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XXVI. Piazza del Granduca
XXV. Com'era Firenze XXVII. Mercato Vecchio - Il Ghetto

XXVI

Piazza del Granduca


La Dogana in Palazzo Vecchio - Facchini e ragazzi - II tetto dei pisani - I ciarlatani nei giorni di mercato - II Niccolai, il Billi e Tretittmo - Colossi della scienza - Cavadenti e contadini - Orologiari di ventura - Mercurio Castelli di burattini - I maccheroni freddi di Martino - La ritirata - l’Angelus Domini - I cartelli de’ teatri - Il Canto dell’acquavite.

Piazza del Granduca, quella che oggi si chiama della Signoria, la più antica e la più celebre di Firenze, aveva un’impronta speciale, un carattere tutto proprio, del quale non se ne ha più la minima idea.

La Dogana era in Palazzo Vecchio; e la porta dal lato di tramontana dietro al Cavallo, si chiama tuttora porta della Dogana. In quella parte della piazza, ogni giorno si scaricavano le balle della canapa che veniva da Bologna, con dei carri tirati da cinque o sei cavalli, e l’assistere a quell’operazione dello scarico, era uno spasso per i fannulloni d’allora. Vi prendevan parte anche molti ragazzi, che si compiacevano ad aiutare i facchini che eran tutti svizzeri, i quali in compenso lasciavan loro accomodare alcune di quelle balle in fila, ad una certa distanza l’una dall’altra, perchè si divertissero poi a saltarle con intermezzi di capriole e di qualche caduta. Questo giuoco destava l’ammirazione dei forestieri, che tutti contenti del gratuito spettacolo ginnastico, davano un paolo o mezzo paolo di mancia ai più bravi. Il divertimento durava dalle dieci della mattina fino alle ventiquattro; ossia al'Ave Maria della sera, ora in cui dai facchini veniva riposta nel cortile, o sotto la grande vòlta, tutta quella mercanzia.

Le botti dello zucchero, dello spirito, del caffè e le altre merci, si depositavano nei sotterranei del palazzo; in parte anche nei locali che poi servirono all’Esattoria, ed il resto in quelli che oggi son destinati a Caserma delle Guardie.

Ma l’aspetto più caratteristico, la Piazza del Granduca l’offriva in tutta quest’altra parte compresa fra le Logge dell’Orcagna, la Meridiana e la Vecchia Posta.

Entrando da Via de’ Calzaioli, si rimaneva ad un tratto storditi dal baccano e dal frastuono, come se si fosse a una fiera di campagna.

La gente non poteva quasi passare, tanta era la quantità dei ciarlatani, dei saltimbanchi, cantastorie, giuocatori di prestìgio, casotti di burattini, e carri con le scimmie o cani ammaestrati; venditori di semenza, di lupini, di sapone per cavar le macchie e di lumini da notte. C’eran quelli co’ panieri de’ dolci a forma di nicchia, fatti di tritello e miele, che s’empivano d’una specie d’acqua sudicia, battezzata pomposamente per rosolio, la maggior ghiottoneria dei ragazzi che andavano a nozze quando sentivan gridare: «Un quattrin mangiare e bere senza mettersi a sedere.»

Ad ognuno di quei banchi, o casotti, o carri, c’era sempre una folla di garzoni di bottega; e spesso si vedeva apparire qualche maestro, che con uno scappellotto ed una pedata simultanea, a colpo fisso quanto sicuro, prendeva per un orecchio lo smemorato ragazzo e lo riportava a bottega.

Sotto il tetto della Posta dov’è ora il Palazzo Lavison, che si chiamava «il tetto dei pisani» - perchè fatto costruire dalla Repubblica ai prigionieri della guerra di Pisa nel 1364 c’erano alcuni banchetti di venditori di cinti erniari, detti brachierai, i quali, specialmente nei giorni di mercato, facevano affari d’oro imbrogliando co’ baratti, que’ contadini che si lasciavano imbecherare ch’era un piacere. Erano notevoli

Piazza del Granduca

anche i postini di campagna, che venivano a prendere le lettere; e si riconoscevano dalla tuba, dai calzoni corti e la bolgetta a tracolla.

Fra tutta quella gente giravano e si fermavano qua e là i ciechi, che cantavano sulla chitarra, o sonatori d’arpa e di violini, che aumentavano il baccano e la confusione.

Ma più aspetto di fiera, la Piazza del Granduca lo prendeva il martedì e il venerdì, giorni di mercato. Allora poi, per chi non aveva nulla da fare, era un divertimento davvero. In quei due giorni la prevalenza su tutti i ciarlatani soliti, e su gli altri che ingombravano la piazza, la prendevano i dentisti ed i ciarlatani di lusso, che venivano di fuori di Firenze. I più celebri furono un certo Niccolai, un tal Billi, Trentuno, e più tardi il Tofani, che fu l’ultimo della specie.

Il Niccolai che veniva da Pistoia, si fermava dinanzi alla Posta; e standosene ritto sul suo calesse, tutto polveroso o infangato, spiegava al pubblico di contadini e di vagabondi, — dei quali grazie a Dio non c’è mai stata

penuria — che lo attorniavano in folla stando ad ascoltarlo a bocca aperta, tutti i meravigliosi pregi di certi suoi cerotti per le piaghe d’ogni genere e d’ogni origine; degli unguenti per i dolori d’ogni specie, compresi quelli morali; acque per le malattie d’occhi, da fare accecare chiunque; e rimedi miracolosi per gli zoppi che a sentirlo, dovevan buttar via le gruccie, non rimanendo però responsabile se dando retta a cieco, sonatore di lui, sarebbero andati a gambe all’aria.

Il Billi si piantava con la sua carrozza un centinaio di passi distante dal collega, più che rivale, vendendo i soliti intrugli, i soliti rimedi, che dopo tante incertezze e mezzi pentimenti, molti contadini sempre diffidenti delle cose buone ma creduli alle ciarlatanerie, finivan per comprare, avendo anzi tutt’a un tratto la paura di non fare a tempo ad acquistare il prezioso e miracoloso unguento.

Ma il più caratteristico, il più curioso, era il famoso dentista Trentuno. Egli faceva il suo ingresso trionfale in Piazza del Granduca sopra un cavallo piuttosto arrembato, seguito dal figliuolo, pure a cavallo, e carico di borse di pelle portate a tracolla, piene degli istrumenti necessari a quella specie di tortura.

Il vecchio Trentuno, stando sempre sul suo ronzino, cominciava a predicare contro il male dei denti come se fosse stato un nemico visibile, facendo una grande impressione sui disgraziati che gli facevano cerchio, e che aspettavano a gloria che l’insigne professore si degnasse di levarglieli magari anche tutti, facendo un pianto e un lamento per non soffrir più.

Il circolo che facevano intorno a Trentuno quei poveretti con una gota gonfia, col viso acceso fasciato dalla pezzuola, era dei più strani. Se non si fosse veduto su quei visigoti del dente, l’espressione d’un acuto dolore, ci sarebbe stato da ridere, tanto erano curiose le loro smorfie, e il desiderio che si leggeva ad essi negli occhi, di uscir presto da quel tormento.

Dopo la sua arringa, l’egregio dentista che pareva Pietro l’eremita quando bandiva la crociata, si faceva avvicinare il figliuolo che senza smontar da cavallo neanche lui, gli porgeva i ferri, e quindi al primo contadino più coraggioso che si presentava, gli faceva appoggiare senza tanti complimenti il capo sulla sua coscia, e in un batter d’occhio, gli levava un dente che spesso pur troppo.... non era quello malato!

C'erano alcuni che cacciavano un urlo tale, da svegliare perfino il povero cavallo che destato così di soprassalto faceva uno scossone tanto forte, da buttare quasi in terra anche il paziente.

Nell’estate poi, quando le mosche davan noia all’indomito destriero, questo se le scacciava con la coda, un codone lungo che gli toccava terra, mettendo spesso i crini negli occhi a quei disgraziati, che per levarsi un male inciampavano in un altro peggiore.

Ogni mese o due capitavano però sulla Piazza del Granduca dei ciarlatani di grido, di fama mondiale, seduti sopra un carrozzone che arrivava a’ primi piani, spesso tirato anche da quattro cavalli. Quiesti erano i colossi della scienza: vestiti di nero, con certe tube più grandi del vero; enormi collane d’oro, o quasi; ciondoli d’ogni specie, ed il moro accanto: moro, per lo più onorario, se non onorato, tinto col sughero ma vestito alla turca. Sul di dietro del carrozzone c’ era una banda, se non di ladri - almeno si crede - certo di suonatori da fare scappare. Quando si trovavan d’accordo la gran cassa, i piatti e il bombardone, pareva la fin del mondo.

Quei professoroni, di lassù da quel pergamo, per cominciare subito bene, principiavano a trattar male i contadini, che stavan loro d’intorno quasi in adorazione. In ricompensa si buscavan di bestie, di zucconi e di ignoranti tutti, dato con tanta prosopopea, con tanta arroganza e sicurezza da quegli elefanti del sapere, che pareva proprio che dovessero riavere un tanto. L’effetto era straordinario. Nessuno fiatava, e si pigliava anzi in pace, con una certa compiacenza, tutte quelle invettive e quelle impertinenze come se spettassero loro di diritto. Nessuno s’arrischiava d’andare a farsi levare i denti da quei dottoroni, da quelle enormità scientifiche. Ma allora il professore vedendo in bilico il risultato della sua facondia, con benevola burbanza incoraggiava il povero di spirito e lo faceva salire a cassetta accanto a lui, nel posto del moro, il quale si metteva dietro col bicchiere dell’acqua bell’e preparato, per far risciacquar la bocca al paziente.

L’infelice pareva in berlina: tutti muti, stavano attenti aspettando il momento della sganasciatura. Il professore dopo levato il dente, lo mostrava al popolo attonito, e spesso lo buttava fra la folla, con gesto largo, magnanimo, da imperatore romano, come per saziarne l’avida curiosità. E dire che c’era della gente che aveva lo stomaco di raccattarlo e di osservarlo come se fosse stato un oggetto prezioso, o una reliquia!.,.

Alcuni di quei professori per mostrare con una grandezzata la sicurezza nella loro valentìa, al disgraziato a cui la Provvidenza levava in quel momento le sue sante mani dal capo, legavano il dente con uno spago: poi scaricando a bruciapelo una pistola, il povero contadino che non s’aspettava quell’acciacco, tutto impaurito dava una stratta come per scappare e così il dente veniva estratto da sé.

Di cotesti enormi scienziati, qualcuno era veramente abile, e dava consulti in casa col pagamento d’un paolo - cinquantasei centesimi! - Facevano operazioni d’ogni genere, estirpavano tumori, tagliavano cancri, pezzi di naso.... insomma nessuno di quelli che capitavano nelle loro mani andava via intero.

I contadini, non erano solamente vittima dei ciarlatani; perchè tra tutti coloro che capitavano in Piazza del Granduca facevano a chi li metteva più in mezzo.

Quelli che vendevano gli orologi, - che il popolo chiamava martinacci, specie di grosse chiocciole delle quali avevan tutta la figura - tenevano il primo posto.

Questa specie di orologiari di ventura o di contrabbando, con una scatola al collo piena d’orioli vecchi e nuovi, si fermavano dove c’eran più fitti quei tarpani, e senza dir nulla ad aspettare indifferenti, perchè sapevano che gli allocchi ci sarebbero cascati di suo. Costoro non avevan la pretesa esclusiva di vendere, ma s’adattavano anche a fare i baratti; ed era questa loro furbesca condiscendenza, che tirava nella rete i gonzi, i quali ci cascavano che era un piacere.

Per riuscir meglio nell’intento, quegl’imbroglioni avevano i loro manutengoli, o trucconi, i quali figuravano di contrattare uno di quelli orologi; e poi fingendo di non accomodarsi, si allontanavano. Allora un contadino si fermava e domandava anche lui il prezzo. L’orologiaro d’occasione mostrava un sacrilegio d’orologio che battezzava per un «Vacheron Costantin» e gli chiedeva trenta lire. Il contadino per non sbagliare gliene offriva venti; e il mercante quasi offeso gli voltava le spalle e se ne andava più in là, come per liberarsi, scandalizzato, dal contatto di quell'audace.

Il villano mortificato lo seguiva con gli occhi pieni di desiderio, non arrischiandosi ad avvicinarsi di nuovo per paura d’esser trattato male.

Allora un altro imbroglione, di balla col primo, usciva fuori e fermandosi dinanzi all’orologiaro gli offriva due lire di più del contadino. MIa l’altro non accettava e andava più in là ancora. Il credulo villanzone fattosi coraggio tornava, e offriva ventiquattro lire: ed il truccone ripigliava in mano l’orologio, lo guardava e ne offriva ventisei, che venivano rifiutate.

Finalmente, aumentando qualche altro soldo, il contadino finiva per fare quel beli’ acquisto di cui aveva luogo a pentirsi appena arrivato a casa.

Il bello però si era che il più delle volte quegli orologi che parevan d’argento, non eran che d’ottone argentato!

Uno dei più bravi tra quei furfanti era un certo Mercurio, famoso per appiccicare dei cosiddetti cerotti a quei contadini, che se ne ricordavano finché campavano.

Se poi e’ era qualcuno che voleva fare un baratto, questo per l’orologiaro diventava un affar d’oro addirittura. Cominciava dallo sberciare subito l’orologio vecchio, e diceva immancabilmente: — Che volete voi ch’i’ faccia di questa cazzeruola? — e lo restituiva facendo lo scontroso.

Il contadino si piccava e finché non aveva avuto un orologio peggio di quello che dava, aggiungendovi quindici o venti paoli non era contento.

Vedete per quali arcane vie la Provvidenza gastigava i contadini per quello che rubavano ai padroni!

La sera, Piazza del Granduca prendeva un aspetto tutto diverso. Non rimanevano che tre o quattro castelli di burattini, e qualcuno con le vedute del mondo nuovo, o della passione di Gesù, o della guerra di Napoleone. I ragazzi andavano a nozze e ci si spassavano e ridevano come non avranno più riso, dicerto da grandi, quando avranno creduto di divertirsi sul serio. La figura più caratteristica e che richiamava più gente, era un certo Martino, che tutte le sere verso le ventiquattro arrivava col suo carretto pieno di panieroni da cinque fiaschi, nei quali panieroni metteva uno sull’altro tanti piccoli piatti coperti, dove e’ erano dei maccheroni freddi, che andavano via a ruba appena li metteva fuori. Questo cuoco.... a freddo, si piantava vicino alla cantonata di Via Calzaioli, sulla gradinata del palazzetto Bombicci, e non riparava a smerciare i suoi maccheroni. Di ogni piatto ne tagliava cinque spicchi; da una scodella piena di cacio di Roma grattato ne pigliava pulitamente con le mani un pizzicotto, li incaciava, e con un bussolotto bucato ci spruzzava il pepe e ne dava via ad un quattrino lo spicchio.

Ma c’erano anche allora gli sciuponi, gli scialacquatori, i figliuoli prodighi, inconsideratamente golosi, i quali ne prendevano un piatto intero, che costava nientemeno che una crazia, ossia sette centesimi!... Questi dilapidatori si conoscevano a colpo d’occhio, perchè spendendo una somma così ragguardevole, tutta in una volta, avevan diritto alla forchetta, oggetto di lusso e da persone veramente a modo. Gli altri - la plebe che ne prendeva uno spicchio soltanto - li mangiava con le mani e così parevano anche più saporiti!

In meno di mezz’ora, IMartino tornava via co’ panieroni vuoti e colle tasche piene; perchè spesso le piccole industrie bene indovinate, con un capitale di tre o quattro lire, danno un guadagno da campare una famiglia intera. Martino con dieci paoli di capitale ne guadagnava altrettanti.

Finalmente la ritirata era quella che dava la chiusa alla baldoria di tutta la giornata. Mezz’ora prima delle ventiquattro venivano i tamburini e i pifferi - preceduti dal capo tamburo - e le trombe dei dragoni e dei cacciatori a piedi — quelli chiamati fior di zuicca - dirette dai capitromba. Il capotamburo, che aveva il grado di sergente maggiore e che apparteneva ai fucilieri, prendeva il comando di tutta la batteria.

Pochi minuti prima delle ventiquattro usciva fuori la guardia, ossia la compagnia che montava in Palazzo Vecchio, ed allo scocco dell’Ave Maria si metteva a rango per la preghiera. L’ufficiale faceva il saluto con la sciabola, e i soldati col fucile a pied’arm e la mano sinistra al casco, stavano in posizione, mentre la batteria dei tamburi faceva tre rulli.

Tutto il pubblico si levava il cappello e diceva - o figurava di dire - privatamente l'Angelus Domini. Terminata la preghiera, i tamburi davano un rullo prolungatissimo, che faceva rimaner senza fiato. Quindi il capotamburo per fare il bravo buttava in aria la mazza col grosso pomo d’argento, come quella dei guardaportoni, e ripigliandola e facendola roteare rapidamente come se fosse stato un fuscello, si metteva alla testa della batteria. I tamburi, i pifferi e le trombe, alternandosi a vicenda, suonavano la ritirata e marciavano tutti compatti in avanti; quindi facendo una conversione a sinistra giravano attorno alla piazza, e dopo compiuto il giro si fermavano nel mezzo. Allora ogni batteria di tamburi e di trombe se ne andava al proprio quartiere, preceduta da una turba di monelli, che facevan la a forza di salti e di capriole, seguita dai soldati e dai soliti curiosi e bighelloni. Con la ritirata, la Piazza del Granduca rimaneva deserta fino alla mattina seguente. Sotto la tettoia della Posta, la festa in tempo di pioggia o quando il sole scottava a buono, dalle undici alle due, era il ritrovo degli ufficiali e degli eleganti, che vi si davano appuntamento. E di

lì passavano le signore e le giovinette che prima d’andare a desinare facevano la rituale ed obbligatoria passeggiata di Via de’ Calzaioli, per vedere e farsi vedere.

D’inverno e nella mezza stagione il ritrovo festivo aveva luogo sull’angolo di Via Vacchereccia, dove in alto, ad una fune attraverso alla strada si attaccava l’avviso del teatro della Pergola. Gli avvisi degli altri teatri si mettevano, appesi pure ad una fune, attraverso a Via de’ Calzaioli, fra Condotta e Baccano.

Dalla farmacia Forini - di cui anch’oggi si ammira il cartello intagliato dal Duprè - fino alla cantonata di Calimaruzza, tutte le mattine si mettevano in fila i muratori senza lavoro, aspettando che qualcuno andasse a cercarli per prenderli a giornata; e quel pezzo di strada si chiamava il Canto dell’acquavite; perchè quei muratori mentre aspettavan di lavorare, per non render conto a Dio dell’ozio, ogni poco andavano da un droghiere che c’era sulla cantonata di Condotta a prendere un bicchierino.

Di qui nacque il dettato che quando un lavorante era a spasso, si diceva che era sul «Canto dell’acquavite.» Ma su quel canto ci andavano anche coloro che la bastonavano la voglia di lavorare. Costume di signora.


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