< Galateo overo de' costumi
Questo testo è completo.
XI XIII

Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta affettione e facendone sì gran maraviglia che è un isfinimento di cuore a sentirli; massimamente ché costoro sono per lo più tali che perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s’è la loro maggior prodezza, fatta etiandio quando vegghiarono! Non si dèe adunque noiare altri con sì vile materia come i sogni sono, spetialmente sciocchi, come l’uom gli fa generalmente. E come che io senta dire assai spesso che gli antichi savi lasciarono ne’ loro libri più e più sogni scritti con alto intendimento e con molta vaghezza, non perciò si conviene a noi idioti, né al comun popolo, di ciò fare ne’ suoi ragionamenti. E certo di quanti sogni io abbia mai sentito riferire (come che io a pochi soffera di dare orecchie), niuno me ne parve mai d’udire che meritasse che per lui si rompesse silentio, fuori solamente uno che ne vide il buon messer Flaminio Tomarozzo, gentiluomo romano, e non mica idiota né materiale, ma scientiato e di acuto ingegno. Al quale, dormendo egli, pareva di sedersi nella casa di un ricchissimo spetiale suo vicino, nella quale poco stante, qual che si fosse la cagione, levatosi il popolo a romore, andava ogni cosa a ruba, e chi toglieva un lattovaro e chi una confettione, e chi una cosa e chi altra, e mangiavalasi di presente; sì che in poco d’ora né ampolla né pentola né bossolo né alberello vi rimanea che vòto non fosse e rasciutto. Una guastadetta v’era assai picciola, e tutta piena di un chiarissimo liquore, il quale molti fiutarono, ma assaggiare non fu chi ne volesse. E non istette guari che egli vide venire un uomo grande di statura, antico e con venerabile aspetto, il quale, riguardando le scatole et il vasellamento dello spetial cattivello e trovando quale vòto e quale versato e la maggior parte rotto, gli venne veduto la guastadetta che io dissi: per che, postalasi a bocca, tutto quel liquore si ebbe tantosto bevuto, sì che gocciola non ve ne rimase; e dopo questo se ne uscì quindi, come gli altri avean fatto: della qual cosa pareva a m(esser) Flaminio di maravigliarsi grandemente. Per che, rivolto allo spetiale, gli addimandava: -Maestro, questi chi è? e per qual cagione sì saporitamente l’acqua della guastadetta bevve egli tutta, la quale tutti gli altri aveano rifiutata?- A cui parea che lo spetiale rispondesse: -Figliuolo, questi è messer Domenedio; e l’acqua da lui solo bevuta, e da ciascun altro, come tu vedesti, schifata e rifiutata, fu la Discretione, la quale, sì come tu puoi aver conosciuto, gli uomini non vogliono assaggiare per cosa del mondo-. Questi così fatti sogni dico io bene potersi raccontare e con molta dilettatione e frutto ascoltare, perciò che più si rassomigliano a pensiero di ben desta che a visione di addormentata mente o virtù sensitiva che dir debbiamo; ma gli altri sogni sanza forma e sanza sentimento, quali la maggior parte de’ nostri pari gli fanno (perciò che i buoni e gli scientiati sono, etiandio quando dormono, migliori e più savi che i rei e che gl’idioti) si deono dimenticare e da noi insieme col sonno licentiare.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.