< Galatea (Barrili)
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VIII X

IX.

Il castello dei burattini.

6 agosto 18...

— Perchè non è venuto ai burattini, iersera?

— Ah, perbacco! — esclamai, battendomi la fronte.

— Se n’era dimenticato? Belle cose!

— Dimenticato io, dei burattini? Come si vede che non mi conosce! Ma non sa che li adoro? Sì, è il verbo adatto, e Lei dica pure ch’è un’iperbole mia. Delizia della mia infanzia, sorriso della mia giovinezza, memore dilettazione della mia... maturità, i burattini hanno sempre avuto un fascino strano su me. Cari fantocci di cenci, con la testa di legno, che da ragazzo mi parevano uomini, e più mi paiono uomini quanto più m’inoltro nell’esperienza del mondo; sempre quelli, sempre maneggiati da un burattinaio invisibile dietro la tenda, per dire e per fare mai sempre le medesime cose, con quelle loro smorfie intagliate, fissate, irrigidite nella sorda materia! E noti, signorina; quelle smorfie sono le loro qualità e le loro virtù, i loro difetti e i loro vizi, un po’ contraffatti, ma per eccesso di significazione, che è pur necessario, a darci da lontano l’apparenza del vero. E riescono tanto evidenti, così! Non c’è modo di scambiar gli uni per gli altri, nè da crederli diversi da noi. La nostra sciocchezza e la nostra viltà, le nostre astuzie e le nostre piccinerie, tutto ciò che siamo e tutto ciò che sentiamo, hanno la loro espressione chiara, sicura, efficace, in quelle facce di legno. Tutto il teatro, e per conseguenza tutta la vita, è là dentro, e non c’è più nulla da aggiungere. Com’è giunto l’uomo, per qual arte divinatoria, per qual lampo d’ingegno, a immaginare il burattino? Ed è così antico, oramai! Ma nessuna maraviglia di ciò; è pure antica L’Iliade. C’è stato un tempo, molto lontano da noi, che l’uomo ha veduto, inteso e potuto esprimere artisticamente sè stesso. Quello è stato il gran punto; in quel giorno tutto è stato creato, nella filosofia, nella morale e nell’arte; tutto, capisce? tutto, tranne la polvere da cannone, la stampa, la strada ferrata e il telegrafo; quattro arnesi di utilità, ne convengo, e non sarò venuto al mondo io per dirne male. Voglio dire piuttosto che son cose piccine; mentre tutte le cose alte e grandi, che per via della rappresentazione hanno raggiunta l’intelligenza della vita, avevano già da duemil’anni, forse da tremila, la loro estrinsecazione miracolosa, il loro svolgimento felice, il loro ufficio rinnovatore nel mondo. —

La signorina Wilson mi lasciava dire. Ero in vena, ed ella non voleva trattenermi. Forse ha imparato a conoscermi, ed ha presa l’abitudine di lasciarmi sfogare. Il che, dopo tutto, mi fa piacere, e vuol essere una delle ragioni che me la rendono simpatica. L’uomo che ciancia, bisogna lasciarlo cianciare; egli si persuade di piacervi, e piacete tanto più a lui quanto più state a sentirlo. Ma non bisogna distrarsi, quando egli ha sciolto Giordano. Povero a voi, se egli si ferma per domandarvi approvazione, e voi siete col capo ad altro. Io, per esempio, quando mi fanno un discorso troppo lungo, penso volentieri ai fatti miei; ma uso l’avvertenza di collocare ad ogni tanto un “già„ un “sicuro„ un “è proprio così„ che mi vengono naturalissimi, facilissimi, senza bisogno di studiarci. Guardatevi per altro dalle interruzioni che escano dai generali. A me accadde un giorno di collocare un “e lui?„ che fece rimaner male l’amico.

— Ma che lui! — mi gridò egli stizzito. — Ti parlavo di lei.

— Ah sì, è vero; — rimediai alla meglio. — È stato un lapsus linguae. —

Torniamo alla signorina Wilson, che mi aveva lasciato dire a mia posta, e poi soggiunse, con accento malinconico:

— Il burattinaio ha fatto capolino tre volte dalla sua tenda, cercando con gli occhi in giro nel suo uditorio. Pareva il patriarca Noè, quando mise il capo fuori dal finestrino dell’Arca, per vedere se il corvo fosse ancora tornato. Ma il corvo non c’era.

— Ah, me ne dispiace, creda, me ne dispiace.

— E a me più di Lei. Sono una ragazza, e non ho la borsa troppo gaia. La mamma, del resto, non mi lascerebbe fare la bella follia che ha fatta Lei l’altra sera. Ah, come l’avrei dato volentieri io, quello scudo!

— Signorina... Le ha fatto piacere? Ne sono contento, più ancora che degli occhi sbarrati della burattinaia, quando vide il mio biglietto da cinque nel suo piattellino di stagno. Ma dica, non c’erano dunque cavalieri, alla rappresentazione di iersera?

— Tutti; non mancava che Lei. Ma non vogliono andare in rovina, quei là, Due soldi appena, mi capisce? due miseri soldi. E si scusano con una buona ragione, quei signori: dicono che il burattinaio manda la moglie in giro tre volte, e che tre volte due soldi fan sei.

— E sei per ognuno dei tre satelliti della contessa, fanno diciotto soldi in una sera; che scialo!

— I satelliti! — ripetè la signorina Wilson, ridendo senza averne voglia. — È strano che Le siano venuti in mente quelli.

— Oh, non faccia caso. Volevo evitare Terenzio Spazzòli, il mio divo Terenzio, che fa bene ogni cosa.

— Buono, quello! E Lei gli è molto amico, non è vero?

— Sì, dopo la trovata del caffè, Le confesso che m’è entrato in grazia.

— Chi La sentisse, signor Morelli!

— E chi sentisse Lei, signorina, quando mi dice che gli son tanto amico! —

Questo il dialogo occorso oggi tra me e la signorina Kathleen. Io, veramente, non avevo dimenticato il burattinaio, venuto la sera del 4 a dar saggio della sua abilità in Corsenna; ma lo avevo creduto uccel di passo, che dovesse contentarsi di una sola rappresentazione e portare la sua baracca altrove; perciò, volendo scrivere, ordinar le mie note, ero rimasto a casa. Non bisogna neanche star troppo ai fianchi della gente, pensavo; e voi signor Buci, per questa sera rimarrete in camera, a far ballare eternamente la sedia.

Lo spettacolo dell’altra sera, gran novità annunziata a suon di tamburo per l’unica via del villaggio, aveva tirato in piazza tutto il popolo dei Corsennati. La colonia dei villeggianti si era commossa di desiderio. In campagna par sempre di annoiarsi, e si corre volentieri a tutti gli svaghi. Mi avevano incontrato, preso in mezzo e condotto a teatro; cioè a dire in piazza, dove si stava pigiati su certe panche d’osteria, davanti ad un castello di burattini, illuminato da due lampade fumose a petrolio. La povertà del burattinaio mi aveva fatto pena: contando così a occhio e croce i soldi che la sua donna veniva raccogliendo negli intermezzi dalla “bontà di lor signori„, pensai che quei poveri diavoli non avrebbero intascate due lire; dond’era poi da detrarre il prezzo di locazione delle panche e il costo del petrolio, non restando forse una lira alla “fabbrica dell’appetito„. Preso dalla compassione, alla seconda tornata della burattinaia avevo fatto scivolare un biglietto da cinque lire nel suo piattellino, sperando che la cosa non fosse osservata da nessuno, in quella mezza oscurità della piazza. Ma la burattinaia, avvezza a vederci di notte come i gatti, e costretta a tener d’occhio quei pochi, per timore che i monelli, scambio di darne, lavorassero a ghermirne, si era bene avveduta della mia generosità, si era fermata a guardare il biglietto, poi me, che dovetti parerle un principe travestito. Tutto ciò aveva dato tempo alla signorina Wilson, che mi sedeva daccanto, di vedere a sua volta nel piattellino. Quanto a me, non avevo creduto di far niente di strano. Tra l’altre cose, avrei giurato che Terenzio Spazzòli dèsse almeno una ventina di lire. Le signore si divertivano tanto, a quello spettacolo inaspettato! Non bisognava forse pagarle, quelle buone scappate di risa argentine! Ma niente; due soldi, tre soldi; fors’anche più “argentini„ delle risa sullodate, i due soldi, e da non poterli spendere niente di più. Anche il mio divo Terenzio Spazzòli, due soldi? "Buono quello!" e nel sarcastico epifonema della signorina Wilson l’amico inarrivabile ci ha avuto il suo conto saldato. In verità, gli egoisti che sanno spendere solamente per sè stessi, e tutto si mettono sulla persona, non sanno quel che si facciano.

Ripeto, io non sapevo che ci fosse ieri una seconda rappresentazione.

Credevo che il burattinaio fosse di passaggio in Corsenna, avviato a qualche borgo più importante e più capace d’intenderlo. Vuol far la stagione qui? E sia. Ho promesso stamane alla signorina Wilson di non mancar questa sera, ed ho mantenuta la parola.

Intorno alle otto, grande stamburata per l’unica via di Corsenna. Non tengo conto dei vicoli e delle traverse, si capisce. Il cartellone, appeso alla facciata del palazzo comunale, annunzia: Griselda di Saluzzo, ovvero sia la Moglie obbediente e il Marito stravagante, con Fasolino armigero Bolognese, La favola è patetica, nel Decamerone; sa Iddio come l’avrà conciata il burattinaio. Ho osservato ier l’altro che il suo Fasolino è un po’ sboccato; per piacere ai volghi, s’intende, ma non sapendo distinguere tra chi lo paga in applausi e chi gli da la mancia più larga. Perciò, lasciate un momento le signore, ho rincorso l’uomo del tamburo, l’ho tratto in un vicolo, e gli ho raccomandato di dir meno parolacce e di somministrar più legnate.

— Sarà contento; — dice il burattinaio, a cui brillano gli occhi, poichè mi ha riconosciuto per quel dello scudo. — Ci ho Fasolino in una parte tutta da ridere; Fasolino che scampa dai ladri e poi dalla giustizia.

— Bene, mi raccomando, legnate a tutti, tante legnate da far piangere gli occhi dal ridere. E badate, voglio veder molti morti accatastati sulla ribalta.

— Non dubiti, illustrissimo; ci passerà tutta la compagnia.

— Quanto guadagnate? — gli ho chiesto prima di congedarlo.

— Ah, signore, una miseria! Iersera, che Lei non c’era, appena una lira e venti! —

Poveraccio! Iersera i miei cavalieri hanno dunque lesinato perfino i due soldi?

— Una lira e venti! — rispondo. — C’è da morire. Io per questa sera ve ne dò dieci; sì, dieci, ed eccole qua; ma ad un patto.

— Comandi, illustrissimo, comandi.

— Che questa sera non mandiate attorno il piattellino della buona grazia. Regalo io la rappresentazione, stasera; e resto incognito, c’intendiamo?

— Non dubiti; che il Cielo la benedica. —

La Griselda ha molto divertito il buon popolo di Corsenna, ed anche in certi punti lo ha commosso. Non così la colonia dei villeggianti, a cui pare, e giustamente, che il patetico non faccia buona prova, con le teste di legno. Del resto, non potendo far dire delle cosacce al suo Fasolino, il povero burattinaio ha perso la metà dei suoi effetti di chiaroscuro. Che importa? Ha fatto un maggior effetto, non mandando in giro la moglie col piattellino di stagno. “Che novità è mai questa?„ si domanda nei posti distinti. È forse ammalata, la povera donna? Ed io che avevo i miei soldi qui pronti! ed io! ed io! Vuol rinunziare ad una bella somma, il brav’uomo!"

A un certo punto cresce l’effetto, è sbalorditoio senz’altro. Si presenta Fasolino alla ribalta, a sipario calato, fra il quarto e il quint’atto del dramma, e così prende a parlare, agitando in aria un matterello più grosso della sua testa e lungo quattro volte la sua smilza persona:

— Colto e rispettabile pubblico, inclita guarnigione, cari ed amati ragazzi, speranze di Corsenna, a v’salut.... sì dico, vi saluto. Ora si darà l’ultimo atto della Griselda di Saluzzo; che, come avete ben capito, è opera di un astore eminente, dello Schiacciaspie, niente di meno; e se non pernunzio bene il suvo riverito nome, pensate che sono un povero diavolo senza ostruzione, e l’inglese lo parlo, ma non lo intendo. Dopo questa produzione dell’immortale Scappavia si farà la farsa, e ve lo dico perchè non scappiate voi altri; farsa tutta da ridere, tanto che ve ne piangeranno gli occhi, come si è degnato di dire un grande astore di mia conoscenza auricolare. Fasolino, che sono poi me, sarà in guerra coi ladri assissini e poi colla giustizia, con trionfo finale dell’innocente, che sono poi sempre me. E questo sia per saluto di ringraziamento a questa nobilissima città di Corsenna, alla quale si leva l’incomodo questa notte, per viaggiare da gran signori, col fresco. Rappresentazione tutta a gratis.... Ma non si grattino, quei ragazzi laggiù, perchè a n’sta mia bein, sì dico, non sta bene in società, alla presenza di un inlustre personaggio, al quale faccio tanti rispetti, e viva sempre la sua bella fazza, sì dico, la suva degna persona, che ha tanto buon cuore per i poveri diavoli traditi dall’infame destino. Io non ero nato, credetelo, per viver così, mendicando la vita a frutto a frutto nelle campagne, e restando senza frutti quando è la cattiva stagione. Sono figlio di gran signori, caduti in miseria per causa della loro generosità, che loro a chi davano e a chi imprestavano, e quando imprestavano, mi capite, non riavevano più la testa d’un baiocco. I miei antenati erano padroni di Ravenna; avevano un palazzo in città ed un castello fuori, chiamato, per l’abbondanza della grazia di Dio, il castello di Polenta. Ora, come vedete, non conservo più che il mestone. Col quale a v’ salut. Macchinista, su il sipario, e risplenda la reggia di Saluzzo agli occhi dell’attonito riguardante.

Ci abbiamo speso un capitale. —

Il colto pubblico sghignazza; l’inclita guarnigione, assente com’è, non può partecipare a tanta allegrezza. Io, sentendo l’accenno all’inlustre personaggio, son rimasto un po’ male. Ma un gomito sinistro sfiora gentilmente il mio gomito destro. Divina fanciulla, se tu l’hai fatto apposta, sii benedetta; e concedimi il bis.

— Chi sarà mai questo personaggio che paga per tutti? — domanda la contessa Quarneri.

— Eh, s’indovina; — risponde la signora Berti. — Terenzio Spazzòli. —

A lui si rivolgono tutti, con cenni di complimento. Terenzio Spazzòli sorride, come Buci, senza schiudere i denti. Ah briccone! Ma sia come ti pare; io non ho bisogno delle mie penne; vèstitene pure, cornacchia.

Questa sera, finita la rappresentazione, e mentre si ride ancora delle legnate con cui Fasolino ha accoppato i ladri assissini, la vecchia manutengola, l’usciere che va a citarlo, i gendarmi che vanno ad arrestarlo, i giudici che vorrebbero condannarlo, la signorina Wilson mi ha detto:

— Come sono stata felice! E come è delicato, Lei, signor Morelli!

Scommetto che per esser tale del tutto, ha dato questa sera due scudi, non uno.

— È vero, signorina; ma sa Lei perchè?

— Non mi par difficile intenderlo: per riparare alla mancanza sua d’ieri sera.

— No, s’inganna. Posso aver mancato verso le signore, rimanendo a casa; quantunque, a dire la verità, poteva trattenermi benissimo il pensiero di essere importuno. Ma al burattinaio non ero debitore di nulla. Fu dunque, e La prego di crederlo, per un’altra ragione.

— Quale?

— Indovini.

— Non ci arrivo. Me la voglia dir Lei.

— Non posso. È una ragione che se uno non la indovina, l’altro non la può dire.

— Ebbene, proviamo; — diss’ella, dopo un istante di pausa. — Lei ha dato due scudi, per associar qualcheduno.... via, diciamo pure il nome....

per associar Buci alla sua opera buona.

— Buci, veramente.... — mormorai. — Ma sia; diciamo pur Buci; tanto egli non avrà da saperne nulla; e zitti.... e buci. —

Birichina! come ha saputo accoccarmi anche questa! Ma è una mela fragrante, dopo tutto, non una palla di guttaperca. Queste sono oramai per te, divo Terenzio Spazzòli. “Buono, quello! buono, quello!„ e portalo a casa.

Ho scritto tutto? Rileggo, e mi pare che ce ne sia d’avanzo. Non si direbbe, infatti, che sono innamorato? Eh via, questo poi no. Galatea è una graziosa ninfa, piacevole a quel dio, e sarebbe un’ottima compagna per un lungo viaggio. Ma non a te, vecchio barbone che sei. Godi da saggio epicureo il tuo sorriso di gioventù, il tuo granellino di dolce follìa; ma guai a fartene un albero! Capisco, finalmente, che certe ubbriacature passano presto. Son come lo Sciampagna, queste care figliuole: un po’ di spuma, e buona notte. Domani sarà di giorno.

Ma no, poi! perchè questi ragionamenti volgari? Ma no.... Come, no? non sarà dunque di giorno, domani? Al diavolo le incertezze. Non vorrei mica essere stregato; non vorrei mica impazzire.

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