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XL.
Quella notte non dormii; passai circa sei ore, assopito, sopra una seggiola a bracciuoli, vicino al focolare, coi piedi incrociati sul paracenere, pensando e fantasticando alla luce della fiamma del caminetto. Le idee più dolci e le più tristi si succedevano senza posa nel mio cervello, si urtavano, si mescevano senza lasciarmi un istante di pace. Agiva io umanamente nell'abbandonare Fosca in quel modo? Era leale, era onesto quel fuggire così da lei, quell'ingannarla in tal guisa? Era sovratutto prudente? Nulla di tutto ciò; né io poteva mettere in calma la mia coscienza, né almeno tenermi certo che questa risoluzione non avrebbe compromesso il nostro segreto. Se nell'apprendere questa notizia, ella avesse rivelato, ne' suoi accessi, le cause della mia fuga? Se suo cugino?… E poi, ella ne avrebbe certo sofferto, ne avrebbe sofferto orribilmente, avrebbe potuto morirne! Ad ogni modo, se pur nulla di ciò fosse avvenuto, io poteva essere almeno ben sicuro che quella donna mi avrebbe disprezzato, e giustamente. Questa supposizione era tuttavia la meno triste che io potessi fare.
Ma per altro lato quante considerazioni insorgevano a giustificarmi! La mia salute, i doveri che io aveva verso Clara, la mia avversione sempre crescente, l'impossibilità di dividermi da lei in un modo meno violento, quella specie di influenza decisiva che il medico aveva esercitato sopra la mia volontà, tutto ciò doveva pure aver peso in quell'apprezzamento rigoroso che io intendevo fare della mia condotta.
E poi, quali compensi! Sarei sfuggito alle persecuzioni di Fosca, non l'avrei veduta più, avrei ricuperata la mia salute e la mia gaiezza, avrei riveduta Clara, avrei passato quaranta giorni vicino a lei. Quaranta giorni!
Ciò era più che sufficiente a confortarmi di questi scrupoli e di questi timori. Il pensiero di riabbracciare Clara fu quello che mi tenne desto e immerso nelle mie fantasticherie fino al mattino. Ogni qualvolta l'immagine di Fosca veniva a collocarsi d'innanzi a me, quella di Clara insorgeva a frapporsi e a celarmela.
Mi riscossi al suono delle ore che scoccarono alla torre della piazza. Erano le sei, e conveniva partire. Il fuoco si era spento, io mi sentiva irrigidito e ingranchito da quel lungo rimanere sulla seggiola. Uscii da quella stanza con una specie di trepidazione affannosa, ma dolce: dappertutto, vicino al letto, sul divano, nelle inarcature delle finestre, in tutti gli angoli della camera mi pareva di veder Fosca guardarmi inesorabile e minacciosa. Discesi sulla via, spirava un'aria gelata e tagliente; i fanali erano ancora accesi, incominciava ad aggiornare, il cielo era grigio e nuvoloso. Alcuni conduttori di vetture pubbliche dormivano con quel freddo, avvolti nei loro mantelli, sul cassetto delle carrozze. Ne riscossi uno, mi cacciai nella vettura, e mi feci condurre alla ferrovia. Vi giunsi un po' presto, ma non importava. Attesi una mezz'ora passeggiando per la sala, parlando e sorridendo con me stesso. Sopra uno stipite della porta rilessi le date delle gite che aveva fatto fino allora a Milano, e che aveva avuto cura di scrivervi tutte le volte colla matita. Erano cinque in tutto; vi aggiunsi quest'ultima: «Giorgio e Clara, 19 dicembre 1863.»
Queste date esistevano ancora quattro mesi or sono. Il tempo che ha distrutto i miei affetti, non ne aveva ancora cancellato le traccie. Uscendo dalla sala per entrare nella vettura, mi accorsi che aveva cominciato a piovigginare. Mi sedetti ad un'estremità del sedile presso la vetrata onde guardar la campagna che era tutta coperta di neve; i miei scrupoli erano svaniti interamente, e mi sentivo gaio e felice come un fanciullo. Fra sei ore sarei stato nelle braccia di Clara; stavamo per partire, allorché intesi aprirsi lo sportello ed entrare frettoloso un altro viaggiatore. Mi rivolsi, e rimasi fulminato: era Fosca.
Essa venne a sedersi vicino a me senza parlare. I suoi capelli erano scomposti, le sue fattezze orribilmente alterate, il pallore del suo volto cadaverico. Gli occhi di tutti i passeggeri si rivolsero verso di lei con aria mista di compassione, di spavento e di meraviglia. Io stesso non l'aveva mai veduta sotto un aspetto sì spaventoso. Se la sorpresa, se il terrore non mi avessero reso impossibile il pensarci tosto, sarei stato ancora in tempo a discendere con lei dalla vettura; ma non m'era balenata alla mente questa idea, che il convoglio era già partito. Io rinunzio a descrivere tutto lo strazio di quella situazione crudele. Ora il segreto della nostra intimità era scoperto; non solo, ma ella aveva abbandonata la sua casa per seguirmi. Se fino a quel giorno io aveva esperimentato la sua dolcezza, ora doveva esperimentare la sua collera: io leggevo ora ne' suoi occhi uno sdegno represso a forza, una fermezza di proposito che non avrei mai potuto supporre nel suo carattere; si era seduta vicino a me, ma non per altro che come per assicurarsi che non le sarei sfuggito. Non mi guardava, né pareva volermi chiedere alcuna spiegazione della mia condotta. D'altronde la sua voce era abitualmente sì debole, che il rumore delle ruote mi avrebbe impedito di sentirla.
Mi attenni all'unico rimedio che mi era possibile accettare in quel momento. Alla prima stazione che incontrammo, mi alzai e le dissi:
— Discendiamo, ci fermeremo qui, aspetteremo il primo convoglio che ritorni, parleremo.
Mi ubbidì senza rispondere.
Il paese dove ci eravamo fermati era un piccolo villaggio di poche case, e distava dieci minuti di strada dalla stazione. Il convoglio non sarebbe ripassato che fra sei ore, era necessario attendere in un luogo caldo e coperto; non v'erano carrozze, pioveva ancora, e bisognava percorrere a piedi quel tratto di cammino che ci separava dal paese.
Offersi il mio braccio a Fosca che lo accettò e vi si abbandonò come fosse stata sul punto di svenire. La copersi in parte del mio mantello. La via era tutta fango, tutta pozzanghere, e vi affondavamo fino alla caviglia; tutta la campagna era coperta di neve; stuoli innumerevoli di corvi stavano appollaiati sugli alberi; e saltellavano da un ramo all'altro senza discenderne. Noi camminavamo in silenzio; io stringeva il braccio di Fosca, e sentiva la sua persona tremare per l'emozione e pel freddo. Soltanto una grande fermezza di volontà poteva dare a lei quella forza.
Appena giunti al villaggio, vedemmo una casa sulla cui porta era dipinta una corona d'ellera, e nel mezzo di questa una bottiglia e un bicchiere riuniti da una larga pennellata di minio, che voleva figurare uno zampillo di vino, il quale pareva spicciare dal bicchiere e versarsi nella bottiglia che era più piccola. Entrammo in quella bettola. Era una stanza a piano terreno, piena di carrettieri che vi stavano bestemmiando, bevendo e fumando in piedi, come fossero stati sulle mosse per partire. Alcune tavole nere, grasse, bisunte, erano disposte attorno alle pareti, e parevano trasudare olio; un odore ributtante di chiuso, di liquori, di fumo di cattivo tabacco ammorbava quell'atmosfera in modo da renderla irrespirabile. Intanto che quei carrettieri ci stavano guardando meravigliati, ed ammiccavano degli occhi fra loro — né io poteva non rimarcare il contrasto che il volto cadaverico di Fosca formava con quelle loro faccie rosse, piene, abbronzite — chiesi alla padrona della bettola, se si potesse avere una stanza appartata e accendervi fuoco.
— Non v'è altra stanza che questa, diss'ella, ma per loro, signori, se vogliono... metterò a loro disposizione la mia.
Salimmo per una scala di legno in una camera vasta, munita d'un ampio camino, dove non tardò a brillare una gran fiamma. Offersi una sedia a Fosca che vi si lasciò cadere sfinita, ne presi un'altra per me, e mi sedetti di rimpetto a lei dall'altra parte del camino.
Eravamo soli, e poiché non era più possibile evitare una spiegazione, credetti meglio affrettarla e provocarla io medesimo. — Ecco, io dissi, o Fosca, a che cosa ci hanno condotto le vostre follìe!
Ella alzò gli occhi con lentezza, quasi con fatica; mi guardò e li riabbassò senza rispondere.
— Spero, io continuai, che mi direte quale scopo avete avuto nel seguirmi, quali sono i vostri progetti, quale il contegno che terrete verso vostro cugino, allorché gli sarà nota la vostra fuga, se pure non gli è già nota in questo istante.
— Qualunque sieno per essere le conseguenze di questa mia risoluzione, diss'ella con calma, voi non dovrete parteciparvi in alcuna maniera.
— Mi pare però che in questo stesso momento...Voi sapete che io ho una licenza di quaranta giorni, che andava a fruirne ora per riconquistare in parte quella salute che mi sono rovinato per voi, e che questa vostra imprudenza mi costringerà a rinunciarvi.
— Perché? Voi potete continuare il vostro viaggio; se in questo momento voi siete qui, e se io sono in vostra compagnia, è perché mi avete invitata a venirvi.
— Fosca, io dissi con calore, spero che non vorrete spingere tant'oltre la vostra crudeltà, da irridere perfino alla mia delicatezza. Le ragioni che adducete non hanno maggiore logica di quelle di un fanciullo. Avete troppo spirito per non avvedervene.
— No, rispose ella con asseveranza, no, siete in errore. Io sono ben risoluta a lasciarvi proseguire la vostra via, a non frappormi fra voi e la vostra felicità. Non ho saputo che nella notte di ieri la vostra risoluzione; era troppo tardi perché io potessi uscire di casa; sono venuta stamattina, ed eravate già partito; se vi avessi trovato, vi avrei fatto conoscere quali erano i miei progetti. Sono giunta ancora in tempo a vedervi e a seguirvi — a seguirvi senza parlarvi, senza chiedervi nulla, senza pretendere alcuna cosa da voi; immagino che non me ne contestereste il diritto. Ho con me del denaro, e vi terrò dietro ovunque andrete: nessuno m'impedirà di abitare la stessa città, la stessa casa, di non perdervi d'occhio un istante. Se non m'aveste invitata a discendere, vi avrei accompagnata come un'estranea, fino a Milano. In quanto a mio cugino, rassicuratevi, gli ho scritto di questo mio amore, gli ho confessato come io stessa vi ho legata a me colla mia insistenza, come avete dovuto sacrificarvi a questa passione e risolvervi ad abbandonarmi con un inganno. Gli ho detto che siete onesto, buono, leale, che il vostro maggior dolore era quello di tradire la sua fiducia (credo di aver indovinato un vostro sentimento); potete essere tranquillo su ciò.
— E credete così di avermi tolta tutta la responsabilità che mi hanno creata le vostre follie?
— È la seconda volta che usate questa parola «follie». Credeva che almeno del mio cuore non avreste mai potuto dubitare, che ne avreste rispettato il dolore.
— Ma che cosa pretendete da me?
— Nulla.
— Perché mi avete seguito?
— Ve l'ho detto.
— Ma io non vi amo, dovete pure avvedervene.
— Non importa, vi amo io.
— Non avete pensato a che cosa vi condurrà questa situazione?
— Non posso avere altro pensiero che il vostro.
— La vostra salute v'impedirà di seguirmi, non avrete forza di giungere fino a Milano.
— Ebbene, morrò per via.
— Voi credete con ciò di farvi amare, di farvi ammirare; la vostra vanità ha forse in questa risoluzione una parte maggiore che il vostro cuore; disingannatevi; la mia stima, il mio affetto non attingono alcuna forza da questa falsa costanza.
— Mi conoscete assai male, diss'ella. Io non ho creduto al vostro amore quando asserivate d'amarmi; come potrei lusingarmi di accrescerlo adesso che mi sfuggite? Non ho voluto mai che illudermi. Sono io che vi ho amato, che vi amo, che voglio amarvi. È un impegno che ho contratto con la mia coscienza. Voglio che ci crediate, vi costringerò a crederci. Mi sono votata a voi, ho risolto di morire per voi. Aveva bisogno di uno scopo nella vita, l'ho trovato, lo raggiungerò. Non importa che non mi amiate, potete anche odiarmi, è tutt'uno; anzi preferirò il vostro odio alla vostra indifferenza: ciò di cui voglio assicurarmi è della vostra memoria; voglio costringervi a ricordarvi di me; quando vi avrò oppresso con tutto il peso della mia tenerezza, quando vi avrò seguito sempre e dappertutto come la vostra ombra, quando sarò morta per voi, allora non potrete più dimenticarmi. Ecco perché vi ho seguito.
— Ma è una aberrazione, io dissi.
— Forse, ma non monta.
— Un'aberrazione inutile...
— Non credo, vi conosco.
— Per lo meno crudele.
— Sì.
— Sapete dunque che ne soffrirò?
— Sì.
— Come potete conciliare questi due sentimenti disparatissimi: l'amore che dite avere per me, e il desiderio di farmi soffrire?
— Non desidero di farvi soffrire. Io vorrei rendervi felice se lo potessi; ma il mio amore è troppo più grande delle sofferenze che può cagionarvi.
— Non vi comprendo, tutto in voi è contraddizione. — Sì, — esclamò ella con impeto — un'orribile, una spaventosa contraddizione.
Tacemmo entrambi per un istante.
— Avete però un mezzo, ripigliò ella con calma, e senza distogliere gli occhi dalla fiamma che stava affissando — per sottrarvi alle mie minacce.
— Quale?
— Uccidetemi.
— Uccidervi! Che insensatezza! Ma voi sapete che non s'uccide una persona impunemente, né senza motivi. Se mi aveste detto ciò a quindici anni, vi avrei trovato qualche cosa di nuovo, di romantico, di commovente, ma ora! E perché dovrei uccidervi? Perché non vi posso amare? Che colpa ne ho io se il mio cuore non può sentire nulla per voi?
— Il vostro cuore! diss'ella, non appellatevi al vostro cuore. Conosco questa ipocrisia delle passioni, l'ho esperimentata. Il cuore non è l'amore. Se il mio volto fosse stato meno brutto, se io avessi potuto correggere le linee del mio naso, della mia bocca, della mia fronte, conseguire un poco della freschezza e della pinguedine dell'infima donna del volgo, voi stesso, voi mi avreste adorato. L'amicizia è bontà, ma l'amore non è che bellezza.
— Sia come volete, io dissi. Doppia ragione perché dobbiate cessare di perseguitarmi sì crudelmente. Posso io impormi una simpatia che la natura vi ha negato i mezzi d'inspirarmi? Devo io subire le conseguenze di quello che vi ho fatalmente inspirato io? Che cosa poteva fare per voi oltre a ciò che ho fatto? Vi ho dedicato quattro mesi della mia gioventù, mi sono sacrificato intieramente ai vostri capricci, alle vostre pretese, ai vostri nervi. Ho avuto la forza di fingere un affetto che era ben lungi dal sentire, ho avuto la delicatezza di dissimularvi con tutti i ripieghi possibili la mia avversione. Ho resistito finché ho potuto; quando vidi che la mia salute n'era rovinata, e che non poteva liberarmi da voi che fuggendo, ho risolto, benché con ripugnanza, di giovarmi di questa astuzia. Un santo non avrebbe fatto altrimenti. Ed ora che cosa volete da me? Che cosa esigete di più? Ho sentito un vivo interesse per voi, vi ho compianta, vi ho stimata. Mi obbligherete ora a parlarvi aspramente, a far tacere perfino la mia pietà? Siete sconoscente, siete ingrata, non avete cuore. Se mi amaste, mi lascereste in pace. Pretenderete adesso che io vi sacrifichi tutta la mia vita? È impossibile. Quattro mesi di tali tormenti sono un'eternità; un amore felice non potrebbe durare di più. Voi lo sapete, voi non potete dissimularlo: io non posso amarvi, io non posso amarvi!
— Oh, tu mi amerai, esclamò ella con voce terribile, tu mi amerai!
Si drizzò di tutta la persona, e mi guardò con aria risoluta e minacciosa. Io rimasi come istupidito dalla paura e dalla sorpresa. Era avvezzo a temere quella donna, e mi meravigliava e mi doleva dell'arditezza che aveva posto in quelle mie parole. Come aveva osato tanto? Comprendevo che ella agiva ora per uno di quegli impeti, di quei sùbiti mutamenti che erano così facili nel suo carattere, e che sarebbe stato impossibile il continuare con lei una discussione seria e tranquilla.
— Fosca!... le dissi con accento affettuoso, e mi sentii soverchiato da una subita angoscia di cuore, e non potei dire di più.
Ella si portò le mani alla fronte, se la premette fino a imprimervi le traccie delle dita, alzò gli occhi al cielo, e si contorse le mani gridando:
— Ah! io sono disperata, io sono disperata!
Guardò attorno alla stanza con aria atterrita, vide la finestra, esitò un istante, poi vi si avventò con impeto. — Addio, Giorgio, addio! non mi rivedrai più!
La raggiunsi prima che avesse potuto aprirla, la trascinai a forza vicino alla sua sedia. Singhiozzava affannosamente senza piangere. L'abbracciai, e me la strinsi al seno con tenerezza.
— Siedi, siedi, io le dissi, non ti desolare così, farò tutto quello che vorrai. Tu tremi, sei pallida!
— Ho freddo.
La copersi col mio mantello, e rattizzai il fuoco.
— I tuoi piedi sono bagnati, i tuoi abiti inzuppati di pioggia; accostati alla fiamma, così. Datti pace, datti pace. Non sono cattivo, lo sai, non ti farò alcun male, ti ubbidirò, ma non mi spaventare co' tuoi impeti. Abbi anche tu compassione di me!
Tornai a sedermi, e mi celai il volto fra le mani, per nascondere le lacrime che la pietà di lei, che il dispetto della mia fortuna mi avevano richiamato sugli occhi.
Stemmo qualche momento senza parlare. Fosca si accorse che io piangeva.
— Tu piangi, — mi diss'ella — oh mio Dio!
Si lasciò cadere dalla sedia, e mi tese le braccia supplichevole.
— Non piangere, non piangere. Sono un'egoista, una miserabile. Lo so che ti rendo infelice, e non ho la forza di rinunciare a te, non lo posso, ecco la mia sciagura più grande… Oh perdonami, perdonami! Se tu vedessi nell'anima mia! Se tu sapessi come ti amo, come mi sei necessario! Fa' tutto ciò che vuoi di me, sarò la tua serva, la tua schiava, ma non mi sfuggire, non mi abbandonare. Non potrei stare quaranta giorni senza vederti, sarebbe impossibile, morrei disperata. Ritorna, ritorna. Tu lo vedi. Io morirò assai presto, sento la morte dentro di me; ancora un istante e sarai libero. Tu sei giovane, tu sei bello, hai salute, hai talento, la vita ti sorride, il mondo è tuo, la felicità che ti attende è lunga; sacrificati ancora un momento per me; quando sarò morta, considererai questa sventura come un istante di amarezza nelle lunghe ore di gioia che avrai goduto, mi ricorderai forse con delle lacrime. Non mi parlare di doveri, di ragione, io non ho più ragione, non ho più coscienza di doveri; non esigere da me ciò che non è più possibile ottenere; io ti amo, ecco tutto ciò che so dirti. Abbi carità. Ritornerai? Dimmi che ritornerai.
Si trascinò verso di me, e nascose il capo tra le mie ginocchia.
— Sì,vio le dissi, sì, torneremo assieme, ma domani dovrò pur ripartire, non posso fare a meno di recarmi per due giorni a Milano.
— Ah! esclamò ella. Ebbene, ebbene non importa. Non vorrò essere felice io sola. Avrò la forza di resistere. Ma non ti fermerai di più, ritornerai? Promettimelo.
— Sì, io dissi, te lo prometto.
— Giuralo.
— Lo giuro. Ma potrò poi rivederti in casa tua? Tuo cugino...
— Spero che non avrà veduto la mia lettera, che saprà nulla. Io l'ho lasciata sul mio tavolino da lavoro. Dacché non tengo più il letto, egli non viene più nella mia camera. Sai che non esce dall'ufficio che pel pranzo. Prima di quell'ora saremo già arrivati. La mia cameriera ne sa qualche cosa, è prevenuta, non dirà nulla. Checché avvenisse, vedrò oggi il medico, e lo pregherò di venirtene ad informare.
Ometto il resto di quel triste dialogo. Feci cercare una carrozza, e ricondussi Fosca alla stazione. Il freddo, la fatica, il dolore avevano talmente esaurito le sue forze, che dovetti quasi sollevarla sulle mie braccia per salire con essa le due predelline della vettura del convoglio. Quivi si sedette dirimpetto a me; volle tenere tutte e due le mie mani tra le sue, avvicinare il suo viso al mio, baciarmi di quando in quando come fossimo stati soli. Più ella era sofferente, più era affettuosa; lo spavento, l'agitazione, le lotte di quella mattina l'avevano sfinita; non aveva quasi più coscienza della nostra situazione, e si abbandonava a me senza ritegno.
Chi eravamo noi? Quali rapporti correvano tra quei due esseri sì diversi? Quella donna sì mostruosa, sì spaventevole, sì malata, poteva essere l'amante di quell'uomo? Tali erano le domande che io leggeva negli sguardi attoniti dei nostri compagni di viaggio.
Mi ricorderò per tutta la vita di quel giorno!
Alla sera mi sentii un poco rassicurato nel ricevere questo biglietto del dottore:
«Ho saputo da lei quanto è successo oggi, e vi scrivo per incarico suo; state tranquillo, la cosa non ebbe alcuna conseguenza, suo cugino ignora tutto. Sento che intendete di ripartire domani, e che avete promesso ritornare fra due giorni. Verrò domattina a parlarvi e a consigliarvi in proposito».
Ma quali altri consigli poteva egli darmi in quel caso?