfina.
Sotto la luce concentrata della lampada, la zia Angiolina leggeva: ogni tanto s’interrompeva, scambiava qualche parola con Cecilia e ripigliava la lettura. La stanza rimaneva quasi tutta nell’ombra; non un soffio d’aria entrava dalla finestra aperta, il luglio portava queste serate soffocanti. Sull’ampia tavola, coperta da un tappeto verde, stavano mucchi di biancheria, pile cascanti da tutte le parti, per soverchia altezza. Un grande armadio, in fondo alla parete, era spalancato — nella penombra, appena appena si distinguevano gli scaffali quasi vuoti. Presso la tavola, un cassone largo ed alto, di legno chiaro, col coperchio sollevato, foderato di tela gialla, inghiottiva la biancheria che Cecilia vi riponeva, togliendola dall’armadio, dalla tavola, dalle sedie dove era sparsa. Cecilia andava e veniva, prestamente, svelta sui tacchettini minuti, uscendo, ritornando, senza fermarsi mai.
— Ti stanchi? — chiese zia Angiolina, presa da un rimorso, lasciando il suo romanzo.
— No, no.
— Neppure io mi stancava.... allora.... — mormorò la zia, con la sua posa malinconica e la voce strascicata che usava quando parlava di altri tempi.
— O allora, allora, zia, come dovevate essere allegra!
— Allegra... molto. Facevo un matrimonio d’amore.
— Ed io? — esclamò, ridendo, Cecilia — faccio io un matrimonio diplomatico forse? Sono forse la principessa di Schwarzenbourg-Augustenbourg che sposa, senza conoscerlo, il principe di Assia-Darmstadt?
Rideva. La boccuccia rotonda, che difficilmente poteva star chiusa, col labbruccio superiore che si sollevava, era molto bellina nel riso. Ma ella guardò di sbieco verso un balcone che rimaneva nell’ombra, appena un’occhiatina e tacque, come se fosse colta da un pensiero. Ora piazzava le sottane nel cassone, inginocchiata dinanzi ad esso, piegando le sottane in due, disponendone accuratamente le pieghe perchè le balze riccie, i ricami, le trine onde erano guarniti non si sciupassero. Si fermò d’un tratto, sempre inginocchiata, coi due gomiti appoggiati sull’orlo del cassone, la testa fra le pugna chiuse.
— Zia, non abbiamo pensato ad una cosa molto seria. Io ho moltissime sottane corte, non ne ho che sei lunghe; di lunghissime nessuna; e sotto l’abito di broccato rosso che metterò? Se debbo andare ad un ballo, che metterò?
— Infatti... Dio mio, non si penserebbe mai a tutto in questi corredi! Come si fa ora?
Zia e nipote si guardavano, preoccupate, inquiete.
— Se rimettessimo a quest’altra settimana il matrimonio?
— No! — gridò Cecilia, balzando in piedi. — Penso che quest’anno non ballerò, poichè passeremo l’inverno in campagna. Cesare è stanco dei balli; io quindi ne sono stanca...
— Pare un romanzo, Cecilia.
— Siete sempre coi vostri libri, zia. Vi guastate la vita. Vedete, io non ne leggo mai e trovo molto naturale che Cesare mi sposi...
Chinò il capo di nuovo e si mise a disporre le calze nel cassone, uno strato fitto e multicolore su cui il bianco dominava.
— Ci metto dello spigonardo, zia? — domandò Cecilia che non poteva tacere. — Lo spigonardo, dicono, conserva la seta dai tarli.
— Sì, ma è un profumo volgare, Cecilia. Metti dell’ireos. Tu dovresti avere dell’ireos.
— Vado a vedere.
E scappò fuori. Zia Angiolina guardò anch’essa alla sfuggita, verso il balcone. Nel vano oscuro un’ala nera si agitava nervosamente; era un grande ventaglio. Zia Angiolina sospirò, osservò accuratamente le sue mani che aveva conservate morbide e bianche, le trovò di sua soddisfazione, stette lì lì per dire qualche cosa al ventaglio nervoso, ma se ne pentì e non disse nulla.
Cecilia ritornò; era tutta rossa. Portava un grande cespo di rose gialle e certi lunghi rami di gelsomini bianchi rampicanti. Ogni tanto succhiava vivamente l’indice della sinistra che si era dovuta pungere ad una spina.
— Non ho trovato l’ireos, — dichiarò, — sono uscita nel balcone dell’anticamera ed ho spogliato la rosa-tea che era tutta fiorita. Anche i gelsomini erano fioriti, ho strappato un po’ i rami, ma che importa? Rinasceranno.
— Che ne farai, di questi fiori?
— Li sfoglierò nel cassone. È buono l’odore dei fiori secchi. Peccato, dovrei avere le gaggie. Hanno un profumo squisito nella biancheria.
Si pose a sfogliare le rose, lasciandone cadere i petali nella cassa, come una pioggia delicata; buttò via gli steli nudi e verdi. Poi sfogliò i gelsomini che le cadevano fra le dita, lievi ed olezzanti. Rimase a guardare l’opera sua, tutta sorridente. Zia Angiolina crollava il capo con la sua grand’aria sentimentale. Che faceva il ventaglio nero, laggiù, nell’oscurità? Si era chiuso, con una discesa secca come una risata sardonica. Cecilia, quasi fosse stata sorpresa in una contemplazione poetica e puerile, arrossì. Stette immobile, lo sguardo vagante, distratta, cercando qualche cosa da fare o da dire. Poi si dette di nuovo all’opera sua.
— Cesare, Cecilia, non vanno bene insieme? — mormorava.
— Vi è una fatalità nei nomi — rispose gravemente la zia.
— Ancor questa fatalità. La mettete dappertutto, zia. Mi rattrista, ve lo assicuro. Ascoltate, zia: ho da domandarvi due cose gravissime, di una importanza eccezionale. Credete voi, zia, che quando non avremo nessuno a pranzo, io posso scendere in veste da camera ed in pianelle? Credete voi che Cesare sia innamorato di me?
— Debbo rispondere alla prima o alla seconda domanda?
— Sono egualmente interessanti, ma via, rispondete alla seconda.
— È cosa triviale citare un proverbio, ma questo qui l’ho fatto io. Chi ama bene, sposa presto. Da quanto tempo conosci Cesare?
— Da un anno; da sei mesi mi fa la corte, da tre mesi è mio fidanzato.
— Secondo i calcoli matematici, Cesare è innamorato di te.
— N’ero convinta avanti di chiedervelo, zia. Era così innamorato di voi, lo zio Astolfo?
— O cara! Lo zio Astolfo era molto diversamente innamorato. Allora si amava in un altro modo. Ci amammo per quattro anni contro la volontà dei nostri parenti, tre volte progettammo di morire, e tutto era pronto per un rapimento, quando saputosi tutto, finirono per dirci di sì. L’amore era un romanzo, allora.
— E adesso?
— Prosa, mia cara.
— E come scenderò vestita, zia, quando non avremo gente a pranzo?
Le due donne, con la massima serietà discussero l’abito, le pianelle, il goletto, la sciarpa, come avevano discusso l’amore. Nella strada vicina un organetto suonava una romanza di Tosti, allargandone molto il tempo, in modo da renderla più malinconica di quello che era. Poco a poco esse tacquero. Ascoltavano. Abitando al primo piano, con le finestre aperte, tutti i rumori di una sera d’estate salivano netti e chiari. Un fanciullino piangeva, con quel lamentìo insonnolito dei bimbi che si addormentano, un ciabattino batteva forte sopra un tacco di suola, a colpi rapidi, con un rullìo. Una voce femminile, accompagnando sottovoce l’organino, canticchiava:
Vorrei morir quando tramonta il sole.
Involontariamente, Cecilia si pose a canticchiare anche lei:
Quando nel prato spuntan le vïole,
mentre la musica soave, l’afa della serata di luglio e la stanchezza le mettevano addosso una tenerezza grave, una voglia di piangere. Era caduta sopra una sedia, guardando il soffitto, le braccia prosciolte e abbandonate, pensando ad una quantità di cose malinconiche. Dalla via, la vocina femminile continuava a cantare:
Vorrei morir... vorrei morir...
Cecilia lasciò che due lagrimoni le cadessero giù per le guance. Si sentiva impietosita e commossa per quella donnina che cantava così mestamente, pel suonatore dell’organetto, per sè stessa che si maritava, per la zia che era vedova e leggeva Diane de Lys, e forse più di tutto per quel ventaglio nero che si rimaneva tranquillo e silenzioso nel vano del balcone. Tutto ciò durò poco. L’organetto suonò il Funiculì-funiculà.
Tutta la mestizia di Cecilia si dileguò. La vita era bella, nevvero? e Cesare sarebbe arrivato l’indomani presto. Bisognava sbrigarsi.
— Siete rimasti d’accordo per le partecipazioni, Cecilia?
— Sicuramente. Vi lasceremo la nota degli indirizzi e voi le manderete.
— Sei fortunata, eviterai le visite di nozze.
— E laggiù, in campagna, credete che i signori dei paesi vicini, i sindaci, vorranno evitarci questo noie? Quante sindachesse, quante mogli di giudici, quante provinciali sfileranno in casa mia! Come mi divertirò, come farò bene la castellana, come sarò amabile e quante riverenze farò!
— Sei una bambina, Cecilia. Il matrimonio è una cosa grave e pericolosa.
— Pericolosa?
— Pericolosa.
— Perchè, zia?
— ... nelle conseguenze.
— Non capisco.
— ... tu non sai nulla...
— ... forse... forse... perchè vengono i bimbi?
E una fiamma viva le corse al volto.
— Anche... ma vi è dell’altro...
— Forse perchè vi sono queste orribili marchese Susanne, queste principesse Albertine, queste contesse Elene?
— Tu non sai nulla. La vita è un romanzo.
— Il mio è bello, zia.
— Sono i primi capitoli. Occhio all’amore, fanciulla.
— Io amo Cesare, egli ama me — rispose lei con grande semplicità. E guardò intorno intorno, nello stanzone, quasi prendesse l’ombra a testimonio di quella verità. Niente aveva voce, nessuno le rispose; ma ella rimase quietata e soddisfatta, avendo riassunto presente ed avvenire.
L’armadio era vuoto. Cecilia riponeva lentamente nel cassone gli oggetti minuti di biancheria, i goletti, i polsini, le cuffiette, le scatole dei fazzoletti. Prima di mettere al suo posto l’oggettino, lo guardava, lo ammirava, gli parlava sottovoce, quasi lo carezzava. Era molto felice, felice di avere tutti quegli ornamenti candidi, leggieri, morbidi di stoffa, fioccosi per trine, gentili di forme. Vi giuocava, quasi, come una bimba con gli abitucci della bambola.
— Vi sarà molta gente al Municipio, zia?
— Molta gente.
— E il vice-sindaco mi dirà qualche cosa di molto pauroso? avrà un aspetto spaventoso con la sua sciarpa?
— Il vice-sindaco è per lo più un avvocato annoiato e frettoloso. Ma gli articoli della legge fanno pensare, Cecilia.
— Naturalmente, le signore saranno in cappello bianco, zia?
— Bianco, specialmente per le fanciulle.
— Abito corto, nevvero?
— Corto; è volgare il più piccolo segno di coda.
— Si piange al Municipio, zia?
— È a piacere, mia buona. Per lo più si preferisce piangere in chiesa.
— ... già, in chiesa. In chiesa è una cosa seria; vi saranno fiori, incensi? E i belli chierichetti biondi e rossi come cherubini, con la cotta bianca a piegoline? Come sarà grazioso tutto questo!
— E se vi fosse un amante disperato dietro una colonna, Cecilia? Se questo amante si avanzasse, ti maledicesse, si ficcasse un pugnale nel petto!
— Questo qui si vede nel libretto della Lucia. Non è più di moda, zia.
Risero cordialmente ambedue.
— Credi tu, zia, che mio marito sarà buono con me? Come farò io per farmi amare? Debbo io essere buona o cattiva con lui?
— Dumas dice in un modo e Giorgio Sand in un altro.
— Ed io, zia?
— Metti il romanzo nella tua vita, bambina. Nulla si fa senza la poesia.
— Dove la trovo questa poesia? Io non ne so nulla. Sono una sciocca; sono disperata, zia. Tu mi farai morire, zia.
Una desolazione quasi infantile le si dipingeva nel volto giovanetto.
Zia Angiolina se ne stava tutta preoccupata, come se si desolasse anche lei pel romanzo della sua immaginazione.
— Zia, zia, dove metterò i gioielli?
— Nella cassetta di cuoio nero.
— Potrò ora portare quanti anelli mi piacciono? Ne avrò all’anulare, al medio, al mignolo; potrò finalmente avere gli orecchini di brillanti.
E Cecilia rimase rapita, con una luce negli occhi. La cassa era piena, sgombra la tavola, sgombre le sedie, tutto a posto. Pure ella non chiuse subito la cassa, restò a fissare il coperchio, quasi smemorata, quasi cercasse ricordarsi qualche cosa. Girò così, due o tre volte, per la grande sala, frugando con lo sguardo negli angoli oscuri: ritornò e d’un colpo solo abbassò il coperchio, chiuse le serrature con le chiavicine. Le tremarono le mani. Venne verso sua zia, pallida, e con la voce incerta, le disse:
— O zia, o zia, io me ne vado domani!
Nelle braccia l’una dell’altra piansero. Si sciolsero dinanzi alla svelta e leggiadra figura di giovanetta, vestita di lana bianca, che era apparsa alle loro spalle, lasciando il vano del balcone. Restarono un po’ confuse, un po’ mortificate.
— Delfina, tu devi trovare tutto questo supremamente ridicolo — mormorò Cecilia.
No, ella non rispose. Ma alla stanchezza
dell’occhio bruno, alla piega ironica della bocca purissima, a tutta l’espressione di noia che deturpava quel viso giovanile, si vedeva che ella trovava tutto ciò supremamente ridicolo.CUORE DI PORCELLANA.