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XLVII.
Io torno a rivolgermi adesso una domanda che la mia coscienza atterrita mi ripete assiduamente da cinque anni. Sono io responsabile di ciò che commisi in quella notte? Aveva io la consapevolezza delle mie azioni? Non so; ricordarmi di quegli avvenimenti con piena esattezza di dettagli è per fermo tal cosa che sembra accusarmi; ma non ci ricordiamo noi anche dei sogni? Prima di quel giorno, dopo, oggi stesso in cui mi riconosco sì mutato, mi sarei lasciato vincere a tal punto dalle mie passioni? Ed esistono passioni sì indomabili nel mio carattere? — È uno spaventoso problema che non giungerò forse mai a decifrare. La incertezza della mia responsabilità è il segreto delle mie torture; per essa io sarò infelice tutta la vita. Che se pure io potessi allontanare da me questa responsabilità orrenda, cesserei per questo di essere la causa di quelle sciagure? La mano che colpisce nel delirio, che uccide nell'impeto della passione, è perciò meno la mano ha colpito, che ha ucciso? Io ho perduto anche il conforto disperato che mi veniva da quel dubbio; io sento la mia coscienza fremere e ripiegarsi sotto il peso di questo convincimento terribile.