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II.
Sequitur Lamentatio....
Corsenna, 12 luglio 18...
Hai un bel canzonarmi, osservando che io porto i miei sopraccapi anche in villa, e paragonandomi (questa poi è nuovissima) al triste cavaliere di Orazio, che si trascinava in groppa la più fastidiosa tra le dame. Ma io non posso farmi diverso da quello che sono: faccio già molto a scriverti, e tu dovresti essermi grato d’un sacrifizio che nessun altri ottiene da me. Del resto, canzonami pure; mentre io, per non disimparare del tutto la vecchia arte di Cadmo, bene o male continuo a scrivere, facendo per te una specie di giornale; il giornale di Corsenna, niente di meno! Questo villaggio non ha mai sognato, nella più felice delle sue notti, un onor così grande. Il giornale rimarrà inedito, pur troppo: ma i Corsennati avranno pazienza; l’avranno tanto più volentieri, in quanto che, se il giornale fosse stampato, essi non si prenderebbero certamente la briga di leggerlo. Sono un popolo saggio, i Corsennati, di ceppo italico antico e sincero.
Incominciamo ad ogni modo. Articolo di fondo: ho trovato una bella passeggiata veramente degna di noi. Seguimi, facendoti coraggio tuttavia, perchè bisogna passare sopra un pancone, anzi su due, accostati pei lor capi a tocca e non tocca sull’asse d’una piedica, che vorrebbe parere una pila di ponte. La vedo brutta, quella povera pila, ai primi rovesci d’autunno; e vedo brutti egualmente i due panconi sconnessi, con quel tronco di pino che fa da ringhiera, mal rimondato e peggio assicurato su quattro pali malissimo inchiodati, per uso dei passeggeri che soffrono di vertigini. Già, i più non ci si fidano, e passan di sotto. Per tua norma, il fiume è magro anzi che no, tanto magro che fa pena a vederlo, disteso in quel suo grandissimo letto. Pozze e pozzanghere non gliene mancano, ma già tirano al verde: ci ha da una sponda o dall’altra qualche fosserello addormentato sotto la frasca sporgente dei frassini, e qualche tonfano rannicchiato al riparo d’un gran masso rugoso; mentre un fil d’acqua viva corre brillando e sussurrando tra i ciottoli, per collegare e nutrire tutti quei Nianza e Tanganica, dei quali il più grosso non è largo due metri.
Di là dal greto, che si vede qua e là screziato e rallegrato da larghi cesti di romice, da candelabri fogliosi di tasso barbasso, di labbra d’asino, di denti di leone, d’orecchi di topo e di scarpette di Venere, si stende una fila nereggiante di ontàni. Un po’ radi, gli ontàni e non alti, perchè i proprietarii di qui non lasciano invecchiare le piante da taglio, smaniosi di far quattrini, che il diavolo se li porti! Dietro la scarsa fila degli ontàni, corre un sentiero campestre, costeggiando la riva; di là dal sentiero, davanti a me ed al mio ponte di legno, si dilunga verso la montagna una doppia fila di pioppi, spettacolosi per l’altezza delle vette ed anche per la grossezza dei tronchi. Ah, sia lodato il cielo; si capisce qui che il padrone di quei pioppi è un signore per davvero, o che almeno non ha l’acqua alla gola, e in ogni caso è un poeta, che ama le belle cose e vuol dare la sua parte anche agli occhi.
Che sarà mai questa piantata di pioppi? Sono un centinaio per parte, e il largo viale che si stende nel mezzo dovrebbe condurre ad un castello, ad un palazzo, ad un nobile edifizio, insomma. Cerca cerca, l’edifizio non c’è; neanche le rovine. Meglio così; le rovine non avrebbero carattere; un edifizio in piedi, abitato e custodito, mi costringerebbe a girar largo, per non dar noia o non riceverne dai suoi possessori. Quel gran viale, bontà sua, ti conduce ad una vasta prateria, ad una conca, ad un anfiteatro di verdura, più nobile di qualsivoglia edifizio. Che bellezza! e che pace, compimento di bellezza! Il dolce piano, leggermente incavato, è tutto un tappeto di verde tenero, che si ravviva di toni gialli al sorriso del sole; screziato a capriccio dalle candide rappe delle piantaggini tremolanti alla brezza sui loro elegantissimi steli, o dai rossi calici spampanati dei rosolacci in ritardo; rotto a larghi intervalli, o infoscato sui lembi, da cesti di sermollino, da ciuffi di règamo, da cespugli di mentastro. In capo alla prateria, che sale via via come il labbro d’una coppa di malachite, sorge e si spande una siepe di carpinelle, oltre la quale si leva la costa del poggio, tutta densa di castagni fino al suo colmo, donde sbuca un campanile aguzzo e trapela il tetto della chiesuola di Santa Giustina.
Non conosco la santa, e non ho ancora veduto il santuario. È la prima volta che mi decido a passare il fiume, e che quel campanile m’invita. Dicono che il fulmine l’abbia già visitato due volte. Certo, il fulmine è più volenteroso alpinista di me; ed anche più allegro. Lo ha notato il poeta nella indimenticabile strofa:
Il gentile terremoto |
Facciamoci avanti. Tra la siepe delle carpinelle e le falde del monte, serrata ai fianchi dal margine naturale del terreno e da quello di un rialto artificiale tutto vestito di zolle verdeggianti, corre un’acqua profonda, limpida e cristallina. Ah, capisco finalmente perchè il fiume abbia sete. Gli han fatto una pescaia molto più in su, e l’acqua se ne viene da un lato, per il suo canaletto, mormorando il suo saluto alle felci e ai capelveneri, cheta cheta immollando il terreno senza corroderlo. Quante erbe ci vivono, in quella grazia di Dio, succhiandola con mille e mille radici! quanti fiori ci pendon sopra, come se volessero covarla con gli occhi innamorati! Fiorellini, fiorellini, oserò dir io i vostri nomi, nella barbara lingua dotta che voi non sapete? Nella lingua del paese non li so io, e non ho tempo da perdere, volendo piuttosto ammirarvi. Il vostro nome è bellezza; e questo in tutte le lingue del mondo. Uno di essi è bianco di latte, e la sua corolla piccina, fatta di quattro petali spanti, pesa ancor molto sulla lunga asticciuola filiforme. Dev’esser zuccherino, il suo calice, perchè troppo volentieri gl’insetti vanno ad immergere il muso là dentro. Un altro ha il gambo più grosso, almeno quanto un cordoncino di tre fili di refe; e porta in capo un tubetto rigonfio alla base, più stretto al collo, donde salgono arrovesciandosi quattro eleganti lacinie, per mezzo alle quali guardando s’intravvede nel fondo un giro di grumoletti d’oro, sospesi su tenui stami d’argento, come perle o gemme sulle punte d’una corona. A chi è destinato il tesoro? Qual genio minuscolo, della figliuolanza di Oberone e Titania, cingerà il grazioso diadema custodito in quell’urna di zaffiro? Non indaghiamo, non facciamo almanacchi. Vegetiamo, sia la parola d’ordine per me, come a Pertinace il suo “Militemus„ come il suo “Laboremus„ a Settimio Severo.
“Qui freno al corso,„ come dice David nella prima scena del Saul; qui siedo e me ne sto un paio d’ore al rezzo, contemplando i moscerini che volano nell’aria cupa, non trattenendo i pensieri che passano liberamente per l’anima, senza lasciarci una traccia. È in questo recesso ombroso una quiete, una calma tiepida, attraversata a quando a quando da soavissimi aliti di frescura, onde hai tutte le sensazioni del supremo benessere. Non so come sia che un miliardo e mezzo di creature, tra ragionanti, e sragionanti, sparse sulla faccia della terra, non l’abbiano ancora sentito. Capisco che per molti è questione di vivere, e i bisogni urgenti non danno agio a pensare: capisco ancora che la felicità suprema dell’estasi inerte richiede un alto grado di perfezione intellettuale. Ma tutti quelli che l’hanno raggiunto, quel grado, perchè si vengono moltiplicando senza ragione i bisogni? perchè vanno attorno cercando i malanni col lumicino? perchè ficcano la mano nel vaso di Pandora, rovistando nel fondo, se per caso ci fosse rimasto ancora un fastidio? A buon conto, io non mi prenderò quello di salire a Santa Giustina. Si sta qui tanto bene, mezzo appoggiati e mezzo seduti sulla spalla dell’argine! Passano a coppie le farfalle, pieridi e vanesse dorate, rincorrendosi tra le piante, apparendo e disparendo senza posa, contente di agitarsi e di vivere; vengono folgorando nell’aria, quasi radendo il pelo dell’acqua, le damigelle e i cavalocchi dalle diafane ali iridate, dai corpicini sottili, tutti a colori metallici, per andare a librarsi un tratto sulle rappe fiorite, donde guizzano e scintillano senza posa, come pennini di gioie tremolanti sul capo di una bella donna a teatro.
E dove lascio gli uccellini? Ce ne sono di tutte le specie, che attendono ai fatti loro senza curarsi di me; cincie, pettirossi, cardellini, scriccioli; pigolanti, strillanti, zirlanti nella macchia, ch’è un piacere a sentirli. Le stonature non mancano. Laggiù, dagli olmi del gran viale, si sente un gracchio che non mi va niente a sangue.
— È il rosignuolo; — mi dice un contadino che passa e che mi ha dato il buon giorno.
— Il rosignuolo, quello? — esclamo io. — Avrei detto un corvo, piuttosto, o una gazza, sua parente.
— Nossignore, gli è proprio il rosignuolo. Da mezzo giugno in poi, canta così. È nel nido.
— In famiglia, non è vero?
— Eh sì, come vuole Vossignoria. La casa del rosignuolo è il suo nido, e la rosignuola è sua moglie. —
Ho capito, e ne sono tutto confuso. Dunque la storia è questa?
Appaiato e contento, il rosignuolo non canta più così bene come quando faceva all’amore; anzi, non canta più affatto, dà fuori un grido rauco d’animale accidioso e brontolone. Ah, figlio d’un.... rosignuolo anche tu! Dopo le dolci pene del desiderio, la fiaccona del possesso; e addio le ventiquattro arie diverse, non tenendo conto delle variazioni, dei passaggi, delle rifiorite che nel tuo canto ha notate con diligenza tedesca il Bechstein. Ma sono uomini, dunque, i rosignuoli? uomini anch’essi? Ahi, triste cosa!