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Sconosciuto.
Nell'oscurità della notte fiammeggiava nella stanza il fuoco del caminetto. Ogni tanto una mano bianca si coloriva di fiamma attizzando lentamente il fuoco. Le tre fanciulle tacevano, prese da un pensiero. Ognuna di esse s'immaginava di essere sola, in un ambiente vago e indefinito, senza nozioni di spazio, senza nozioni di tempo. Quando il crepuscolo era cresciuto, avevano sentito il bisogno di tacere, di raccogliersi. L'una abbandonata sulla poltroncina, col capo riverso sulla spalliera, con gli occhi chiusi, pareva dormisse; l'altra tutta ravvolta in uno scialle, raggomitolata nella poltrona, aveva il capo abbassato sul petto; la terza coi piedini sugli alari si chinava macchinalmente ad avvivare il fuoco. Non si vedeva se fossero bionde, brune, belle, brutte, robuste, ammalate: nulla si vedeva, se non il basso delle gonne che si tingeva di colori falsi alla luce del caminetto. Scomparsa ogni traccia di età, di condizione, di nome. Erano ombre nell’ombra.
Dopo un’ora di silenzio una di esse parlò. Non si dirigeva ad alcuno, parlava verso le tenebre. Aveva una voce debole, ogni tanto più affievolita da una corrente di tenerezza.
— Egli m’ama. Lo conobbi singolarmente in un ospedale di bambini, una casa tutta candida di marmi e di sorrisi infantili. Nella chiesetta serena pregavano dame, signori, fanciulli: due bambini prendevano la prima comunione. Lui aveva chinato il capo. Non so se pregasse: ma guardandolo fiso, vidi bene che le sue labbra si agitavano. La sua testa bionda e serafica, in quell’atto riverente, acquistava soavità. Egli mi guardava coi suoi occhi azzurri, di un azzurro smaltato e chiaro: io mi sentiva tutta inondata dalla dolcezza di quello sguardo. Non era peccato quello che commettevamo. Io pregava il Dio in cui egli credeva: noi ci effondevamo nei tranquilli trasporti dello stesso amore divino. Quando la Messa fu finita, egli salutò profondamente l’altare, poi me: uscì.
Dopo, nel giorno della Madonna, un lucido e bel giorno io ho ricevuto a casa un mazzo di fiori, mughetti e gigli, una meraviglia di candore. Io ho mandato a lui il mio rosaio di legno di sandal, i cui granelli, sotto lo stropiccio delle dita, sprigionano un profumo acutamente mistico. Ci vediamo sempre, la domenica, al vespro nella chiesa dei Gerolomini. Egli mi aspetta alla porta e con le dita tremanti mi offre l’acqua benedetta; insieme facciamo il segno della croce. Siede un po’ lontano da me, ma ci guardiamo spesso. Dio sicuramente non si offende di questo amore che è puro. L’atto di adorazione, che nel mio libro è un vero inno poetico, lo leggo prima io, poi passo il libro a lui perchè legga. Usciamo insieme, non ci parliamo. Fino a casa mi accompagna, senza darmi il braccio. Stringe appena la mia mano nel licenziarsi. Mi scrive ogni giorno lettere sublimi, di una poesia tutta spirituale, tutta essenza luminosa, tutta sfavilío d’anima. In verità, dal suo spirito prigioniero nella materia parte un tale raggio d’idealità che io mi vi sento vivificata e riscaldata. Gli rispondo ogni giorno, cerco mettere nelle mie labbra lo stesso palpito affettuoso, la stessa iridiscente vibrazione che egli imprime alle proprie parole. Noi ci amiamo perchè amiamo le stesse cose; i cieli sbiancati delle notti autunnali, le acque d’acciaio dei laghi che tremolano sotto il puro raggio della luna, i marmi bigi delle chiese, i pavimenti freddi e duri dove le ginocchia si martoriano. Noi ci amiamo nelle lagrime gelide che quietano i nervi e smorzano l’ardore delle guance, nei sorrisi lenti e placidi che si rivolgono a un punto indefinito, nei poeti celestiali come Chateaubriand, Lamartine, Manzoni, nel distacco tranquillo da ogni contatto terreno, nelle aspirazioni al più alto, al sempre più alto...
Tacque la voce, smorzata in un entusiasmo sommesso e soffocante. Nessuno le rispose. Solo, poco dopo, la seconda che teneva il capo abbassato sul petto, si sollevò e parlò, a scatti, a sussulti, con una voce variabile, ora troppo forte, ora stridente e nervosa.
— Egli mi ama; io lo amo. Non so come, non so perchè. È bello, di una bellezza calda, fulva, virilmente giovane. I capelli gli si piantano sulla fronte, possenti come la criniera di un leone. Gli occhi bruni affascinano. Al teatro mi guardava sempre. Attraverso le lenti dell’occhialino sentivo il suo sguardo che mi toccava e mi abbracciava, lasciandomi sul volto, sul collo, sulle braccia le stimmate della passione. Io credo di aver ceduto a un magnetismo, poichè mentre il capo mi pesava come se fosse coperto di piombo, il cuore si dilatava precipitosamente sotto l’urto del sangue. Ho baciato il mio fazzoletto. Egli m’ha visto e un pallore di trionfo ha scomposto il suo volto. Nelle scale mi ha aspettato, gli sono passata daccanto, ha osato stringere la mia mano nuda, ha rubato il mio guanto. Ha passata la notte sotto la mia finestra: io, alla finestra. Nevicava; non sentivamo il freddo. Da allora questa mia vita è diventata una tempesta di desiderii, di sconfitte, di dolori acuti, di gioie morenti: quando non lo vedo, va lentissima l’ora nell’intensa brama del rivederlo. Quando ci vediamo, restiamo l’uno di fronte all’altro, smorti, col cuore in tumulto, le mani brucianti, la voce strangolata: questo è l’impeto dell’amore che ci fa impazzire. Le sue lettere sono brevi, a frasi nette come un colpo di coltello, scritte a frasi dove vi è il sangue della vita, dove vi è l’eccitazione dei nervi, dove vi è lo scoppio furibondo di un amore supremo. Io l’amo come egli m’ama. Ambedue siamo torturati dall’amore, ambedue soffriamo le pene dei dannati per la gelosia che ci rode, ambedue rotoliamo, inebbriati di amore e di dolore, per una china dirupata dove a nulla possiamo rattenerci. Noi abbiamo le medesime folli e ammalate inclinazioni per i fiori rossi del papavero, per le cose cupe e tragiche, per i tramonti incendiati, per le albe sanguigne, per gli azzurri oltremarini, per le maremme pestilenziali sotto il sole, per i profumi violenti, per l’oro intarsiato che pare scorrere, fluido, liquido, sul fondo nero della lacca, per i grilli sfiniti che muoiono d’amore nel solco fumicante, per le farfalle nere che si abbruciano intorno al lume. Ci amiamo: è lui il mio poeta, sono io la sua dea. Con me, per me, piange le sue lagrime scarse e roventi; con lui, per lui, io trovo il mio sorriso scapigliato, inebbriante. Noi comprendiamo che per una sola cosa viviamo, ed è l’amore; che per una sola cosa moriremo, ed è l’amore. Sono nostri gli spasimi, le trafitture; i fremiti allo stringere lieve di una mano, i pallori incomposti, le convulsioni disperate. Lui distrugge la mia vita: io distruggo la sua...
Bruscamente si arrestò, stringendosi il viso fra le mani. Allora la terza parlò, quietamente, con una voce media, giusta, di una monotonia grave:
— Egli mi ama; io l’amo. Almeno, ogni tanto, me lo dico. Almeno, ogni tanto, mi sembra d’amarlo. Non ne siamo punto sicuri. Egli non ha mai creduto all’amore: io non vi credo da che lui ha fatto crollare la mia fede. Una giornata plumbea, in una sala di accademia, quando un oratore scalmanato cercava invano ispirare nel pubblico il suo falso entusiasmo, egli mi disse: Tutto questo è molto ridicolo. Moltissimo — gli risposi. Lui s’inchinò, soddisfatto di aver ritrovato una donna arida come lui. Non mi ha mai scritto lettere d’amore, non me ne scrive: io non gliene scrivo. Noi non crediamo alle lettere d’amore. Non mi ha dato nè i suoi capelli, nè un anello, nè un piccolissimo dono; mi disse che tutta questa roba non serve, e che va sempre a finire, in cucina, nella spazzatura. Quando io gli dico di amarlo, fa un sorriso d’incredulità, e mi risponde: Sai? non t’affannare, chè non ti credo. Quando gli giuro che gli voglio bene, egli mi lascia dire, poi mi soggiunge, sorridendo: Non giurare, non giurare, non giurare, tu non sai nulla; può darsi che tu non m’ami. Egli non impallidisce, non arrossisce, non cerca vedermi, non cerca sedersi accanto a me, non mi stringe la mano, non mi offre il braccio: la sua sola manifestazione è il sorriso, un sorriso freddo e lento. Egli non ha entusiasmi, mai. Non si scalda mai per nulla. Non comprende l’arte, non comprende la politica, non comprende la scienza, non comprende Dio: egli è un assiduo e calmo demolitore di quanto gli altri credono. È l’apostolo più sicuro dello scetticismo. Lui sostiene brillantemente la falsità delle cose, la falsità della natura, la falsità della virtù, la falsità della passione. Lui è forte, bello: nei suoi occhi grigi, quasi felini, vi è tutto il riflesso metallico della sua anima minerale. Egli rassomiglia all’acciaio. È d’un pezzo solo. Non hanno peso su lui nè sospiri, nè lagrime. Non ci erede. Contro lui mi spezzo. Dacchè l’amo, l’anima mia subisce la sua influenza, si trasforma. Quello che lui non crede, io non credo. Quello che lui vuole, io fo. Quando, in un momento di ribellione disperata, gli domando: Perchè mi vuoi bene, dunque? Egli esita, si conturba, mi risponde: Chissà! Non so: noi non sappiamo nulla. Io ripeto con lui: Noi non sappiamo nulla. Rimaniamo silenziosi, pensosi nello sconfinato dubbio di due anime inaridite...
Di nuovo il silenzio si fece. Niuno non lo interruppe più. Nell’ambiente caldo e bruno, si calmavano gli echi dei tre amori, così profondamente diversi fra loro.
Eppure era lo stesso uomo che le amava tutt’e tre.UN INVENTORE.