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XXVIII.
Trovo nel mio giornale questo frammento scritto in quel giorno medesimo:
«Sono triste, muto, prostrato, annichilito. Appena oso credere alla realtà di una sciagura così grande. Fu inganno suo? Fu artificio anche cotesto? Io non lo so, io non so altro se non che mi sono legato per sempre a quella donna. Mi sono lagnato col medico, e gli ho espressi i miei dubbi sulla gravità di quella malattia, e sulla indispensabilità di quella visita fatale. Se ne offese, e mi disse che Fosca sarebbe forse già morta se io non ci fossi andato, e che fra pochi giorni sarà invece guarita.
Terribile e strana creatura in tutto!
Ho ripensato alle cause della mia felicità presente, mi sono posto ancora di fronte al mio passato. Che cosa era io, or fa un anno? Che cosa sarebbe stato di me se Clara non mi avesse amato? La deduzione che ne ho tratto è sconfortante, ma giusta; io fui amato per compassione; non ho il debito di amare quella donna per lo stesso motivo? Sono disgustato dalla felicità. Se non avessi fatto appello ai miei dolori di un tempo, essa non mi avrebbe mai detto quali sieno i miei doveri verso quella donna. Il dolore è più severo e più giusto.
Non è questa mia felicità che io rimpiango — io l’amo la felicità, è vero, ma l’amo come una donna che si disprezza — rimpiango bensì quella di Clara, il bisogno di ucciderla manifestandole il vero, o di offenderla segretamente tacendoglielo. Perché le rivelerò io questa infedeltà forzata? Gliela nasconderò io? E mi crederà ella? Sarà ella generosa? Diffido dell’amore, giacché più egli è profondo, e più è mostruosamente egoista. L’amore è la fusione e la conciliazione di due egoismi che si soddisfano a vicenda.
Non sarei atterrito da questo affetto se credessi alla sua purezza. Avrei anzi accettato volentieri questa missione, per quanto ella sia dolorosa, e non avrei avuto scrupolo di serbarne il segreto, ma così è impossibile. Io vedo le lotte di Fosca; le sue contraddizioni sono troppo eloquenti, la sua malattia le ha tolto tutte quelle forze che qualche volta ci fanno trionfare delle passioni; il suo amore è amore.
Io rido di coloro che credono la nostra volontà avere un potere illimitato sulle nostre passioni, che asseriscono esistere in noi una forza sempre superiore agli istinti, sempre capace di dominarli. Io non ho esperimentate le passioni perverse; non oso investigare se la società punisca nei malvagi la natura o l’uomo; mi limito a compiangerli: ma le passioni non turpi — quelle che sono come un’esuberanza viziosa delle virtù — le ho provate, né avrei meglio potuto resistere loro, di quanto lo potrebbe una verruca all’impeto di un’onda dell’oceano. Chi mi mostra la bilancia su cui pesare la potenza della volontà e quella delle passioni? Chi è che ha parlato dell’arbitrio? Chi mi insegnerà a combattere la natura colla natura? me stesso con me stesso? Dov’è questa forza misteriosa di cui ragionano costoro?
Io non la sento. È in me, o è fuori di me? D’onde viene? Ove posso trovarla? Io era nato per amare, e ho amato; se nato per uccidere, avrei forse ucciso. La responsabilità sarebbe stata uguale. Tutto ciò che avrei potuto fare, è ciò che ho fatto e che faccio — vergognarmi della mia natura!»