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XLIX.
Mi trovai nel luogo convenuto presso il castello senza quasi avvedermi d’esservi andato. Non aveva dormito, e mi pareva di non essere ben desto. Il dottore era venuto co’ miei secondi, m’aveva cacciato in una carrozza, ed era stato in ciò sì pronto e sì puntuale, che eravamo giunti nello stesso istante che il mio avversario.
Era una mattina fredda, oscura, nebbiosa; gli alberi erano carichi di ghiacciuoli che la brezza faceva cadere dai rami; le campane dei paeselli vicini continuavano a suonare a festa; gruppi di contadini andavano alla città o ne tornavano coi loro canestri; le campagne erano coperte di neve e deserte.
Scendemmo nel fossato per una frana che le pioggie avevano prodotto nel terrapieno. Colà non v’era a temere di esser visti. Quel castello, cui tante volte aveva dovuto recarmi con Fosca e che non aveva veduto mai, non era abitato che da pochi coloni; le sue torri screpolate coperte di ficaie selvagge e di ellere pareano minacciarci di crollare sopra di noi.
I nostri secondi convennero che ci fossimo battuti alla sciabola, come arma meno pericolosa. Ciò era per me indifferente. Non perchè non odiassi quell’uomo, ma perchè in quell’istante non aveva coscienza nè dell’altrui pericolo, nè del mio; quella specie di esaltazione, di sonnambulismo che aveva provato in me fino dalla sera precedente era ancora più piena e più profonda. Non vedevo con chiarezza, non aveva che una percezione imperfettissima delle cose che accadevano intorno a me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa alle vene delle tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un tintinnìo incessante; provava in tutto il mio corpo quell’impressione che dà non un dolore, ma l’aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti tutta la mia macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere in attesa di qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulminato.
Ci levammo le tuniche e rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lì presso un rigagnolo; il dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso. Ci diedero le sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro, misurarono le distanze. Io aveva sul mio avversario il vantaggio della statura, egli quello dell'agilità. Era un uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi inquieti e vivaci che non cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia e una risolutezza che io era ben lungi dall'avere.
Fu dato il segnale. Il colonnello tentò subito e con agilità impareggiabile un colpo decisivo, un colpo a bandoliera che io non evitai che in parte ritirandomi. Egli mi squarciò la camicia dalla spalla destra fino al fianco sinistro, e mi segnò una lunga scalfittura sul petto. Un orlo di sangue comparve subitamente lungo tutto lo sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e dal canto mio lo colpii al braccio, ma la rimboccatura della manica rese il mio colpo inoffensivo.
Ci ordinarono desistere, esaminarono la mia ferita, ricominciammo.
Scambiammo parecchi colpi senza alcun frutto. Io era assai più abile del mio avversario, e se avessi nutrito odio per lui o avessi avuto maggior coscienza del pericolo cui m'esponevo, non avrei trovato difficoltà ad uscirne con vantaggio. Dopo pochi minuti, il colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo.
Facemmo un terzo assalto. Io era più che stanco, annoiato; mi limitava alla difesa, e mi difendeva debolmente. Il colonnello aveva riacquistata nuova energia, il dispetto lo aveva, per così dire, ringiovanito, accompagnava ogni colpo con un grido secco e breve come è costume dei duellanti, e tentava ferirmi al petto di punta. Ripeté due o tre volte questo tentativo. La sua ostinazione mi scosse istintivamente dalla mia apatia. V'era nulla di più facile che colpirlo in quel momento con un fendente di testa, né so come non se ne avvedesse. Colsi l'istante, egli mi si avventò rovesciando indietro il capo, io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a riavventarmi subito, prima che avesse avuto tempo di rimettersi in guardia. Lasciai scendere la sciabola leggermente, egli vide il pericolo, deviò a destra, e lo colpii alla spalla.
Gettò la sua arma con dispetto, rampognando i suoi secondi di aver acconsentito alla scelta della sciabola, e dicendo che il freddo gli irrigidiva le mani, e rendeva impossibile il servirsene liberamente. La sua ferita era benché profonda, non grave.
Insistette perché ci battessimo alla pistola. Nessun consiglio poté distoglierlo da questo proposito.
Levammo a sorte cui toccasse sparare per primo: la fortuna favorì il mio avversario.
Fummo collocati a trenta passi di distanza. Le pareti parallele del fosso che era angustissimo davano all'occhio una direzione sì giusta e sì facile, che io mi tenni perduto. Avvicinai la mia arma al petto per coprirne il cuore, e mi collocai un poco di fianco per offrir minor bersaglio possibile. Fu dato il segnale, il colonnello sparò, la palla passò fischiando senza colpirmi.
Egli riprese la sua posizione, io distesi il braccio, sparai alla mia volta senza mirare; egli vacillò un istante, lasciò scivolare la pistola di mano, e cadde rovesciato. Io non so cosa avvenisse di me in quell'istante. Il mio respiro si arrestò, le mie vene parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto, disperato, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano, se non forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era accorso in mio aiuto.
Quella infermità terribile per cui aveva provato tanto orrore mi aveva colpito in quell'istante; la malattia di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste eredità del mio fallo e del mio amore.