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XIII.
Una giornata campale.
18 agosto 18...
Ier l’altro a sera ho presentato il mio Ferri. Si era già sparsa la voce dell’arrivo di un nuovo villeggiante, smontato con un grosso bagaglio al cancello del Giardinetto. Si chiama così il villino che occupo io. I Corsennati non brillano per inventiva; hanno veduto nascere, tanti anni fa, intorno a questa casa campestre un po’ di fiori e d’arbusti, e subito gli hanno trovato il nome; senza stillarsi il cervello, come si vede.
Con uguale facilità pedestre di raziocinio, vedendo smontare il forestiero al Giardinetto, e sapendo che al Giardinetto comando io, nè soffrirei casigliani, hanno concluso che il forestiero fosse mio ospite. L’importanza del bagaglio li ha pure condotti a pensare che l’ospite si fermerà qui per tutta la stagione; e questa notizia, corsa per tutti i villini, ha destata la curiosità universale. Come mai? un nuovo villeggiante in Corsenna, ed ospite del signor Morelli, di quel signor Morelli che abbiamo veduto ancora iersera, e che non ha creduto necessario, nè utile nè opportuno di dircene nulla? Immaginarsi adunque la curiosità della colonia! Ciò che è nulla e meno di nulla in Roma o a Firenze (stavo per dire ad Atene) è un gran fatto in Corsenna. Terenzia e Tulliola, moglie e figliuola di Cicerone, dovevano esser curiose, nelle loro estati di Pozzuoli e nei loro autunni di Tuscolo, assai più che non fossero nei loro inverni e nelle loro primavere del clivo Capitolino.
Perciò seduta plenaria, l’altra sera, al Bottegone di Corsenna; tanto che si dovettero metter fuori due tavolini di più. E quando sono comparso in piazza, un po’ più tardi del solito per fare più effetto, tutti gli occhi si volsero a guardare il personaggio che mi veniva da lato. Tacquero le voci e i bisbigli; si voleva vedere, si voleva giudicare. Nessuna bella donna arrivò tardi nel suo palchetto a teatro, che fosse più guardata e più studiata di Filippo Ferri sulla piazza maggiore, ed anche unica, della nobil Corsenna.
L’ho presentato a tutte le signore, incominciando dalla sindachessa, per non destar gelosie. Si è preso l’arlecchino, di fravola e di limone, che è il caval di battaglia, ed anche il ronzino, del nostro caffettiere; il quale a tutti i complimenti che gli si fanno sull’arte sua (e qualche volta un po’ ironici) guarda i suoi due bigonciuoli pieni di ghiaccio, e coperti di frasche di castagno, dicendo modestamente: “si fa quel che si può, per contentare i signori„. Preso il sorbetto, si chiacchiera; le signore vanno a gara per intrattenersi col mio amico, e in breve la conversazione diventa generale. Filippo Ferri è sempre cortese, non sa, non può esser diverso; ma quando vuole riesce amenissimo; e questa volta fa proprio uno sforzo immane di volontà. Fa lui tutte le carte; parla di cento cose, suscitando il desiderio di domandargliene mille. Ha viaggiato; conosce due terzi d’Europa, l’Asia Minore e l’Egitto; è stato a Massaua, all’Asmara, a Keren; insegna di passaggio, senza averne l’aria, a dir Dogàli e non Dògali; racconta aneddoti arabi, copti, abissini; mette in ballo le povere donne di tutti i paesi che ha visitati; alterna storie allegre e patetiche, fa ridere e fremere, come gli piace, sopra tutto dilettando le signore, che son tutte felici di averlo conosciuto. Nell’entusiasmo che il nuovo villeggiante ha destato, sorge, cresce, giganteggia e trionfa un’idea; quella di star tutti insieme il giorno seguente, facendo una scampagnata a Dusiana. Ah, finalmente, a Dusiana! quella gita che i tre satelliti non erano riusciti a fare con la contessa Quarneri, e che lei, proprio lei, propone ora di fare, per atto di onoranza festosa al nuovo venuto.
Siamo ritornati al Giardinetto assai tardi. Ma la conversazione era stata così viva, che l’ora uscì di mente a tutti. Neanche si pensò che il nuovo venuto doveva essere stanco del viaggio. Ma che stanco, dopo tutto? Aveva ad essere stanco di cinquantasei miglia di strada ferrata, un uomo che in tre ore di chiacchiere era corso da Londra a Vienna, da Vienna a Costantinopoli, da Costantinopoli a Smirne, al Cairo, a Massaua, al Pian delle Scimmie, passando ancora per venti o trenta punti intermedii?
— Ebbene, — gli dissi, come ci fummo ridotti a casa, — che te ne pare della nostra colonia?
— Niente, finora; ho appena veduto, cercando di orizzontarmi. La tua contessa è bellissima. La Berti madre mi pare una donna di buon senso, che porti con dignità il doppio carico della sua mole matronale e delle sue tre figliuole, che sono molto graziose. La sindachessa è un’oca; la segretaria comunale una cingallegra. Non ho infatti potuto giudicarlo che ai gesti, perchè non hanno parlato quasi mai. La signora Wilson madre è una fiorentina, m’hai detto? Se è tale, diciamo pure che è una fiorentina di genere nuovo, perchè parla sempre coi denti stretti, e poco, per conseguenza, poichè deve durarci fatica.
— Ha sposato un Inglese, rammentalo; ed ha dovuto parlare quasi sempre inglese, in famiglia.
— Del resto, quel poco che dice è sempre assennato; — riprese Filippo. — Mi pare un’ottima donna, e molto e giustamente superba della sua graziosa figliuola. Veniamo agli uomini. Il tuo commendator Matteini è un rudero.
— Ma ben conservato.
— Intonacato, vuoi dire? Aspettiamolo di giorno chiaro, per vederci le crepe.
— E i miei tre satelliti?
— Quelli non li ho studiati ancora. Mi ha tanto distratto quel Terenzio Spazzòli!
— Sì, ho ben veduto che non lo hai molto gradito.
— Di’ pure che m’è venuto a traverso, come una lisca di pesce in gola. Il diavolo se lo porti! ci voleva proprio lui, qui, per dire di avermi incontrato a Montecarlo e veduto in una gara di pistola.
— Che hai vinta; e ciò ti ha messo in buona vista colle signore.
— Ma in troppa vista coi tuoi tre satelliti; non ci pensi, a questo?
Ora prevedo che bisognerà cambiare di punto in bianco il nostro giuoco.
— In che modo?
— Lasciami pensare. E prima di tutto lasciami andare a dormire. Sai che domattina dobbiamo alzarci alle cinque. —
Che diamine ha inteso di dire Filippo, colla necessità di cambiare il giuoco? Ci ho pensato a lungo, nella notte, prima di prender sonno; ed anche ieri mattina, appena svegliato. Forse voleva farsi sotto con astuzia, quatto quatto, senza parere, alla maniera delle tigri. Ma questo, come poteva sperarlo? Un uomo come lui, anche a non conoscerlo di prima, si annunzia subito per quello che è, con quel suo piglio marziale e con quelle sue spalle da Ercole. E in che consisterà il suo cambiamento di giuoco? Di punto in bianco; dunque smascherando le batterie, facendo pompa di se! Non è vanaglorioso, e non saprà millantare. Son curioso di sapere a che partito s’appiglia.
La mattina alle cinque, prima che ci portino il caffè, l’amico Filippo è già in piedi. Quando entro nella sua camera per dargli il buon dì, vedo che si è già fatta la barba. Alle sei siamo in piazza, dove sono arrivate le due giardiniere che dovevano portarci a Dusiana. A due, a tre, a quattro per volta, arrivano tutti i nostri compagni di scarrozzata. La contessa Quarneri viene ultima, essendo la più lontana di alloggiamento; ma non s’è fatta aspettare più di cinque minuti, rendiamole questa giustizia, ed ha con sè le tre guardie del corpo, che sembrano aver passata la notte davanti al cancello del Roccolo, per non perderla d’occhio. Colle signore Wilson è venuto anche Buci, che ardisce venirmi a scodinzolare davanti e a ridermi, se Dio vuole, sul muso. Vile schiavo! Dopo che io t’ho sottratto alle bastonate del tuo primo padrone, comprandoti per venti lire da lui, così mi tratti, così mi ricompensi della mia dabbenaggine? Lo guardo a squarciasacco, e faccio ridere la signorina Kathleen, che però si ricompone subito, e mi fa grinta dura, quando io alzo gli occhi verso di lei.
È bella a quel dio, la birichina, con quel suo vestito alla marinara, bianco, a risvolte turchine, semplice ed elegante. Elegantissima è la contessa, che sfoggia per questa occasione un abito azzurro sormontato d’una cotta bianca a trafori, e porta con bell’audacia sul capo tutto un verziere, anzi tutto un frutteto. La bellissima signora, ammirata dagli uomini, acclamata dalle amiche, sequestra per sè la signorina Kathleen e il mio amico Filippo, prendendo posto con essi nella prima giardiniera. I tre satelliti, naturalmente, son pronti a ficcarsi nello scompartimento davanti, donde voltandosi, e mettendo i gomiti sulla spalliera, potranno tenerla d’occhio quant’è lunga la strada.
Abbandonato da Filippo, dalla signorina Wilson, e perfino da quello scellerato di Buci, che è saltato in carrozza per accovacciarsi sotto il sedile di lei, vado a smaltire la mia stizza nella seconda giardiniera, dov’è la Berti madre colle figliuole. I ragazzi, sapientissimi, non volendo mangiar polvere, sono andati nella prima, occupando la panca dietro il vetturino, per godersi la strada. Con noi è la signora Wilson madre; con noi la segretaria comunale, che ha lasciato, honoris causa, il posto nell’altra vettura alla sua superiora diretta; con noi il commendator Matteini e Terenzio Spazzòli. Felicissimo uomo! e pare, a vederlo, che quel posto nel secondo carrozzone l’abbia scelto lui. Il divo Terenzio non si scompone mai, non si turba, non si sconcerta di nulla. Se casca, diciamo pure con lui che voleva scendere.
I due tranvai si muovono, e traversano fragorosamente mezzo il paese, oggetto d’invidia ai Corsennati, tutta gente mattiniera che deve accudire alle sue faccende quotidiane. “Come son felici, i signori!„ diranno essi in cuor loro, vedendoci passare. E voi niente, o Corsennati? A buon conto, voi non avete da discorrere di economia politica e di scienza di governo col commendator Matteini. Il degno conservatore a riposo l’ha oggi con me; Dio sa quando mi lascia. Certo, ha provato i giorni scorsi con Terenzio Spazzòli, e lo ha trovato indegno di accogliere i tesori della sua molta esperienza.
Il tragitto non si racconta. Per aver qualche cosa che mettesse conto d’esser qui registrata nel mio memoriale, bisognerebbe essere stati là, nell’altro carrozzone, a sentire le belle cose che avrà raccontate il mio dolce amico Filippo, il beniamino, il cucco delle signore. Triste cosa, in una società, essere antichi! I nuovi venuti han tutte le preferenze, tutte le graziette, tutte le moine delle signore. È giusto, infine; e poi, se fan festa al mio Ferri, non debbo esserne felice io, che l’ho presentato?
A Dusiana, dove siamo arrivati alle otto e mezzo, abbiamo veduto un paese come tutti gli altri, e degli abitanti su per giù come quei di Corsenna. Il paese nondimeno è più vasto; tre Corsenne, a dir poco; una gran piazza con dei portici su tre dei suoi lati, il che deve essere stato immaginato per far dire alla gente: e perchè non ne hanno voluto mettere nel quarto? Forse a compenso di questa mancanza di simmetria, ci sono sulla gran piazza di Dusiana due gelsi smisurati, giganti bistorti, pieni di nocchi, di gobbe, di cicatrici, coetanei, credo, dell’introduzione dell’arte della seta in Europa. Mentre si fanno queste ed altre considerazioni archeologiche, la contessa Adriana si è avvicinata a me, per dirmi con quella tal vocina insidiosa:
— Vi abbiamo un po’ trascurato, Morelli? Ma non è colpa mia.
— Che dite, signora? Ma era giusto che il nuovo venuto fosse il più festeggiato. Quanto a me, sono riconoscentissimo di tutte le cortesie che si fanno al mio amico Filippo.
— Le merita, sapete, ed anche merita la vostra amicizia così generosa.
Egli ha detto lungo il viaggio un gran bene di voi.
— Ah sì? Filippo Ferri ha il difetto di volermi bene.
— Come! è un difetto? Con questo modo di ragionare leverete il coraggio a tutti coloro che fossero per imitarlo. —
Sorrido al complimento, e tanto più volentieri, poichè vedo la cera brusca di Enrico Dal Ciotto, che si era avvicinato allora allora, precedendo di due passi i colleghi satelliti. Quanto a te, caro, ti tengo. “Ah sì?„ E strascica pure i tuoi, monosillabi. Alla seconda di cambio, ti voglio; e vedrai che bel giuoco.
Si dovrebbe per intanto vedere questa famosa abbazia di Dusiana, della quale in Corsenna si son raccontate tante maraviglie, di marmi, di capitelli, di colonnini, di lapidi, d’iscrizioni antiche, e via discorrendo. Ma prevale l’idea di far colazione; poichè i frati agostiniani dell’abbazia son tutti morti da un pezzo, e saremmo trattati là dentro come all’osteria della Luna, che chi n’ha ne mangia e chi non n’ha digiuna.
Diamo un’occhiata in giro, e vediamo un’insegna. Il titolo “Albergo della Posta„ prometterebbe la prima locanda del paese; ma le piccole finestre e la povera apparenza dello stabile, non ci lasciano sperar bene. Scovo più in là un “Albergo Roma„, e chiamo da quella parte le signore. La casa è più bassa e più nuova di fabbrica; dovrebb’essere più pulito l’interno. Mi arrisico dentro, e vedo due sale abbastanza capaci: mobili pochi e lucenti. È il fatto nostro. Il padrone e la padrona, giovani ancora, hanno aria di gente per bene; non avvezze per altro a ricevere tanta gente in un tratto.
— Il nome della eterna città vuole che diamo la preferenza al suo albergo, padrona; ma non vorrà mica essere eterno il cuoco? Siamo quindici; c’è chi porta appetito e chi fame. C’è modo d’intenderci? —
Questo breve discorso strappa ai due coniugi un risolino di buon augurio.
— Se si contentano... — attacca il padrone.
— Pensando che non siamo in una città... — sottentra a cànone la padrona.
In breve siamo d’accordo; e ci apparecchiano la gran tavola della seconda stanza, le cui finestre non guardano sulla strada, nè bevono il suo polverìo, ma ci aprono la veduta ampia dei monti, d’una valle pittoresca e di un fiume; il quale, a differenza del suo collega di Corsenna, è presente, disteso nel suo letto, ed occupandone una parte notevole. In capo a dieci minuti, che noi abbiamo spesi a guardarci dattorno, tutte le sedie dell’albergo di Roma son collocate intorno alla tavola, o, per dire più esattamente, alle due tavole accostate. Vengono i bicchieri, le bocce dell’acqua, le saliere, le pepaiuole, e molte bottiglie di vino, che alle signore paiono troppe davvero. E vengono i principii, tanto cari a Filippo Ferri, che ammira la bellezza dei sedani strappati freschi freschi nell’orto, le olive, i peperoni, i cetriolini e i capperi sotto l’aceto, ma più un pan di burro che arriva, per far buona compagnia a quattro scatole di lamiera, saviamente munite della loro chiavetta, che girando trarrà via la lista metallica stagnata torno torno, permettendo di scoperchiare quattro ipogèi di sardelle sott’olio. Si attacca allegramente tutto ciò che è in tavola; ogni aggiunta è salutata da un nuovo grido di gioia. Le signore si divertono qui, come facevano nella faggeta del San Donato, e più ancora, perchè si trovano meglio sedute, e meno sparpagliate. Non c’è la possibilità di un lawn-tennis; ma ci vorrà pazienza; non bisognerà chieder troppo alla bontà divina.
I principii tirano in lungo, e non lasciano pensare all’indugio della minestra, che finalmente arriva ed è trovata eccellente. Segue un gran piatto, una catasta, un monte di costolette. Cutlets, signor Buci; queste dovrebbero piacere a voi, più che la pelle degli otto o nove cani di Dusiana, dai quali vi siete fatto conoscere e rispettare. Non so se vi saranno piaciuti egualmente certi funghi rossi sulla gratella, che alle signore parvero una squisitissima cosa; certo ne avete avuto un assaggio, perchè di tutte le pietanze che vennero in tavola una bella mano vi passava sempre mezza la parte sua. Un servito di caciuole delicatissime, con aggiunta di frutte, chiuse il nostro pasto mattutino. Se non fosse stata una colazione, si sarebbe potuta chiamare senz’altro una cena luculliana.
M’incaricai io del conto. Quella brava coppia di sposi furono più che discreti; non ci fecero pagare che due lire a testa. Abbondai per compenso nella mancia. Ma pare che non sia costume di darne, a Dusiana, o che fosse troppo forte la mia; perchè cinque minuti dopo venne il padrone a pregarmi di accettare per la staffa quattro bottiglie di vin buono. Buono, soggiungeva egli, perchè dolce e gentile, che di quello ne potevano ber le signore. E le signore, che avevano bevuto acqua pazza, fecero onore alla cortesia dell’albergatore garbato.
Sarebbe tempo, oramai, di andare a visitar l’abbazia. Per questo eravamo venuti a Dusiana, e non per dimenticarci a tavola. Si prende lingua, e si va: ma guai a lei, se non è stupenda; non siamo disposti a tollerar cose mediocri. Da lontano, l’edifizio si presenta bene, con una fronte severa; un po’ brulla, per verità, poco ravvivata da certe feritoie che non riescono a parer finestre: ma infine quello è lo stile longobardico, bisogna striderci; vedremo poi dentro. Ah sì, dentro, si è più fuori che mai; il tetto è crollato, gli archi in pezzi, i fianchi sfondati, tutto un mucchio di pietre e di calcinacci. O le colonnine a fascio? i capitelli lavorati? gli archetti, i peducci, le mensole, i costoloni, i rosoni, di cui si fa sempre un gran parlare per tutto il circondario?... Ah, quelli, a detta di certi contadini che hanno la loro abitazione lì accanto, quelli sono stati levati da un pezzo, chi sa? da cinquant’anni, o da cento, e trasportati e messi in opera nella chiesa parrocchiale di Dusiana. Non tutti, per altro; una buona parte, ch’erano avanzati sul posto, li ha avuti per niente, o quasi niente, un famoso avvocato, che n’ha decorata la sua “Discordia civium, concordia lapidum„, voglio dire la sua residenza autunnale. E non c’era altro? lapidi? iscrizioni antiche? un pozzo col suo bel puteale baccellato di marmo bianco, che si attribuisce all’epoca romana, e di cui si dicono maraviglie? Quello? chi sa? forse colle lapidi, e con tanti altri rottami, dall’avvocato. Essi, per altro, i contadini, non potrebbero giurarlo; non sanno niente di certo; son qui da due anni, ed han trovato tutto così. Dunque, buona notte alle lapidi, e buona notte al puteale. Ma il chiostro, almeno? Oh quello c’è; vedano, signori, i pilastri e gli archi del porticato, trasparire dall’intonaco renoso, per tutta la fronte della casa colonica. E sia; ma è un lato solo. E gli altri tre porticati?
— Ah! — grida Filippo. — Son forse quelli che abbiamo veduti sulla piazza di Dusiana. Li avran trasportati là, per ripararsi dalla pioggia, nell’autunno, e dalla neve nell’inverno. Ci vuol pazienza, del resto; le rovine son tutte così; per goderle bene bisogna osservarle di notte, e senza luna.
— Se vogliono vedere i sotterranei... — dice il capo della famiglia.
Le signore rabbrividiscono di piacevol terrore. Son pazze di sotterranei; tanto la fantasia lavora. Si entra in una stanzetta buia; si scende per una scaletta anche più buia; alla prima voltata c’è un fil di luce, che viene da un finestrino di fianco, e lascia vedere là in fondo, tra due corte e tozze colorine d’arenaria, un gran torchio, colla sua madrevite inoperosa sulla gabbia vuota, e tutto intorno il bottame della fattoria, che manda un forte odor di vinacce dell’altr’anno. Giusto cielo! si scappa, senza aver posto il piede sull’ultimo gradino, e si porta il nostro disinganno all’aperto.
E nessuna leggenda? nessun racconto di paure, da rimettere in corpo qualcheduno di quei dolci brividi che la vista di una tinaia aveva fatti cessare? Sì, qualche cosa, stuzzicando, aiutando, grattando il corpo alla cicala, si ottiene. Il vecchio ha inteso a dire d’un tempo che c’erano gli spiriti. Ma poi l’ala del fabbricato donde si sentivano i lamenti era stata atterrata, e gli spiriti, trovandosi all’aperto, col terreno dissodato e posto a vigna, erano scomparsi. Aveva anche sentito dire d’un viaggiatore, che era capitato di sera al convento, e gli avevano dato alloggio per la notte, non essendo a’ quei tempi sicure le strade; cosa naturalissima in paese di confine. Il viaggiatore, non potendo chiuder occhio, era uscito dalla foresteria, passeggiando poi corridoi a lume di luna; trovato aperto un uscio che metteva su d’un terrazzo, era andato da quella parte a prendere il fresco; ma di là aveva potuto assistere ad una scena che lo fece sudar freddo e scappare, più contento di cascare in mano ai ladri, che di rimanere al sicuro tra i frati. Figurarsi! nel fondo dell’orto, con gran solennità di processione e di preghiere latine, avevano seppellito vivo un povero fraticello, legato di funi e piangente come una vite tagliata. E perchè lo seppellivano vivo? Perchè aveva fatto la spia, rivelando al governo del duca che i monaci dell’abbazia frodavano la gabella; donde poi ne era venuto un processo, e i frati erano stati cacciati di là. Povera poesia del frate sepolto vivo! La storiella, incominciata così bene, da accapponar la pelle a tutte le nostre signore, finiva male, troppo male, in una question di gabella.
— Ma non è così; — gridai io. — La gabella ducale non c’entra per niente, oppure è molto più tarda. Il fraticello aveva fatto ben altro, da meritare quell’orribile sentenza. Se le signore permettono, la racconterò io, questa patetica istoria, che ricordo benissimo.
— Da bravo, raccontatela; — gridò la contessa Adriana, giubilando e battendo le palme.
— Padre Anacleto era giovane, — cominciai, — troppo giovane, aveva troppo ingegno, troppe fantasie per la testa, e troppo buon sangue nelle vene. Entrato nella vita monastica con pura e fervida fede, non ne aveva trovata altrettanta ne’ suoi compagni di clausura. Si biascicavano intorno a lui molte preghiere, a tutte le ore del giorno, ma senza pensarci, senza fermarsi ad intenderne il significato profondo, sonnecchiandoci su a mattutino, a vespro, a compieta, e non vegliando bene che in refettorio. Padre Anacleto si era rifugiato nello studio, nascondendo il suo intimo pensiero, dissimulando la sua nausea. Dotto di patristica, forte di sacra eloquenza, aveva anche veduto che tutta la dottrina era già concentrata nei quattro Evangelii, negli atti e nelle Epistole di san Paolo; nè più altro aveva voluto sapere, nè più d’altro fuoco scaldava le sue prediche. La religione di Cristo era per lui la religione del Verbo, e il Verbo era l’Amore. Ciò era nuovo, e a tutta prima pareva anche bello; la gente accorreva a sentire; mai si era veduta così piena di popolo la chiesa dell’abbazia; e ciò pareva anche buono. Ma presto incominciò a non parer tanto vero. Fratello, gli dicevano i più semplici e i più amorevoli del convento, fratello, temperate il vostro zelo; tanto ardore vi condurrà in perdizione. Ma il padre Anacleto non voleva sentir ragioni di quella fatta, infervorato com’era dal fuoco divino. Il popolo incominciava a venerarlo come un santo; gli uomini s’inchinavano, per baciare i lembi della sua tonaca; le donne dicevano che era l’arcangelo Gabriele, tanto somigliava al benedetto messaggero celeste. Padre Anacleto non s’invaniva già di quel culto ingenuo, che ben sapeva non rivolto a sè, ma al Dio che egli serviva, di cui dispensava la dolce parola alle turbe. La potenza dell’ingegno si rinvigoriva nella semplicità del suo cuore, traendo tutte le logiche conseguenze dalla formola intravveduta nell’anima sua: Dio è il Verbo, e il Verbo è l’Amore. Dunque, diceva egli, siate fratelli in Dio, e portate lietamente la sua croce; ognuno di voi voglia la sua parte del peso, e questo vi parrà soavissimo; amandovi tra voi, non vivendo che d’amore, il regno di Dio scenderà sulla terra.
— Parlava bene, povero frate! — esclamò la contessa.
— Sì, ma sapeva un pochettino di eretico; — ripigliai. — Per consenso dei dottori, il regno di Dio non può scendere in terra, che agli ultimi giorni. Del resto, il regno di Dio non è di questo mondo, non essendo questo mondo che il luogo di prova; nè si potrebbe mai confondere la Gerusalemme celeste con la Gerusalemme terrestre. Dunque il padre Anacleto era caduto nell’eresia, per eccesso di ardore. Lo tolleravano ancora, ma esortandolo a temperarsi, pregandolo di meditar meglio la vera dottrina dei libri, raccomandandogli di flagellarsi a sangue, per cacciar via quell’orgoglio, certamente soffiato dal maligno nel suo intelletto, per non lasciargli vedere il serpe appiattato tra i fiori della sua eloquenza. Ed egli si flagellava; ma più si flagellava, più sentiva che il Verbo è l’Amore. È anche l’Intelligenza, il Verbo, poichè il Verbo è Dio; ma l’intelligenza, se mai, non abitava più nel convento di Dusiana. E non pensò egli forse ad alta voce qualche cosa di simile, quando gli scappò detto dal pergamo ai fedeli, che diffidassero dei lupi rapaci in veste di pastori? quando soggiunse, non bastandogli quel poco, che taluni i quali ostentavano umiltà, dottrina e santità, erano sentine di vizi, pozzi d’iniquità, armamentarii di frode? Si cominciò a sussurrare di un attacco che padre Anacleto avesse voluto muovere al priore. Lo scandalo era grave; bisognava punirlo, e punirlo soffocandolo. Si fece un processo, nella clausura del chiostro. Il reo, più infervorato che mai, non volle disdir le sue massime fondamentali, che troppo somigliavano a quelle ond’erano venuti tanti scismi pericolosi alla Chiesa militante. Sarebbe dunque scaturito un nuovo Ario, un altro Eutiche, un altro Donato, un altro Socino, e dall’abbazia di Dusiana? Ah no, per sant’Agostino! Disdicesse il reo le sue massime, facesse ammenda di tutto. E lui, peggio che mai. Non voleva neanche sentir parlare di coperti attacchi al priore, a nessuno dei suoi superiori o compagni. Parlava la parola di Dio; si rallegrassero i sani, rimediassero alle lor piaghe gì’infermi. Guardavano essi alla terra, ed egli aveva gli occhi fissati nel cielo. —
Mi sentivo la gola asciutta; non ne potevo più, e avrei bevuto volentieri un bicchier d’acqua. Ma il mio uditorio era troppo attento, aspettando la mie; non volli guastarmi l’effetto, e pigliai la rincorsa.
— Ma allora, vedendo tanta pervicacia nell’errore, e il reo farsi accusatore sotto quella ipocrita forma, scattarono le rivolte del consesso giudicante, e vennero le rappresaglie feroci. Lui con gli occhi al cielo, lui! Non aveva ragionato più a lungo del bisogno, sulla pubblica via, con le Maddalene del vicinato? Non lo avevano veduto al pozzo intrattenersi con le donne di Samaria? Sì, era la verità; ma per parlare di Dio ad anime assetate di rugiade celesti, ma per ricondurre le povere anime al culto della virtù, come aveva fatto santamente il Figlio dell’Uomo. E la fanciulla invasata di tanta passione per lui, da seguitarlo per via, da far giornate intiere di cammino a piedi, per andarlo a sentire quando predicava nei paesi vicini? Era impazzita, la poveretta, e avevano dovuto esorcizzarla. Non aveva egli gettato un fascino su lei? Un fascino! povero padre Anacleto! Ci divenne furioso, e parve ossesso egli medesimo, in quel punto fatale. Certamente il demonio era penetrato in lui, per la via dell’orgoglio, ed oramai spadroneggiava in quella povera testa, che si era creduta così forte. E poichè perfidiava nel non voler riconoscere la impossibilità di vedere in terra la Gerusalemme celeste, poichè si ostinava a sostenere che la religione non fosse altro che un misterio d’amore tra Dio e la sua creatura, e peggio, delle creature tra loro, il padre Anacleto fu condannato alla massima pena, all’unica che togliesse per sempre lo scandalo, soffocandolo nell’in pace. Era necessario. Non si arrogava egli perfino la personalità divina? non lo avevano sentito dire una volta, nel fervore delle sue improvvisazioni: Ecco, io sono la verità e la via? —
Qui poi avevo finito, e mi fermai per sentirne l’effetto. Le ascoltatrici erano commosse; ma più di loro il vecchio contadino.
— Lei la sa meglio di me, la storia del fraticello; — diss’egli nella sua grande semplicità, sotto cui forse s’appiattava un po’ d’ironia. — Peccato che io non saprò raccontarla così, agli altri signori che verranno. —
Risero le mie ascoltatrici, risero i miei ascoltatori; fu una risata generale, che mi guastò tutto l’effetto della patetica storia. Io non guardai le signore, che avevano il diritto di ridere; non guardai quelli tra gli uomini a cui lo concedevo di buon grado; mi volsi in quella vece a squadrare i miei tre satelliti, e primo il signor Enrico Dal Ciotto. Quello era serio e composto; si capiva che non aveva riso, perchè non aveva potuto ridere, tanto era rimasto seccato dalla mia parlantina. Ma poichè egli aveva le labbra chiuse, dovetti pure contentarmi. Rideva in sua vece il Cerinelli; oh, come rideva di gusto! Approfittai della ilarità generale, e avendo l’aria di sottrarmi alla gloria del trionfo, andai diritto sul Cerinelli, per dirgli a mezza voce, ma con piglio risoluto:
— Di che cosa ride, Lei?
— Del contadino, che è così buffo. La sua storia mi è piaciuta moltissimo, signor Morelli. Non si poteva con più garbo.... —
Lo lasciai solo a finir la sua frase. Ero cascato male; proprio sul più debole dei tre. Ma non è stata colpa mia, se quello era il più vicino ad Enrico Dal Ciotto, e se per il secondo mi è venuto sott’occhio. Per lui, frattanto, ho perduta l’occasione di guardar la faccia del Martorana.
La contessa Quarneri volle rimetterci tutti in carreggiata, facendomi le sue congratulazioni.
— Sapete ora, — soggiunse, dopo avermi lodato, — che cosa vogliamo da voi, Morelli?
— Comandate, signora.
— Un’ode, — ripigliò, — un’ode sul povero fraticello. Sì, dico, un componimento poetico a vostra scelta. Mi pare che il soggetto si presti. —
Le signorine Berti si associano, ed anche le mamme, colla sindachessa e la segretaria comunale. Unica, la signorina Kathleen sta zitta. Galatea è classica, non c’è che dire, e non ama queste romanticherie.
Ci siamo messi in moto, per ritornare al paese. Io trovo il modo d’avvicinarmi a lei, che non mi vede, chinata com’è a coglier ramoscelli di menta lungo la proda di un campo.
— Dunque, — le dico, — scriverò i versi sul frate? —
Si volta, mi guarda, abbassa gli occhi e risponde:
— Faranno piacere ad Adriana; li scriva pure.
— Non scriverò niente, allora; — ribatto io, punto sul vivo.
— As you like it; — dice ella di rimando.
— Che significa ciò?
— Come vi piace; è il titolo di una commedia di Shakespeare. Ha già disimparato l’inglese? —
Mi dice queste cose con un tono che mi leva la voglia di proseguire la conversazione. Ho un diavolo per occhio, e sto per assestare una pedata a Buci, che viene a strisciarmi contro una gamba. Debbo calmarmi, tuttavia, perchè le Berti son vicine e mi chiamano. Si rientra indi a poco nell’abitato di Dusiana, e si delibera sull’ora del ritorno. Ma qui il commendator Matteini ha un’idea luminosa, e la sottopone ai lumi della luminosa contessa. Si è stati così bene per la colazione all’Albergo di Roma, che in verità si potrebbe rimanere a pranzo, e in Corsenna non si ritornerebbe che per l’ora dell’arlecchino. Piace l’idea, e si comunica all’albergatore, che la trova degna di noi. E mentre egli si metterà in quattro per servirci, desideroso di farci anche assaggiare le trote del fiume, noi andiamo a visitar la chiesa parrocchiale, l’oratorio e tutte le antichità del luogo, non perdonando nemmeno ad una di quelle croci di Baldassarre, che si vedono piantate lungo la via maestra in tanti paesi campestri, con tutti gli emblemi della Passione, e che prendono il nome dal povero vagabondo, fattosi, un cinquanta o sessanta anni fa, impresario di simili devozioni per le terre d’Italia. Avanzandoci ancora del tempo, si gira Dusiana per tutti i versi; i tre porticati della piazza ci trattengono un’ora buona, mentre le signore entrano qua e là nelle botteghe, spogliando le vetrine di cento cose inutili, rimaste invendute dall’ultima fiera. Finalmente è l’ora del pranzo, e si va a fargli onore, onorati anche noi alle frutta da un concerto musicale, venuto a rallegrarci delle sue "scelte armonie" davanti all’ingresso dell’albergo. Le signore sono piacevolmente commosse da questa delicata attenzione; vogliono far entrare i musicanti, per offrir loro il bicchiere della riconoscenza, e dànno l’incarico a me di fare il complimento. Me la cavo alla meno peggio, conchiudendo in questa forma:
— Sapevamo, o signori, che Dusiana era una nobilissima terra, abitata da un popolo civile, intelligente al sommo, forte per industrie, fiorente per arti gentili. Ma in verità ignoravamo che il suo concerto musicale fosse di tal forza, come noi l’abbiamo potuto sentire poc’anzi. Porteremo, o signori, un’eco fedele delle vostre glorie a Corsenna. Così potessimo sperare che voleste voi portarci il concorso della vostra valentia, nella occasione di una accademia di beneficenza, che stiamo preparando colà. —
Anche la mia idea piace, è accettata dal maestro capobanda, e acclamata da tutti. Da tutti? mi spiego; anche qui mi è mancata l’approvazione di Galatea, o, se pure l’approvazione c’era, non mi è stata manifestata nelle forme convenienti.
— Ma che cosa ne sa Lei, dell’accademia? — mi chiese ella poco dopo, con la sua aria scontrosa.
— So tutto io, signorina; il mio angelo mi dice tutto; — risposi.
— La contessa l’ha informato.
— Prima di tutto, la contessa non è il mio angelo; in secondo luogo non so niente da lei. —
Le ho resa la botta dell’inglese, ed ella ne è rimasta un po’ sconcertata. Ma non più; si parte finalmente. La contessa mi vuole nella sua giardiniera, forse in premio della storia del frate e dell’invito al concerto musicale di Dusiana. Galatea, ch’era già salita con lei, non ha più modo di andarsene. Quanto a me, non accetterei; ma ci ho qui i miei tre noiosi; voglio averli sotto mano e patullarmeli anch’io, se mi riesce. Filippo, per non destar gelosie, va nell’altra giardiniera colle Berti. La contessa Adriana, in verità, ci ha perduto molto nel cambio. Son nervoso, irrequieto, fastidioso, pronto all’attacco, più pronto alla risposta, non lascio passar niente a nessuno; e mi sopportano tutti, perfino il Dal Ciotto, che due volte minacciato ricusa il ferro e dà indietro. La contessa, con ammirabile pazienza condita di grazia, mette pace da per tutto. Ah che giornata! che giornata d’alti e bassi, come tutte le giornate della misera vita! Ma per tutti gli Dei infernali, io non sono mai stato così poco contento di me, come quest’oggi.
— Ricapitoliamo; — ho detto a Filippo, quando finalmente ci siamo trovati soli al Giardinetto.
— Ricapitoliamo; — m’ha egli risposto. — Quanto a me, ti confesserò che ho passato una buona giornata, lasciandomi vezzeggiare e osservando la mia gente. Mi sono trovato bene, come un pesce nell’acqua.
— Ed io come un pesce nell’olio.
— Friggendo, non è vero? Ti ho ben visto qualche volta. E non hai avuto occasioni di rompere con nessuno?
— Le ho cercate, ma ho fatto fiasco. Ho detto a Enrico Dal Ciotto che si chiamano decadenti in arte solamente quelli che non sanno star ritti; ed egli non è andato in collera. Gli ho detto che le cravatte larghe le portano i petti stretti e mal formati....
— E lui?
— Mi ha risposto ch’era in tutto e per tutto della mia opinione.
— Ah! quello è il più duro dei tre. E gli altri?
— Ho domandato al Cerinelli perchè ridesse; e mi ha risposto: per la semplicità del contadino; ma Lei, come ha parlato bene, Lei!
— Di bene in meglio. E il terzo?
— Non gli ho detto niente, mi sono disanimato.
— Tasta ancora quell’altro. È forse l’incaricato, il sorteggiato della combriccola. Quantunque, noi forse facciamo loro un onore che non meritano, immaginando che abbiano delle idee di battaglia.
— Oh, per questo, non ne dubitare, le avrebbero. Ma io incomincio a temere che la contessa Adriana li abbia catechizzati, minacciandoli di ritirar loro la sua grazia, se mai si arrischiassero a leticare con me.
— Lo saprò; — disse Filippo.
— Tu?
— Io, sì; sono invitato per domattina al Roccolo.
— Ah, bene; e ci andrai sulle dieci, m’immagino.
— Sì, se pure vorrai darmene licenza.
— Io? figurati! Sai bene quel che ti ho detto. E, a parlarti sinceramente, andando tu, mi liberi da un falso obbligo.
— Che cos’è un falso obbligo?
— Il dubbio sciocco di credersi necessario, il timore vanitoso che la tua mancanza sia notata e faccia dispiacere alla gente. Per questo dubbio, e per questo timore, quante volte si va dove non si vorrebbe andare! quante cose si fanno, che non si vorrebbero fare! Da bravo, dunque, vai tu. —