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CATALOGO DELLE DONNE
Altra famosissima opera d’Esiodo fu il Catalogo delle Donne, detto anche, piú alla spiccia, Catalogo, o Cataloghi. Era un indice delle donne mortali che, amate da Numi, avevano generato eroi. Conteneva una gran quantità di leggende di tutte quante le stirpi greche: in un tempo in cui non esisteva storia, era, in sostanza, un manuale versificato di storia degli eroi. Storia veduta attraverso le donne; e perciò con tendenza, come oggi si direbbe, femminista.
Tutta l’opera, o almeno una parte di essa, veniva anche designata col nome di Eòe, perché i singoli paragrafi incominciavano con la canonica espressione è oie (o quale). Anodino artificio imitato poi dagli Alessandrini. Nella numerazione dei frammenti seguo l’edizione minore di Rzach (Lipsia, 1908).
pandora e greco (24)
Secondo la testimonianza dell’istorico e matematico Lydo (VI sec. d. C.), che riferisce il frammento, da questo Greco avrebbero derivato il loro nome gli Elleni venuti in Italia.
Pandora, la Fanciulla, die’ a luce, nei tetti del vago
Deucalïone, a Giove, signore di tutti i Celesti,
Greco, possente guerriero: ché a lui fu commista d’amore.
tia e macedone (25)
Ed essa, incinta, a Giove, signor che del fulmine gode,
dava due figli a luce: Magnete, e Macèdone, vago
di corsïeri; e abitaron di Pieria nei pressi e d’Olimpo.
i primi re d’ellade (27)
Nacquero d’Èlleno i re che partiscon giustizia alle genti,
Doro, con Xuto ed Eolo, cui furon diletti i corsieri.
⁂
Ed Eòlidi re, di giustizia datori alle genti,
furo Atamante e Cretèo, con Sísifo scaltro di mente,
e Salmonèo l’ingiusto, Perière l’oltracotante.
le metamorfosi di periclimeno (14)
Periclímeno altero,
felice, a cui concesse Posídone, re dei tremuoti,
assumere ogni forma. Talor fra gli uccelli sembrava
aquila; e poi sembrava, stupore a vederlo, formica:
si confondeva poi fra le belle tribú delle pecchie:
e poi sembrava orrendo, crudele serpente: risorse
aveva d’ogni specie. Ma poi, per consiglio d’Atena
(Ercole) inganno gli tese.
E gli undici animosi di Nèlëo figli trafisse.
Il decimosecondo, Gerenio signor di cavalli,
ospite si trovava allor fra gli equestri Gerèni.
Nestore solo salvo restò nell’amena Gerène.
E Policasta, vaga cintura, la figlia minore
di Nestore Nelíde, congiunta a Telèmaco, come
volle Afrodite, a lui generava Persèpoli.
Esone generò Giasone, pastore di genti,
che da Chirone fu cresciuto fra i boschi del Pelio.
atalanta (20)
Di tale signore
nacque Atalanta, pie’ veloce: il fulgor delle Grazie
negli occhi a lei fulgeva; ma stringere nozze negava
con quei della tribú.
E d’Arabo la figlia: e fu padre d’Arabo Ermao,
l’innocuo sire, e Tronia, figliuola di Belo signore.
come arco non fu piú sitibonda (24)
Argo senz’acqua era prima, ma Dànao irrigua la rese.
Narrava la leggenda che le figlie di Preto, giunte all’età pubere, sarebbero state còlte da follia, per aver mancato di riguardo, in un modo o nell’altro, secondo alcuni a Diòniso, secondo altri ad Era.
Ma, stando ai due seguenti frammenti d’Esiodo, altro fu il morbo, altra la causa.
Causa fu la lussuria (μαχλοσύνη, specificamente femminile: tanto che Aristarco espungeva un verso dell’iliade (XXIV, 30) in cui il vocabolo è adoperato per designare quella di Paride). E il morbo non era propriamente follia, bensì uno sfiorire della freschezza giovanile, accompagnato da sintomi (frm. 29) che chiaramente sembrano caratterizzare un morbo celtico. È comune credenza che fosse ignoto all’antichità classica. Ma furono già rilevati — prima, credo, da Giuseppe De Lorenzo — i molti caratteri per cui è da ritenere celtica la follia d’Ercole. Questo brano d’Esiodo sembrerebbe condurre alle medesime conclusioni. E accrescerebbe d’un particolare assai caratteristico il quadro che facilmente si può delineare della società femminile greca nel mondo Egeo. Vedi la mia prefazione all’Iliade (p. XXIII), e l’introduzione all’Ippolito d’Euripide.
Per l’odïosa lascivia perdevano il tenero fiore.
Una molesta tigna spandeasi su tutta la testa:
ed una macchia tutta la pelle copriva, e i capelli
cadean giú dalla testa, restavano calvi i bei capi.
demodoca figlia d’agenore (33)
E Demodoca ambivano molti degli uomini nati
sopra la terra, e assai le offrivano fulgidi doni,
possenti re: ché era la sua bellezza infinita.
il cefiso (37)
Che dal Lilaio giú le fluenti bellissime effonde.
(38)
Che lungo Panopèa, traverso Glicóna l’eccelsa,
traverso Ercòmeno va, serpendo, e somiglia un dragone.
la madre d’eaco (76)
Eaco a luce essa die’, di cavalli maestro; ma quando
esso dei giovani anni giocondi alla mèta pervenne,
d’essere solo, cruccio gli prese; e degli uomini e i Numi
il padre, quante c’eran nell’isola bella formiche,
tante ne convertí in uomini, in donne eleganti.
Primi costrussero essi le navi che libransi in mare,
primi vi teser le vele, che sono come ali al naviglio.
storia d’ippolita (79)
Ippolita, moglie di Acasto, figlio di Pelia, re di Iolco, innamorò di Peleo, e tentò sedurlo. Respinta, lo accusò al marito, che pensò di vendicarsi. Recatosi a caccia sul Pelio con Pelèo, colto il momento che il compagno era addormentato, gli tolse la spada e lo abbandonò, sperando che cosí inerme i Centauri lo avrebbero sopraffatto. Ma Peleo si salvò, e uccise lui e la moglie.
79
E, riflettendo, questo gli parve il partito migliore:
lui trattenere, e di soppiatto celare la spada,
bella, che aveva a lui forgiata l’insigne Ambidestro,
sí che, cercandola invano fra i picchi del Pelio, ben tosto
dovesse sotto i colpi cader dei Centauri alpestri.
81
A Ftia, madre di greggi, recando assai copia di beni,
Pelèo giunse da Iolco, città dalle belle contrade,
d’Eaco il figlio, caro del cielo ai signori immortali.
E meraviglia il cuore pervase di tutte le genti,
come espugnò la città ben munita, e le amabili nozze
effettuò: tal sentenza volò su le bocche di tutti:
«D’Eaco figlio tre, quattro volte beato, Pelèo,
ché Giove Olimpio a te concesse una sposa sí bella,
ed ebber le tue nozze testimonî i Numi d’Olimpo.
l’età dell’oro (82)
Erano allora in comune banchetti, in comune convegni
per gl’immortali Celesti, per gli uomini nati a morire.
D’amore unita Arsinoe col figlio di Lato e di Giove.
Asclepio a luce die’, possente figliuol, senza menda.
timandra (90)
Ed Echemo, si dice, sposava Timandra la bella.
le figlie di tindaro (93)
Lo scoliaste all’Oreste d’Euripide dice che Tíndaro, sacrificando a tutti gli Dei, dimenticò Afrodite, che ne trasse vendetta facendo far mala fine a tutte le sue bellissime figlie. E cita il seguente frammento d’Esiodo, che completa le osservazioni fatte a proposito del frammento 28-29.
Le vide, le ammirò l’amica del riso Afrodite;
ma poi su lor gittò trista fama. Timandra, lasciato
Èchemo, andò con Filèo, prediletto dai Numi del cielo:
il letto abbandonò d’Agamènnone pari ai Celesti,
e scelse Egisto, sposo che meno valea, Clitemnestra:
di Menelao chioma bionda cosí macchiò Elena il letto.
le nozze di elena (94-95)
I frammenti che seguono, trovati in brani di papiro, costituiscono la parte piú lunga e complessa che possediamo del Catalogo delle donne. Ne traduco i brani meglio conservati. In principo si narrava come Tíndaro Castore e Polluce, rispettivamente padre e fratelli d’Elena, invitarono tutti i signori d’Ellade a gareggiare per le nozze della bellissima fanciulla. Seguiva numerazione degli eroi (altro catalogo), con la specificazione del luogo di provenienza d’ognuno, e dei doni che recava: replica, certo ennesima, nel complesso della produzione epica, dei famosi cataloghi omerici. È perduto il nome dell’eroe di cui si parla nel primo frammento. Questo brano riesce illustrato dalla narrazione che Agamennone fa al proprio servo nella prima scena della Ifigenia in Aulide.
Eroi da ogni parte d’Ellade si presentano a chiedere Elena in sposa.
ed altrettante donne spertissime d’opere egregie,
che nelle mani tutte stringevano calici d’oro.
E qui Càstore, e qui di certo il gagliardo Polluce
genero scelto l’avrebber; ma n’ebbe Agamennone brama,
genero loro, che sposa l’avesse il fratel Menelao.
⁂
Entrambi d’Argo qui pretendenti anche vennero i figli
d’Anfïarào, del figlio d’Eclèo: ma pur essi il destino...
⁂
Possibile non era coi figli di Tíndaro inganno.
⁂
E d’Itaca venía la forza divina d’Ulisse,
del figlio di Laerte, che scaltro era d’ogni malizia.
Mandati ei non aveva presenti per l’agil fanciulla,
perché sapeva che Menelao chioma bionda la gara
avrebbe vinta: ch’era di tutti gli Achivi il piú ricco.
A Lacedèmone, pure, mandare soleva messaggi
a Càstore, a Polluce, maestro a domare corsieri
l’uno, trionfatore di gare il secondo.
⁂
A Càstore, a Polluce, maestro a domare cavalli
l’uno, trionfatore d’agoni il secondo: sposare
Elena chioma bella voleva: né pure veduta
l’avea; ma solo udite parole ne aveva dagli altri.
⁂
Vennero due campioni da Fílaca, insigni fra tutti:
d’Ificlo figlio di Fílaco il figlio, Podarce, e il gagliardo
d’Attore figlio, Protesilao, di vigor sovrumano.
A Lacedèmone entrambi messaggi mandavano, al figlio
d’Ebalo, a Tíndaro, mente sagace, assai doni di nozze
alla sua casa: ché della fanciulla grande era la fama.
⁂
Il figlio di Petèo, Menèsteo, venne d’Atene,
assai doni recando: poiché possedeva tesori,
ora, e lebeti, e tripodi belli, che stavano accolti
entro la casa di re Petèo, quanti il cuore gli disse
che ne donasse alla sposa, recandone tanti: credeva
che niuno degli eroi superarlo potesse in ricchezza.
⁂
Da Salamina Aiace, l’eroe senza macchia, vi giunse,
ed abbondanza grande recò di mirabili doni.
Poich’esso, a quanti figli d’Achivi abitavan Trezene,
od Epidauro cinta dal mare, od Egina, o Maseta,
o vuoi Megara ombrosa, o l’alta Corinto, o Ermïóne,
o Asíne, sita presso la spiaggia del pelago, a tutti
deliberava i tardi giovenchi rapire, e le greggi
pingui, e a lei darle: ché molto valea con la lunga sua lancia.
⁂
Poi, dall’Eubea giungeva Elefènore, sire di genti,
di Calcodonte figlio, signor dei magnanimi Abanti,
e molti doni a lei recò: ché nutriva gran brama
d’avere Elena sposa.
⁂
D’Idomenèo la gran possa giungeva da Creta, a cui padre
Deucalïone fu, figliuolo del grande Minosse;
né alcun dei pretenenti mandò che messaggi recasse,
ma nella nave negra dai multipli banchi, egli stesso
andò, pei foschi flutti del mare d’Ogílio alla casa
di Tíndaro assennata, per Elena avere consorte.
Tindaro esige dai pretendenti un giuramento.
Ai pretendenti giuri solenni richiese: li fece
giurar che a niuna impresa nessuno sarebbesi accinto
senza di lui, per avere sua sposa la vaga fanciulla.
E, se per forza alcuno rapirla volesse, e bandire
la verecondia e il pudore, li astrinse che contro quell’uno
tutti dovessero uniti scagliarsi, ed averne vendetta.
E senza indugio promisero quelli: ché ognuno sperava
ch’Elena sua sarebbe: però Menelao vinse tutti,
d’Atríde il figlio, a Marte diletto, che doni recava
piú copïosi. E Chirone, nel Pelio selvoso condusse
il pie’ veloce Pelíde, degli uomini tutti il più prode,
fanciullo ancora: ché neppur Menelao caro a Marte
vinto l’avrebbe, né alcuno di quanti sono uomini in terra,
se gareggiato avesse per Elena, e ancora fanciulla
trovata, ritornando dal Pelio alla patria, l’avesse
Achille: or Menelao l’ebbe prima, diletto di Marte.
Giove concepisce l’idea della guerra troiana.
Essa a vita die’ nella reggia ad Ermíone bella,
contro ogni attesa; e i Numi si scissero tutti in due parti,
per quella gara. E allora, concepí solenni disegni
Giove che i nugoli aduna, di produrre gran turbamenti
sopra l’immensa terra, di fare degli uomini grande
sterminio; e fu pretesto che struggere l’alme volesse
dei Seminumi, perché dei Numi i figliuoli piú nozze
stringere non dovesser con gli uomini.
Giove manda sulla terra la sterilità.
E molte frondi belle languivan sugli alberi eccelsi,
cadeano al suolo, i frutti spargevansi a terra, spirando
impetuoso Borea, ché tale era il fato di Giove.
E ribolliva il mare, tremavano tutte le cose,
distrutta era la forza degli uomini, il frutto perduto
andava a Primavera, nei giorni che in grembo alla terra
genera, dopo tre anni che li ebbe concetti, tre figli
il Senzacrini. Ei va per fitti macchioni e per selve,
a Primavera, ché schiva, che aborre ogni umana vestigia,
per balze e per valloni. D’inverno, coperto da mucchi
alti di foglie, il Drago terribile, negro sul dorso,
giace; ma lui, per quanto selvaggio, terribile, immane,
doman gli strali di Giove. Di lui resta l’anima sola,
che svolazzando stride brev’ora sul letto di foglie.
I figli d’Elena.
A Menelao caro a Marte partoriva Ermíone, e, rampollo
di Marte, il valoroso Nicòstrato.
minosse (103)
Ed era il più sovrano di tutti i sovrani mortali,
e sopra molte genti vicine regnava: ché suo
era lo scettro di Giove: con quello imperava su molti.
teseo (105)
Teseo abbandona Arianna per amore d’un altra.
Ché d’Egle Panopèide struggealo ardentissimo amore.
stratonica (110-111)
E, divenuta incinta, Stratònica, fulgida zona,
Eurito generò nelle case, carissimo figlio.
E Leio e Clizio figli poi furon d’Euríto, e Tossèo
simile ai Numi, e Ifíto, rampollo di Marte, e con essi
Antíope, regina di Pilone Nebolidao,
diede alla luce Iolea, la bionda fiorente fanciulla.
i figli di chione (111)
Autòlico generò, con Filàmmone, insigne nel canto.
la nascita di autolico (112)
Chione ebbe Filàmmone, ricordato nel frammento precedente, da Apollo: e da Ermète Autòlico, che fu padre di Anticlèa, madre di Ulisse, e godé per tutta l’antichità fama di ladro insuperabile.
Ché quante cose prendeva, tante poi ne faceva sparire.
i figli d’epito (113)
Epito poi generò Tlesènore con Piritòo.
locro, signore dei lelegi (115)
E comandava poi le turbe dei Lèlegi Locro,
quelli che un giorno Giove, signore dal saggio consiglio,
diede a Deucalïone, terrigeni insigni fra tutti.
ileo padre d’aiace (116)
Ilèo, che Apollo, il Nume di Giove figliuol, predilesse,
e questo nome volle che fosse per lui destinato,
perché, presso al padule trovata la Ninfa, con lei
s’uní nel dolce amore, quel dí che Posídone e Apollo
della città ben costrutta levarono l’altissimo muro.
ificlo figlio di climena (117)
Degli asfodeli correa su le cime, né pur li piegava,
spingeva i piedi in corsa sovresse le spighe del grano,
senza distruggerne il frutto.
il vino fonte di beni e di mali (121)
Come Dïòniso diede agli uomini un gaudio e un cruccio,
chi troppo beve, e il vino per lui si converte in follia,
e piedi e mani e lingua gli lega, e pensiero, con lacci
indissolubili; e piomba su lui, mollissimo il sonno.
LA STORIA DI CORONIDE
Sul mito di Corònide, si veda la bellissima terza Pitica di Pindaro.
Il soggiorno di Corònide (122)}}
O come, soggiornando sui colli di Dídimo sacri,
sul pian di Loto, in fronte d’Amíro ai vigneti, il suo piede
nella Bebíade palude tergeva la vergine intatta.
Un corvo annuncia ad Apollo il tradimento di Corònide (123)
E un corvo giunse a Pito santissima, araldo del sacro
banchetto, e a Febo, nume d’intonsa cesarie, le gesta
svelò d’amor furtivo, come Ische, figliuolo d’Elàto
sposata avea Corònide, figlia di Flegia divino.
La punizione di Asclepio (125).
Da Corònide nasce Asclepio che, divenuto sommo nella medicina, abusa della sua scienza, e resuscita un cadavere. Giove, non tollerando che
siano violate le leggi del fato, lo fulmina.
...., Degli uomini il padre e dei Numi
salito in ira, giú d’Olimpo scagliò la saetta
fuligginosa, e uccise, sdegnato, il figliuolo d’Apollo.
cirene (128)
Il mito di Cirene è narrato nell’Ode Pitica IX di Pindaro.
O come del Penèo presso all’acque, la bella Cirene
in Ftia dimora aveva, che bella era come le Grazie.
O come la beota Iría nutricò la fanciulla.
Evvi una terra Ellopia, di pascoli pingue e di campi,
opulenta di greggi, di bovi dal pie’ trascicante.
Uomini vivono qui, di pecore ricchi e giovenchi,
innumerabili, fitte progenie di genti mortali.
Ed una certa Dodona è quivi, agli estremi confini,
cui predilesse Giove, l’elesse per suo santuario,
dagli uomini onorato, fondato sul ceppo d’un faggio.
Oracoli di qui, d’ogni specie riportan le genti,
quante, venute qui, consultano il Nume immortale,
quanti con lieti auspici, qui giungono, e recano doni.
lino
Il frammento 192 è citato da uno scoliaste d’Omero (XVIII 570), senza indicazione di provenienza. Ma mi sembra che dovesse appartenere al Catalogo.
192
E Urania partorí figliuolo bellissimo, Lino,
cui, quanti son fra i mortali maestri di cetre e di canti,
nelle carole e nei festini lamentano tutti,
tutti, al principio ed al fine, invocano il nome di Lino.
atalanta
Un papiro pubblicato dalla Società italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto, ci offre una cinquantina di versi che quasi certamente appartennero alle Eoe, e in cui è narrato il mito d’Atalanta. Nei prima quaranta, assai mutilati, si narrano i preparativi della gara, negli ultimi, meglio conservati, la gara stessa. Il pretendente in gara con Atalanta è Ippòmene.
Ed egli, i piedi a corsa veloce spingendo, gittava
il primo pomo; e quella, rivoltasi, a guisa d’Arpía,
lo ghermí. L’altro a terra lasciò cadere il secondo,
ed ebbe la veloce divina Atalanta due pomi.
E presso era alla mèta di già; ma, lanciando anche il terzo,
poté quegli schivare la morte e la livida Parca.
E allor trasse il respiro.