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Decreta | ► |
PREFAZIONE.
La Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, che appagava un voto degli studiosi rimasto anche troppo lungamente insodisfatto, doveva trarre come necessaria conseguenza una indagine nelle dolorose vicende della vita di lui; indagine condotta così a fondo come fino allora non se n’era avuto pur anco il pensiero, ed estesa a particolari per lo innanzi appena sfiorati: il che non si poteva se non ottenendo dalla suprema autorità ecclesiastica la concessione di spingere le ricerche fin dove occhio profano non era mai, se non con la violenza, penetrato.
Di quante spine sia stata irta la via, per la quale Galileo si condusse all’apice della gloria, è ben noto. Le meravigliose scoperte celesti che così luminosamente confermavano la dottrina copernicana del sistema dell’universo, se avevano guadagnato l’assenso incondizionato ed entusiastico dei veri studiosi della natura, richiamarono però subito l’attenzione dei teologi che incominciarono a guardarne con occhio diffidente le conseguenze. Essi avevano ben compreso dove Galileo andava a parare; e mentre tutta Roma, chiamata dallo scopritore istesso a verificare gli annunciati discoprimenti, dava libero sfogo alla propria ammirazione salutandolo nuovo Colombo dei cieli, il cardinale Bellarmino, uno degli Inquisitori Generali, si rivolgeva segretamente ai Matematici del Collegio Romano per averne da loro conferma, e più segretamente ancora la Inquisizione scriveva il nome dell’audace novatore nel tremendo libro dei sospetti.
E quando si cominciò a buccinare di qualche grave provvedimento contro il libro del Copernico, ed in Firenze stessa dal pergamo e nella Corte si notarono le contraddizioni tra la Scrittura Sacra e la minata dottrina, Galileo non potè stare alle mosse e deliberò d’intervenire perchè la temuta proibizione, da una parte, ed il prevalere di idee conformi appresso i Granduchi, dall’altra, gli avrebbero per sempre impedito di combattere per quella verità nel cui trionfo egli riponeva ormai lo scopo di tutta la sua vita.
La memoranda lettera al fido Castelli, ampliata poi nell’altra celeberrima alla Granduchessa Cristina[1], nella quale sono così nettamente e magistralmente segnati i confini tra la scienza e la fede, esasperò la parte teologica che già s’era pronunciata contro Galileo con la famosa invettiva del domenicano Tommaso Caccini[2] in Santa Maria Novella; ed un suo confrate, il Lorini[3], già chiaritosi anticopernicano in San Marco, denunziava al Santo Uffizio la lettera al Castelli, come quella che conteneva proposizioni sospette e difendeva opinioni contrarie all’interpretazione che i Santi Padri avevano data alla Scrittura Sacra. Avuto sentore di questo, Galileo, dimentico di sè e del pericolo al quale andava incontro, accorre a Roma per isventare le trame che si ordivano contro il sistema del quale, con le lettere sulle Macchie Solari, erasi ormai fatto aperto propugnatore. In Roma egli si agita, guadagnando sempre nuovi proseliti; ma ad arrestare la pericolosa corrente, la Inquisizione affretta nell’ombra la sua procedura; e mentre egli si aspettava d’essere chiamato a difendere altri e si illudeva nella credenza che il tremendo tribunale volesse essere da lui illuminato, e preparavasi ad addurre i suoi più poderosi argomenti, si agisce proprio contro di lui come principale accusato e come un accusato così pericoloso da dovergli negare perfino il diritto della difesa.
Nel breve corso d’una settimana il processo è esaurito: la dottrina del moto della terra e della immobilità del sole nel centro del mondo vien dichiarata stolta ed assurda in filosofia e formalmente eretica; e per ordine del Pontefice, Galileo è chiamato dal cardinale Bellarmino, e davanti al Commissario del Sant’Uffizio e di testimoni, dei quali si direbbe quasi che fosse stata dissimulata la presenza ufficiale, gli viene ingiunto che lasci del tutto la dannata opinione e che in maniera alcuna più non la tenga, insegni e difenda, altrimenti si sarebbe proceduto contro di lui nel Santo Uffizio.
Galileo promise di ubbidire; e nel giorno medesimo nel quale il Bellarmino annunziava alla Congregazione del Sant’Uffizio che l’ammonizione era stata inflitta, leggeva il decreto di proibizione dell’opera del Copernico e d’altra professante la stessa dottrina, donec corrigantur.
Tornato a Firenze e ritiratosi di lì a poco sulle colline di Bellosguardo, Galileo parve tutto assorto negli studi per applicare le ecclissi dei Pianeti Medicei alla determinazione delle longitudini in mare e nella questione col Grassi intorno alle comete; questione che diede origine a quel gioiello insuperabile di scrittura polemica che è il Saggiatore, arditamente dedicato dai Lincei al nuovo Papa Urbano VIII[4], che da Cardinale era stato del nostro filosofo grandissimo ammiratore e laudatore in prosa e in verso.
Al desiderio vivissimo che Galileo provava di recarsi ad inchinare l’antico mecenate salito al soglio pontificio, specialmente dopo aver saputo quanto gli si conservava benevolo, si aggiunsero per indurvelo le sollecitazioni degli amici e in particolare della prediletta sua Suor Maria Celeste, e sopra ogni altra cosa la decisa volontà di non lasciar fuggire una tanta occasione senza tentare qualche passo in favore della libertà della dottrina copernicana. Festosamente accolto, nel corso di circa sei settimane, durante le quali egli rimase nella città eterna, ebbe ben sei udienze dal Pontefice, ne ricevette in dono un quadro, indulgenze, medaglie, agnusdei, un breve onorevolissimo e promesse di pensione; ma, quanto alla opinione del Copernico, in risposta ai timori cattolici di lui circa i pericoli che avrebbe corsi la fede, qualora la condannata dottrina risultasse essere la verità istessa, non ottenne se non la sola espressa dichiarazione «che non era da temere che alcuno fosse mai per dimostrarla necessariamente vera.»
Se tuttavia potè dirsi fallito il precipuo scopo di questo viaggio, convien credere che Galileo, il quale non di rado si illudeva in tutto ciò che grandemente gli stava a cuore, n’avesse ritratta la convinzione che il decreto proibitivo non sarebbe stato mantenuto in tutto il suo rigore; e perciò, poco dopo tornato da Roma, si fece animo a rispondere a Francesco Ingoli[5], il quale otto anni prima avevagli indirizzata una confutazione del sistema copernicano: e nella sua illusione dovette maggiormente confermarlo il sapere che la sua risposta, fatta correre manoscritta, era stata letta e gustata dallo stesso Pontefice. Queste medesime e non infondate speranze lo inducevano a prendere quel lavoro massimo, intrapreso negli anni felici di Padova, già annunziato al Keplero, promesso anche nel Sidercus Nuncius, più volte sospeso ma non mai abbandonato, nel quale con i sussidi della nuova astronomia e di tutte insieme le scienze naturali, la incontestabilità della dottrina del moto della terra doveva essere con tutta evidenza dimostrata. E quelle speranze dovevano ragionevolmente divenire certezza quasi assoluta, dopochè ebbe risaputo come al Campanella, il quale riferiva al nuovo Pontefice che la proibizione del libro del Copernico era stata di ostacolo alla conversione di certi gentiluomini tedeschi protestanti, Urbano VIII avesse risposto queste formali parole: «Non fu mai nostra intenzione; e se fosse toccato a noi, non si sarebbe fatto quel decreto.»
Con più ardore che mai dedicossi egli allora al compimento del suo lavoro, dal quale ormai nulla può distrarlo: e siccome, per quanto egli creda di poter fare assegnamento e sulle buone intenzioni del nuovo Papa e sul favore del quale gode presso di lui, pure quel fatale decreto è uscito e quella tremenda e precisa ingiunzione gli è stata fatta, e per conseguenza le sue scritture non potrebbero mai ottenere la necessaria approvazione per la stampa qualora vi sostenesse apertamente la condannata dottrina, così egli è costretto a torturare il proprio ingegno ed a sottoporsi al tormento di esporre come mera ipotesi quella che sentiva essere assoluta verità. Ottenuta o, per meglio dire, carpita con potenti mediazioni l’approvazione alla stampa, dopo accettate tutte le imposte varianti, compresa pur quella fortunatissima del titolo, e pubblicato il Dialogo, troppo chiare apparvero a tutti le vere intenzioni dell’Autore. E poichè la disgraziata conclusione dell’opera poneva in bocca all’interlocutore che avea sempre accampate opposizioni per lo più inconcludenti e vuote sottigliezze scolastiche, un argomento che a Galileo era stato suggerito dal Pontefice stesso, fu facil cosa persuadere al vanitoso e fierissimo Urbano VIII che in quel ridicolo personaggio il temerario Autore aveva voluto raffigurare lui medesimo; e tanto bastò perchè da amico e protettore gli si mutasse a un tratto in nemico implacabile e s’inducesse a credere che quel libro «era più esecrando e pernicioso a Santa Chiesa che le scritture di Calvino e di Lutero.» Le raccomandazioni del Granduca e gli uffici dell’ambasciatore toscano valsero appena ad ottenere la formalità che il caso fosse deferito all’esame d’una Congregazione particolare; ma appena questa ebbe dato il suo parere, che del resto non era dubbio, venne ordinato all’Inquisitore di Firenze di intimare a Galileo che comparisse innanzi al Commissario del Sant’Uffizio in Roma. Le ansie crudeli e il timore del peggio danneggiando la scossa salute dell’infelice filosofo al quale si ricusa qualunque proroga, lo fanno cadere ammalato: tre medici chiamati al suo letto dichiarano che ogni piccola causa esterna potrebbe apportargli pericolo evidente della vita, ma Urbano VIII ravvisandovi un pretesto per eludere i suoi ordini, fa scrivere all’Inquisitore che la Congregazione del Sant’Uffizio manderà a spese di Galileo in Firenze un commissario accompagnato da medici i quali, se lo troveranno in grado di mettersi in viaggio, lo faranno carcerare e legare con catene, e così legato lo tradurranno a Roma. Il Granduca istesso, atterrito dalla fierezza del Pontefice il quale, al dire dell'ambasciatore Niccolini[6], minacciava qualche stravaganza, non sa più resistere, e fa intendere a Galileo che ad ogni modo obbedisca e parta per Roma. E nel più crudo dell’inverno, fra i pericoli della morìa che dilagava per tutta Italia — di quella stessa morìa della quale è eternata la spaventosa memoria nelle pagine immortali dei Promessi sposi — Galileo parte per Roma. Urbano VIII lo ha finalmente a sua discrezione.
Tornerebbe affatto superfluo il seguire qui passo a passo lo sventurato filosofo lungo la via dolorosa di questo secondo processo. Tutto per filo e per segno, e con una crudezza che nessun commento potrebbe aumentare, dicono i documenti del truce dramma, per poco non volto in tragedia, e che l’Edizione Nazionale mette in luce così integralmente come ce li conservarono gli Archivi, riproducendo perfino le sottoscrizioni di Galileo a quei tremendi costituti e dalle quali, pur come sono vergate, trasparisce la crescente agitazione nell’animo dell’augusto vegliardo.
Questi documenti, al pari di tutti gli altri relativi ai processi che si trattavano nel Tribunale della Sacra Inquisizione, erano originariamente custoditi nell’Archivio del Santo Uffizio in Roma e distribuiti in due serie parallele: una delle quali, col titolo di Decreta, conteneva i verbali o i sunti dei verbali e le decisioni della Congregazione; nell’altra erano, od almeno avrebbero dovuto essere, tutti gli atti delle procedure contro gl’imputati, gli esami di questi e dei testimoni, i relativi carteggi ed eventualmente le sentenze e le abiure. Di queste due serie, quella dei Decreta si trova tuttavia nell’Archivio del Sant’Uffizio, dischiuso eccezionalmente a noi dall’alta ed illuminata sapienza di Papa Leone XIII; dall’altra, che pure vi era conservata, vennero tolti, e non sappiamo nè il quando nè il come, i processi di Galileo, ripetute volte oggetto di studio da parte dell’Inquisizione stessa, e riuniti in un volume, il quale dopo varie vicende passò nell’Archivio Segreto Vaticano, dove prima che da Isidoro Del Lungo, che pur in questa parte delle comuni nostre fatiche mi fu cooperatore preziosissimo, e da me, era stato veduto da altri e fatto conoscere a più riprese agli studiosi.
Le questioni che, or sono circa trent’anni, si agitarono intorno alla autenticità ed alla integrità dei documenti contenuti nel volume Vaticano, avevano fatto ragionevolmente stimar necessario che nella pubblicazione di essi fossero seguite alcune norme, per le quali si rendesse possibile il seguire le discussioni che con istraordinaria vivacità si andavano dibattendo intorno al gravissimo e delicato argomento; ma oggidì crediamo non vi sia più alcuno che sinceramente dubiti di una qualsiasi alterazione artatamente introdotta in quei documenti: e a tale conclusione giovò in singolar modo la pubblicazione integrale dei Decreta che dimostrano la continua e perfetta rispondenza delle due serie di atti concernenti lo stesso argomento.
Che se nel volume dell’Archivio Segreto Vaticano non si ha proprio completa la raccolta di tutti i documenti relativi ai processi di Galileo, altri che, a quanto pare, non vi furono originariamente compresi, o saranno dispersi in altre serie, o per trovarsi in essi trattato anche di altri argomenti si troveranno allegati alle carte a questi relative, o almeno in parte saranno stati distrutti, perchè, secondo le antiche pratiche del Sant’Uffizio, non tutto si conservava; se pure non andarono dispersi in seguito ai trasporti, alle manomissioni od alle sottrazioni alle quali, sia nei tempi Napoleonici, sia in quelli della seconda Repubblica Romana, andarono soggetti gli Archivi di Roma e segnatamente quelli della Inquisizione.
Non sono, nè avrebbero potuto essere, fra gli atti originali altri documenti di massima importanza che illustrano giorno per giorno gli avvenimenti che si andavano svolgendo: tali sono quelli del Carteggio che, relativamente a questo fosco anno 1633, occupano nella Edizione Nazionale un intero volume e che, rivelando i segreti maneggi del dietroscena, permettono di ricostruire il gran dramma nei più minuti particolari.
Così la storia della condanna di Galileo può scriversi ormai in tutta la sua interezza, ed è tale da non aver d’uopo nè di declamazioni retoriche nè di invettive per mettere in luce com’essa rappresenti, all’infuori di discussioni bizantine sopra l’autorità che l’ha pronunziata, se non il massimo, uno dei più grandi errori della Curia Romana, che essa ha scontato, e forse non ancora compiutamente, il giorno in cui dovette cancellare dall’Indice il condannato Dialogo e scrivere nei medesimi volumi dei Decreta il permesso di insegnare, sostenere e difendere la dottrina già dichiarata assurda e falsa in filosofia e formalmente eretica.
Antonio Favaro.