< Galatea (Barrili)
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X XII

XI.

Marlborough s'en va-t en guerre...

13 luglio 18...

Questa mattina ero stato un po’ in forse dell’andare o del non andare in visita al Roccolo. È debito, dicevo tra me, debito di galantuomo, dopo l’impresa del mulino. Sì, mi rispondevo, ma che cosa ne penserà Galatea? Orbene, che male ci sarà? Son io infeudato alla signorina Kitty? Le ho mai detto una parola più calda di tutte le altre, e mie e di coloro che vede ogni giorno? Con lei, con sua madre, colle Berti, colla Quarneri, perfino colla signora segretaria comunale e colla signora sindachessa di Corsenna, ci ho i miei doveri di galateo. Così è; una volta imbarcati per questa vita da negri, che è la vita di società, bisogna bene curvar le spalle e adattarsi a coltivar canne da zucchero. Che cosa penserebbe dei fatti miei la contessa, se io non andassi a riverirla, a sentire da lei com’è finita, se ha avuto code o no, piccole noie per lei, la matta impresa di ieri? E che cosa direbbero i signori satelliti, se non mi vedessero comparire al Roccolo quest’oggi? Farei senza dubbio la figura del can bastonato, bastonato da lei, e pauroso di loro. Ah no, perdincibacco, non sarà mai.

L’idea di ciò che potevano dire i satelliti, mi ha messo di cattivo umore: il cattivo umore mi ha fatto mettere in armi. Siamo in guerra, combattiamo. E tanto per cominciare, esploriamo il terreno. Ieri mattina la contessa Adriana era uscita di casa alle otto, ora insolita per lei, bruciata per i suoi assedianti, che dovevano immaginarla non uscita ancora dalle sue camere. Essi, di certo, non usano andare che verso le undici alle loro batterie; infatti, a quell’ora, non avendola trovata al Roccolo, si son dati alla campagna, raccogliendo per via tutta la colonia villeggiante, come a dire tutto l’esercito di Corsenna; han preso lingua, han saputo che la contessa Adriana aveva preso il sentiero del mulino, hanno sospettato che fossi ancor io da quelle parti, e tutti sull’orma, che hanno perduta, fortunatamente per noi. Dunque, ricapitoliamo; la contessa è sola fino alle undici; se ci vado tra le nove e le dieci, sono sicuro di trovarla, di aver tempo a discorrere, a sentire da lei tutto quello che sarà utile di sapere. Rimarrò quanto ella vorrà; e se dovrò rimaner tanto che arrivino i satelliti, niente di male; potrò andarmene in loro presenza, insegnando a chi non lo sapesse ancora, che non è di buon genere star nei salotti in sentinella come all’ingresso d’una caserma, d’un parco d’artiglieria, d’una polveriera.

Alle nove del mattino, indossato il mio tutto vestito grigio d’autentica stoffa inglese (così almeno assicura il mio sarto, che è di Biella), raso accuratamente, ravviato, ripicchiato a dovere, con un bel garofano bianco all’occhiello, mi mossi alla volta del Roccolo; evitando l’abitato di Corsenna, per altro, tanto che ci arrivai alle nove e quaranta minuti. Troppo presto, forse? Eh, dopo tutto, avrei lasciato un biglietto di visita. Ma non ci fu bisogno di questo mezzo termine. Ero a mezzo il viale, quando ella si mostrò nel vano di una finestra, al primo piano della sua palazzina; mi vide, mi riconobbe, mi gettò con la sua vocina insidiosa un buon giorno di sirena, e sparì, ma per avvicinarsi. Compariva di fatto nell’atrio, quando io mettevo il piede sulla soglia del tempio.

— Ah bene! — gridò, stendendomi tutt’e due le mani. — Questo è un bel tratto, veramente degno di voi. E di me, — soggiunse, dopo un istante di pausa, — perchè io v’aspettavo. —

Risposi non so che cosa, ma balbettando assai più che parlando. Ella, intanto, preso il mio braccio, mi conduceva in un salottino accanto al vestibolo, indicandomi una poltroncina, sulla quale mi posi a sedere, amun pochino l’addobbo della stanza e più quello della padrona di casa, che indossava un grazioso abito da camera. Dovrei chiamarlo déshabillé, alla francese; ma in verità non mi pare che il nome vada a capello. Come chiamare déshabillé un abito, sia pur sciolto intorno alla vita e largo di maniche, tutto ricami, trafori e passamani, colla giunta d’una guarnizione di merletti? Del resto, abbia il nome che si vuole; sian parecchi i déshabillés delle signore, come gli abiti di mattina, da passeggio, da ricevimento, accollati, scollati, a mezzo scollo, e ne mutino due, tre, quattro volte in un giorno; saranno belle in due; tre, quattro maniere. La bellezza è cosa di cielo; ammiriamola, perchè narra anch’essa la gloria di Dio.

— Come siete stato gentile! — ripiglia la contessa Adriana, dopo aver concesso qualche minuto secondo alle mie ammirazioni.

— Che dite, contessa? Era il mio dovere. Volevo informarmi di ieri. Tutto è andato bene, non è vero?

— Sì, quantunque, sarebbe stato meglio rimanere al nostro posto. Eravamo a discorrere al fresco; ci avrebbero trovati, e ci avrebbero fatto compagnia, se fosse loro piaciuto. Ma infine, io non andrò indagando tutte le ragioni che vi hanno persuaso a volere altrimenti.

Forse ci perdevate un tanto a farvi vedere con una donna brutta; e allora....

— Signora!...

— Scherzo, sapete? So bene di non essere il diavolo. E non mi fate complimenti, vi supplico. Non ho parlato così colla intenzione di averne uno da voi. Li gradisco, ma quando non li ho provocati, e sopra tutto quando vengono spontanei, nella sincerità del momento; come accade a voi, che siete poeta. Ieri, per esempio, ne avete trovato uno bellissimo.

— Io? quando? come?

— Sì, quando avete parlato dei quattro satelliti di Giove; donde così naturalmente, senza pensarci, vi è venuto di accennare ai tre che si potrebbero concedere... ad un altro corpo celeste.

— A Venere, infatti.

— Scusate, non volevo proferirne io il nome. Vi sarei parsa vanitosa. Ma era tanto carino, il vostro complimento, a proposito dei miei satelliti. Che noiosi, quelli! e se sapeste che musi lunghi, iersera!

— Questo appunto mi premeva di sapere. Avete già fatto il famoso discorso?

— No, non ancora; non mi pareva il momento. Erano anche così poco trattabili! Se, Dio guardi, mi fanno oggi la seconda di cambio, vi assicuro che non ricorro neanche al consiglio di ammogliarli. Ma veniamo al fatto. Iersera, quando ci siamo lasciati sul ponte, mi hanno accompagnato tutti e tre, secondo l’uso, che a quell’ora tarda non mi dispiace nemmeno. Saliti al Roccolo, sono entrati, si sono seduti qui, muti, accigliati, come un terzetto di giudici. Non volevano il tè; ma lo volevo prender io, e l’ho preparato; si son rassegnati a sorbirlo, ma trovandolo amaro. Nessuna allusione alle indagini del mattino; solo uno, il Martorana, mi chiese di punto in bianco: “vi è passata l’emicrania?„ — Non ancora del tutto; risposi. Quindici minuti dopo, si congedarono. Ma se erano stati muti nel mio salotto, diventarono loquaci all’aperto, specie in fondo alla villa, dove Clarina li ha uditi. Clarina è la mia cameriera; ed è fuori spesso e volentieri, quando io non ho bisogno di lei. Credo, tra parentesi, che ci abbia l’innamorato, un giovane muratore di qui. Vorrà diventarci bianca, di bruna che è; ma passiamo, che questo non è affar mio. Clarina adunque li ha sentiti; parlavano di una gita che avevano fatta quella mattina, di due persone che andavano cercando e che non avevano trovate. — Ma sicuramente erano là, — diceva uno, il signor Dal Ciotto, che era il più arrabbiato dei tre, — il cane li ha messi in sospetto e li ha fatti fuggire; bisognava guardare dal fiume. — Se è vero... — diceva un altro, il signor Cerinelli, — se è vero, abbiam fatta una bella figura, e c’è qualcuno che riderà di noi. — Il signor qualcuno la pagherà salata; — replicò Enrico Dal Ciotto. Tutte queste cose è venuta a riferirmi Clarina; e vi confesso che sulle prime mi avevano un po’ turbata. Ma siccome i miei tre satelliti non sapevano niente, tanto che iersera immaginavano ancora una mia fuga dalla parte del fiume, e siccome ne sapranno anche meno domani o doman l’altro, e siccome, finalmente, sono tre sciocchi, mi sono subito tranquillata sul conto delle loro vendette. Spero bene che non ne tremerete neppur voi.

— Io? no davvero; mi ci diverto mezzo mondo. E non dico un mondo intiero, perchè già un mezzo mondo m’annoiano.

— Li manderò via, non dubitate, farò quel tal discorso.

— Sarà sempre bene, — conchiusi. — Ho visto degli sciocchi diventar mariti eccellenti; e la signora Berti sarà la più felice delle madri. —

Ci fu un momento di sosta nel dialogo, ed io reputai conveniente di dare un’altra occhiata dintorno.

— Come siete bene qui! Opera vostra?...

— Povero addobbo! — diss’ella. — Mi mancavano tante cose, quando ci sono arrivata! Ho fatto quel che ho potuto, adattando al mio gusto una casa d’altri. Sapete bene com’è venuta a noi, per pagamento d’un credito che aveva mio marito, e che non si sarebbe potuto ricuperare altrimenti. A lui da princìpio pareva una gran cosa, avendo appunto bisogno d’aria di montagna; a me invece non piaceva affatto. Ora a lui non va più, perchè gli hanno ordinate le acque di San Pellegrino, e piace a me poichè ho dovuto adattarmici per una stagione. Se potrò aggiustarla del tutto a modo mio, mi ci troverò meglio un altr’anno. E voi, Morelli, venite tutti gli anni in Corsenna?

— È il prim’anno, questo. Anzi, non sapevo che fosse un luogo tanto frequentato. Ero venuto per istudiarci, figuratevi!

— Oh, ci studierete, dando agli amici appena appena quel po’ di tempo che potrete. Scegliendo bene, si possono risparmiare molte ore. E voi, con tanto ingegno che avete, non potete sottrarvi al lavoro. Sarebbe un delitto. Che cosa avete pubblicato, fin qui?

— Niente, signora, o quasi niente. Già, per far numero tra i mediocri, è inutile stampare.

— Che cosa dite voi mai? Parlano tutti di voi con tanta ammirazione!

— Già, perchè non fo nulla. Se facessi, mi giudicherebbero diversamente. Così va il mondo, signora. Ma noi c’inganniamo volentieri l’un l’altro, esso prodigandomi una stima che è tutta fondata sulla certezza della mia pigrizia invincibile, io godendone senza risparmio, e pensando che quella stima io la perderei senza fallo, se mai mi decidessi ad uscir dalla nuvola.

— Che pessimismo! Ma voi dite per celia, non è vero? e non avete una così brutta opinione di tante persone gentili che aspettano luce e conforto da voi.

— Un po’ tardi, se mai! Non sapete che ho già trentacinque anni?

— Trentacinque! — esclamò la contessa. — In verità, vi credevo a mala pena sui trenta. Ma che cosa son poi trentacinque anni? — soggiunse. — La virilità della gioventù, per un uomo. Io ne ho ventisei, e come donna posso dirmi vicina alla maturità. Che differenza tra noi! Ma gli anni, con le rughe che portano a noi donne, non mi toglieranno di seguirvi nei vostri trionfi. Mi leggerete quello che fate, non è vero? —

Non so che cosa fossi per risponderle. In quel momento si udiva un fruscio sulla ghiaia del giardino, e Clarina appariva sull’uscio del salotto per annunziare una visita, anzi due in un punto.

— Già? — mormorò la contessa Adriana, volgendo un’occhiata all’orologio del caminetto, che segnava allora le dieci e tre quarti. — Beviamo quest’amarissimo calice; — soggiunse, volgendosi a me con un mesto sorriso.

Entrarono due satelliti, Maurizio Cerinelli e Giovanni Martorana; entrarono, e vedendo l’intruso, fecero il muso lungo un palmo.

— Soli? — esclamò la contessa. — E il signor Dal Ciotto?

— È andato per la carrozza. Sarà qui fra due minuti.

— La carrozza! Per che farne?

— Non rammentate, signora? — disse il Martorana.

— Avevate manifestato il desiderio di visitare il convento di Dusiana; — soggiunse il Cerinelli.

— È vero, è vero; — rispose la contessa, con aria di cader dalle nuvole. — Ma si era detto per oggi? Questo m’era passato di mente. A quest’ora, poi!

— Il cielo è coperto; — disse il Martorana.

— E potrà piovere, allora; — ripigliò la contessa. — Anch’io, con quest’emicrania che non mi vuole dar tregua!... —

Qui la luminosa contessa fece un gesto di persona seccata, e non aggiunse parola. Capitò il Dal Ciotto, anche lui con tanto di muso, a mala pena mi vide. Ma era più padrone di sè, forse essendo stato avvertito della mia presenza colà. Più padrone di sè, ripeto; ma mi fece anche un saluto che non mi piacque. Se non fossimo stati in casa d’altri e in presenza di signore, a quel saluto breve e sarcastico avrei risposto con un ceffone, tanto per cominciare. Già, posso ammettere ed anche gradire che uno non mi saluti; ma che mi saluti male, mi annoia. Ho già pensato, del resto, a ciò che mi conviene di fare. Le lettere qui s’impostano alle sei di sera. Scriverò prima delle sei a Filippo.

La signora non vorrebbe andare, a Dusiana. Le occorrerebbe un’ora almeno per vestirsi. Inoltre, è un brutto giorno; un tredici. Lo dice ridendo, ma lo dice.

Io rido con lei, e la conforto ad andare. Il tredici secondo me non è altro che un numero il quale ha il torto di venire dopo il dodici e prima del quattordici. Del resto, non a tutti dispiace, non a tutti porta sfortuna. Io posso assicurare per mia esperienza che è un numero eccellente, un numero aureo. Tutte le cose che ho fatte in un giorno tredici mi sono andate benissimo.

— Ah sì? — esclama Enrico Dal Ciotto, strascicando anche la frase, come se la tirasse con l’argano.

— Certamente; — gli rispondo io, senza scompormi, e sul medesimo tono.

La contessa Adriana nota le pause e le inflessioni di voce; aggrotta le ciglia, per mostrare a qualcheduno che ha capito e che non è contenta per nulla. Poi, con sembiante mutato rivolgendosi a me, vuol farmi sentire che la padrona di casa non rileva le piccole impertinenze, e che io posso far come lei.

— Voi inventate a buon fine, signor Rinaldo; — mi dice; — e il numero tredici vi dovrebbe esser grato di questo servizio che gli rendete. Ma io sono ancora molto dubbiosa. Aggiungete che debbo scrivere parecchie lettere; a mio marito, per esempio, che oggi avrà aspettato inutilmente i miei uncinetti. Se sto due giorni senza scrivergli, è capace d’inquietarsi, e di piantare San Pellegrino, per venire in Corsenna. Ne avrei piacere, per un lato; per l’altro mi rincrescerebbe, temendo che la sua cura ne soffrisse.

— Se non fosse per questo, — risposi, — sarei lietissimo di avere la parte mia nel fargli mancare una lettera; tanto ho desiderio di essergli presentato. È, a detta di tutti, un gran gentiluomo.

— Ma sì, fa questo effetto su quanti lo avvicinano; — replicò la contessa. — Sono una moglie fortunata, e sfortunata ad un tempo. Sapete che le belle signore se lo contendono? L’anno scorso a Roncegno faceva lui tutte le carte; ed io, che non avevo patito mai del brutto male, mi capite, mi son ritrovata ad esser gelosa. Ed egli rideva, delle mie collere; rideva saporitamente, come fate voi, signori uomini, che poi, se Dio vuole, sarete peggio di noi. —

Fatte poche altre ciance su questo tono più allegro, mi alzo, la riverisco e me ne vado, senza saper bene se andrà o non andrà a vedere il convento di Dasiana. Quanto ai tre satelliti, li saluto appena quanto basta per la decenza. E me ne torno a casa, dove butto giù le mie note. Ora poi, scriviamo a Filippo.

La lettera è fatta. Mi par utile di ricopiarla qui:


My Dear,

A friend in need is a friend indeed, says the proverb. Now it happens that I have, at this moment, very great need of a friend, and I am resolved to make the trial.... sopra di te, mio dolce e fiero Filippo. Tu non hai niente che ti trattenga in città, salvo l’abitudine, o la pigrizia, mentre io ho bisogno qui d’un amico, an uncommon want, come lord Byron aveva bisogno di un eroe. Lascia dunque i tuoi affari inutili, e vieni a confortare l’amico tuo; il quale non ti ha scritto da tanti giorni per la semplicissima ragione che ha speso il suo tempo a commettere un certo numero di sciocchezze, e ti vorrebbe qui per dargli una mano. In altri termini, temo (senza sgomenti, però) di avere ai fianchi una piccola tribù di scioperati. Dipenderà forse da me, di causarne gli attacchi; ma se proprio dipendesse da me, non vorrei causarli davvero, e mi metterei volentieri in guerra, come Marlborough. Qui non ho persona amica, seria ed armigera quanto bisogna, a cui commetter tutto me stesso. Hai capito? Vieni dunque tu, vola, e porta per ogni buon fine una coppia di tutte le armi cavallerescamente possibili. Per dar colore alla spedizione potresti portare un arsenale di sciabole, fioretti e pistole, da esercitarci tra noi. Saresti nella tua beva, non ti pare?

“Non ti ho mai chiesto nulla; non mi ricusare la prima. Credi pure che questa volta ho somma necessità d’essere raffidato dalla tua presenza. Ti aspetto, e preceduto da un telegramma, per venirti a prendere alla stazione, ch’è un po’ lontanetta da qui. Grazie, anticipate, e un amplesso spirituale per giunta.

Il tuo
Rinaldo„.



Ho impostata la lettera in tempo, e più tranquillo me ne sono andato a desinare. Questa sera, passeggiando in paese, ho incontrata mezza la colonia, che ritornava dal suo eterno lawn-tennis. Si è fatto sosta all’unico ma infame caffè di Corsenna, in grazia del suo “Qui si gela„ che promette alle signore la dolce voluttà del sorbetto. Poi diranno che Corsenna è un villaggio. Conosco delle città, dove si gela, sì, ma solamente e naturalmente d’inverno.

Ho potuto sapere che la contessa Quarneri non è andata a Dusiana. I tre satelliti devono esser furenti; imbronciati li vedo, ma quieti, in atto di rodere il freno. Che abbiano avuto una correzione salutare? Mi dispiacerebbe per me, che li vedrei volentieri andare in collera, specie se mi danno due giorni di tempo, tanto che arrivi il Ferri, con tutti gli omonimi suoi. Quanto a loro, se han presa la ramanzina, non hanno male che non si sian meritato, avendo smascherate le loro batterie in presenza della contessa. Mi paiono tre ragazzi, con quel loro cospirare all’aperto, in un sentiero di villa, dove tutti gli alberi hanno orecchi per udire, e bocche per riferire.

Viva la faccia delle Berti. Quelle non sentono, non vedono quasi, e non han niente da riferire a nessuno. Passano nel mondo sorridendo e sperando; beate loro, e madre bofficiona e figliuole snelle, che cresceranno in bellezza e in rotondità come lei.

La signorina Kathleen mi pare un po’ sostenuta. Cara fanciulla! ma che cosa ne posso io? Se sapesse che non ci ho colpa, e che mi trovo impegnato in questo negozio per l’onor della firma! Del resto, veda un po’ lei; non è mica Rinaldo Morelli, l’uomo che accompagna al Roccolo la contessa Adriana, quando ella si risolve di lasciare il caffè di Corsenna. E infine, lei stessa, la signorina Kathleen carissima, non è forse tutta fiori e baccelli colla luminosa contessa? Si direbbe anzi che da iersera le è diventata più amica che mai. Animo, dunque, la preghi un pochino, e si faccia dir tutto.

Ma forse m’inganno, e do troppa importanza al mio signor me stesso. Quell’aria della signorina non è di sostenutezza con me; è di stanchezza, per la fatica del lawn-tennis. Infatti, ecco che si rianima, dopo partita la contessa coi suoi tre satelliti. Terenzio Spazzòli ha incominciato un discorso di rowing-club e di swimming-club, e lei è tutta intenta alle belle imprese del mare, da quella gran vogatrice, da quella gran nuotatrice che è. Galatea, ninfa marina! A Viareggio, dov’ella ha passata l’estate scorsa, ne sanno qualche cosa: nessuna di quelle Nereidi era più intrepida e più valente di lei.

Confessiamolo, è una bella cosa, e buona sopra tutto, viver la vita così pienamente come ella fa. A questo modo vengon su le belle schiatte, sane, forti, robuste, pari a quelle che hanno lasciato tanto buon nome nel mondo. E tuttavia, se Kathleen fosse mia moglie, non vorrei tante cose da lei; nè racchetta, nè tuffi in acqua, nè remo, nè vela; casa, casa, casa; e tè, magari, quantunque non mi piaccia; e latte e burro a tutto spiano.

Similmente non vorrei che la luminosa contessa, dato e non concesso che portasse il mio nome, avesse tre satelliti per accompagnarla tutte le sere a casa. Piuttosto una mezza legione di carabinieri. Per compenso le permetterei, crepi l’avarizia, di confessare ai suoi visitatori quattro anni di più. Sono ancor primavere, che diamine!

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