< Fosca
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Capitolo XXVI
Capitolo XXV Capitolo XXVII

XXVI.

Nella sera di quel giorno medesimo ricevetti una visita del dottore che aveva conosciuto in sua casa.

— Devo parlarvi premurosamente d’una cosa che vi riguarda, diss’egli entrando e sedendosi. Vi prego anzitutto a non tacciarmi d’indiscrezione se, mio malgrado, sono venuto a conoscenza d’un segreto del vostro cuore — dico del vostro cuore tanto per modo di esprimermi — e se ho volalo accettare un mandato che in altre circostanze avrei rifiutato volontieri, comprenderete fra poco che era mio dovere di farlo.

— Dite, dite, esclamai io ansiosamente.

— Ecco, mi spiegherò con poche parole, abbiamo il tempo misurato. La signora Fosca, la cui salvezza è in questo momento assai dubbia, mi ha raccontato ieri quanto è successo tra lei e voi — è una confidenza che ella mi ha fatto spontaneamente. Voi avete respinto il suo affetto — nè ciò mi fa meraviglia, nè credo che io avrei fatto diversamente — pure questo rifiuto ha bastato a dare uno sviluppo decisivo alla sua infermità. Quella donna si lascia morire per voi, e...

— Per me! interruppi io, e si lascia morire... Non si tratta dunque d’una malattia?

— Ma sì, diss’egli impazientemente, di una cosa e dell’altra. La sua vita è attaccata ad un filo, la sua salute è così cagionevole che basterebbe un lieve sforzo di volontà ad ucciderla, come ne basterebbe uno contrario a salvarla. Non posso farmi comprendere di più da voi, non siete medico, e d’altronde questo caso è quasi anche fenomenale in medicina: Vorrei’ che mi credeste ciecamente. Quella donna non aveva certo una vita assai lunga dinanzi a sè — si tratta d’un male inguaribile — ma, se tranquilla, se calma, avrebbe potuto vivere forse ancora qualche anno. La passione che ha concepito per voi, il dolore e l’umiliazione del vostro rifiuto saranno forse sufficienti a cagionarle la morte.

Vediamo talora le stesse cause produrre effetti ancora più pronti in costituzioni sane e robuste.

— Le stesse cause! ripetei io;ma credete realmente che ella abbia sentito per me una di queste passioni serie e inguaribili? Credete che un amore appena concepito, appena confessato, non corrisposto, possa elevarsi in un attimo a questo grado di passione? Egli è che io non ho potuto comprender nulla del carattere di quella donna.

Non riesco a spiegarmi la sua condotta, mi trovo di fronte a lei come di fronte ad un mito.

— Che cosa vorreste capire del carattere di una creatura che vive continuamente sotto l’influenza di una malattia nervosa, la più complicata, la più assoluta, la più fenomenale? Bisognerebbe che conviveste con lei dieci anni per afferrare, nei pochi e rarissimi momenti di calma, il fondo vero e naturale del suo carattere. Sapreste dirmi come è fatto il letto di un fiume che scorre sempre torbido e gonfio? La sua arditezza vi sarà sembrata strana, la sua prontezza ad amarvi incomprensibile, lo capisco facilmente; pure io vi dico che l’onestà di quella donna malata vale per lo meno l’onestà di cento donne sane. È la malattia dell’amore, è l’irritabilità elevata all’ultima potenza. Voi altri spiritualisti vivete costantemente in un mondo pieno di ubbìe, non capite nulla della natura umana; avete fatto dell’onestà della donna una questione di virtù e di carattere, mentre nòn è quasi mai che una questione di nervi e di temperamento. Se Lucrezia avesse avuto una costituzione meno linfatica, un sistema nervoso meno languido, se fosse stata malata d’isterismo, credete che la monarchia dei Tarquinii?...

— Via, diss’io interrompendolo, sapete che abborro da queste teorie materialistiche, che non le voglio accettare, per quanto la ragione si ostini a ripetermi che sono le vere. Mi avete detto che il nostro tempo è limitato, sentiamo cosa posso fare per quella donna.

— Una cosa semplicissima.

— Cioè?

— Venire da lei. — Da lei! Quando?

— Subito.

— E come?

— Sapete che io abito nella stessa casa; l’appartamento di Fosca comunica col mio mediante un uscio che è chiuso, ma che mi sarà facile aprire, ancorché non ne abbia la chiave. Ella lo sa; le ho parlato di questo progetto, è lei che mi ha pregato a comunicarvelo. Basterà che io dia ordine di lasciarla sola perchè anche suo cugino si astenga dal venirci. Credo che non vi sia altro mezzo di salvarla, e immagino che non vorrete astenervi dall’usarne.

— Ma, e poi?

— Quando la sua malattia sarà tornata allo stato normale, vedremo. Intanto...

— Dovrò prometterle di amarla?...

— S’intende, e con quanta maggior dolcezza potrete. — È una cosa terribile.

— Lo immagino, diss’egli prendendo il suo cappello. Ve ne aveva avvertito io, ve ne ricordate?

— E perchè me ne avevate avvertito? Forse che ella ha fatto altrettanto con altri? Come avevate fatto a prevedere?...

— La sua condotta è irreprensibile, diss’egli, ed è ciò che forma il mio stupore; io solo posso comprendere ciò che le costa questa condotta! Ma in quanto a ciò che è successo con voi lo aveva immaginato. Noi siamo gente rozza, tipi grossolani, non ne era il caso, ci vogliono altre donne per noi. Essa ha mente colta, una spirito delicato e romantico; voi eravate l’uomo fatto a posta; l’ho detto a me stesso appena vi ho veduto: ecco l’uomo! Figuratevi, conosco quella donna da cinque anni. Voi siete un bel giovine, e la bellezza è cosa che si sconta quasi altrettanto come la bontà. Buoni Guai a coloro che vengono al mondo colla macchia di questo peccato originale!

— Me ne era accorto, — proseguì egli intanto che io mi apparecchiava ad uscire — ma siccome non me ne dicevate nulla, non voleva forzarvi a farmi questa confidenza. Capiva che non era cosa da far venire il ruzzo di contarla. Quella volta che andaste a Milano, ella stette assai male, credeva che la morisse; ebbe un assalto di nervi terribile, poi si riebbe subito nel giorno che ritornaste. Ma spicciatevi, — aggiunse il dottore guardando il suo orologio — se farà d’uopo attenderete nella mia camera.

Uscimmo assieme. Dio sa in quale stato d’animo io mi trovava!

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