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XXXII.
Fosca ed io vivevamo quasi uniti come due amanti. Se io avessi potuto amarla, sentire veramente per essa ciò che la sola pietà m’induceva a fingere di sentire, nessuna donna avrebbe potuto essere più felice di lei. Perché nessun’altra avrebbe potuto amare più intensamente. Lo stesso affetto di Clara non era né sì assoluto, né sì profondo; non aveva né la forza, né l’abbandono, né la continuità, né la voluttuosa mollezza del suo. La natura di Fosca era stata in ciò privilegiata. Se il cielo le aveva negato la bellezza, lo aveva forse fatto per temperare, col difetto di questa, l’esuberanza pericolosa di quella.
Oltre a ciò, ella pensava, agiva, amava come una persona inferma. Tutto era eccezionale nella sua condotta, tutto era contraddittorio; la sua sensibilità era sì eccessiva, che le sue azioni, i suoi affetti, i suoi piaceri, i suoi timori, tutto era subordinato alle circostanze le più inconcludenti della sua vita d’ogni giorno. In una sola cosa era costante, nell’amare e nel contraddirsi, quantunque nelle sue stesse contraddizioni vi fosse qualche cosa di ordinato e di coerente, e nel suo amore un non so che di oscuro e di mutabile che non ne lasciava comprendere la natura e lo scopo. Era ben certo che in fondo a tutto ciò vi era un carattere, ma si poteva meglio indovinarlo che dirlo.
Passavamo quasi tutta la giornata assieme. Al mattino la vedeva da sola come prima; alla sera suo cugino si tratteneva qualche ora con noi; poi finiva coll’uscire e col lasciarci soli da capo. Spesso Fosca teneva il letto, e io vegliava al suo capezzale gran parte della notte. Era impossibile ribellarsi a quelle esigenze, impossibile allontanarsi da lei un istante più presto di ciò che era inesorabilmente necessario, o lasciarle apparire soltanto l’affanno in cui mi poneva quel sacrificio.
Ciò avrebbe bastato a provocare qualche accesso terribile. Era cosa avvenutami qualche volta nei primi giorni della nostra relazione, e n’era rimasto sì atterrito che mi sarei assoggettato a qualunque gravissima prova per evitarlo.
Durante quelle sue convulsioni io temeva che ella morisse, e mi sentiva rabbrividire a questo pensiero, giacché se ciò fosse avvenuto ne sarei stato io la causa. L’abitudine mi aveva reso in pochi giorni sì rassegnato, che io aveva quasi cessato di credere alla possibilità di sottrarmi a quella tortura. Il timore di ucciderla mi rendeva capace di qualunque sacrificio. Ella mi faceva rimanere vicino al suo letto delle lunghe ore, e nelle posizioni le più penose; o col capo sul guanciale, o colle mani intrecciate colle sue, o col viso rivolto verso la luce perché potesse vedermi bene. Mi conveniva chiudere gli occhi, aprirli, fingere di dormire, sorridere, parlare, tacere, alzarmi, passeggiare, tornarmi a sedere, secondo che ella mi diceva di fare. Una disubbidienza commessa con garbo poteva farla sorridere, ma un atto dispettoso poteva avere conseguenze fatali. Quando era malata molto, i miei tormenti divenivano ancora maggiori. Ella aveva degli eccessi di tristezza e di disperazione veramente spaventevoli. La pietà che ne sentiva mi lacerava il cuore. Spesso era assalita da emicranie sì violente che ne diventava come pazza. Si lacerava i capelli, e tentava di percuotere la testa alla parete. In mezzo a quelle sue urla, a quei suoi spasimi, non si dimenticava però di me; mi avvinghiava tra le sue braccia con forza, quasi avesse voluto cercar salvezza sul mio seno, e non mi lasciava libero se non quando i suoi dolori l’avevano abbandonata. Io rimaneva tra le sue braccia, inerte, muto, inorridito, cogli occhi chiusi per non vederne il volto, atterrito dal pensiero che una mia imprudenza avrebbe provocato in lei quelle convulsioni, durante le quali avrebbe potuto tradire inconsciamente il nostro segreto. Nei pochi momenti di calma le leggeva qualche libro, o parlavamo del nostro passato; e io mostrava di metter fede e interesse nei progetti strani e impossibili che ella formava pel suo avvenire. Allora ella era spesso ragionevole, spesso anche amabile, sempre buona; il suo dire era sì aggraziato, sì facile, e le modulazioni della sua voce sì dolci, che a non vederla si poteva rimanere incantati della sua compagnia.
Negl’intervalli di benessere che le lasciavano di quando in quando le sue infermità, era vivace, lieta, qualche volta scherzosa. Alzata, era altra donna. Lo sfarzo dei suoi abiti, i suoi profumi, i fiori di cui riempiva le sue stanze, sembravano metterla in una luce più serena, e circondarla d’un’atmosfera meno lugubre. Benché que’ suoi acconciamenti sì ricchi dessero maggior risalto alla sua bruttezza, non la rendevano però sì spaventevole. In quei momenti v’era nella sua persona qualche cosa di vivo, di giovane, di voluttuoso che il letto e la malattia non lasciavano apparire. Passava quasi tutto il giorno in un suo gabinetto dove non riceveva altre persone che suo cugino ed io. V’era colà un ampio divano di velluto turchino, sul quale mi faceva sedere vicino a lei; mi aveva assegnato un posto alla sua destra, ed esigeva che non mi sedessi in altro punto del divano che in quello. Non vedendomi mai che là, diceva ella, poteva, allorché io non v’era, sedersi al suo posto e illudersi di avermi vicino. Spesso mi teneva abbracciato delle lunghe ore, e mi faceva ripetere parola per parola alcune frasi affettuose che né il mio cuore mi avrebbe suggerito, né avrei avuto la forza di dirle. Queste sue follie erano inesauribili come la mia rassegnazione, giacché tutto ciò che avrebbe formato la felicità di un amante, formava invece la mia tortura, né sapeva indurmi a dimostrarglielo. Mi copriva di petali di fiori, mi faceva magiare dei bottoni di rose, o assaggiare le sue medicine che erano quasi sempre amarissime. Talora esigeva che mi mettessi al tavolo, che le scrivessi una lettera amorosa che mi dettava sovente ella stessa. Dopo essersi abbandonata a tutte queste follie, era spesso assalita da una tristezza improvvisa, si buttava a terra in ginocchio, mi diceva di perdonarla, e piangeva. Passava da un eccesso all’altro, ad un tratto, senza cause apparenti; e non aveva alcuna moderazione né ne’ suoi dolori, né nelle sue gioie.
Ciò che mi pareva più incomprensibile in lei, era che non viveva che di caffè. Non veniva a tavola che per trovarmisi vicina, e per mettere a prova la mia pazienza, facendo passare i suoi piccoli piedi sotto i miei, perché glie li premessi, o pizzicandomi le ginocchia sotto la tovaglia. In quei momenti sapeva che io avrei tollerato tutto, e abusava volentieri di questa sicurezza.
Alla sera facevamo abitualmente una passeggiata in carrozza. La stagione era ancora assai calda, e spesso non uscivamo che sull’imbrunire. Il moto della vettura conciliava sì bene il sonno al colonnello, ed egli era sì felice di sapere che v’era lì io per conversare con sua cugina, che non aveva posto piede sulla predella che era già addormentato. Fosca sembrava trovare maggior piacere in quelle strette di mano e in quei baci che mi dava di sotterfugio in quei momenti. Quella era per lei l’ora più felice della giornata: il sapere che suo cugino era lì, che io avrei osato dir nulla, oppormi a nulla, rendeva la sua arditezza ancora più tormentosa. Le sue imprudenze erano in quei momenti senza numero.
In quanto a me non v’erano istanti più tristi di quelli.
Le strade che percorrevamo erano quasi tutte strade di campagna, strette, solitarie, aperte in mezzo ai vigneti ed ai prati. Era il principio dell’autunno; i grilli, le locuste, le piccole rane delle siepi riempivano l’aria d’una musica piena di dolcezza e di melanconia. Il cielo era quasi sempre sereno e stellato, l’aria impregnata di profumi. In quei momenti avrei voluto pensare a Clara, raccogliermi e dimenticarmi in quel pensiero, ma non era possibile. Fosca mi richiamava inesorabilmente alla realtà della mia situazione.
Ma a che scopo ricordare le angosce di quei giorni? Furono tali dolori che non si possono né immaginare, né dire, né forse sopportare senza soccombervi. La prova che io ho subita fu breve, ed è a ciò soltanto che ho dovuto la mia salvezza. Venti giorni dopo la convalescenza di Fosca, io non aveva già più né salute, né coraggio, né speranza di sopravvivere e quella sciagura.