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CAPITOLO SECONDO.
In obbedienza al già accennato ordine del Governo Provvisorio, nel pomeriggio del 25 luglio, nella caserma di San Francesco, collocata in Piazza Sant’Ambrogio1 (luogo di riunione dei militi per le giornaliere esercitazioni al maneggio del fucile) si raccolse la giovine Legione Garibaldina per disporsi alla partenza, al seguito del suo intrepido Condottiero.
Festeggiata entusiasticamente dal popolo milanese nella sua traversata per la città, recossi per Porta Vittoria alla stazione ferroviaria Milano-Venezia, dove trovò ad attenderla, per congiungersi ad essa, un Battaglione Pavese, forte di 600 altri Volontari, completamente armati ed equipaggiati dalla loro città. Là, confortata dal sorriso e dalle lagrime degli amici o dei consanguinei, accorsi a dare ai loro cari il bacio dell’addio, l’animosa coorte sali sull’imbrunire nei carrozzoni approntati per trasportarla a Treviglio.
Delle poche ore notturne trascorse in quella industriosa e pacifica borgata, in attesa dell’alba prefissa alla marcia per Bergamo, l’autore di queste Memorie ricorda un aneddoto abbastanza umoristico. Uno di quei buoni terrazzani che armati dei loro lunghi archibugi, da quattro mesi disseppelliti, munivano di pattuglie il paese come guardia nazionale, scontratosi in alcuni dei nostri serenanti per le strade del Comune domandò loro in pretto bergamasco: Lor je soldacc del general Ribaldo?
Certo così non istorpierebbero in giornata neppure que’ contadini (oggi cittadini) il bel nome da molti anni meritamente venerato.
Sui primissimi albori, invitata dallo squillo delle trombe ad abbandonare l’ospitale borgata, sempre a mo’ di valanga ingrossando per via, salutata e festeggiata a metà cammino dalle generose oblazioni d’ogni genere del venerando e patriarcale ingegnere Albini, ricco possidente di Imbersago e dei dintorni, si diresse alla simpatica Bergamo, che arricchendola di altri suoi figli, utilizzò, per bene accasermarla, persino il disertato Seminario dei Chierici.
Nei pochi giorni di permanenza su quello stupendo colle, che è la città alta di Bergamo, l’infaticabile e sempre vigile Generale si recava ogni dì a visitare ed ispezionare le sparse brigate, a constatarne e a plaudirne le esercitazioni al maneggio dell’arme, scendendo e salendo, con quella tutta sua abituale sprezzatura d’ogni pericolo, le tortuose scalinate, a cavalcioni d’un destriero fantasticamente bardato alla foggia americana, ad imitazione dell’ammirato cavaliere.
Ma dal sembiante del supremo Duce trasparivano di giorno in giorno caratteristici segni di mente impensierita e di profonda preoccupazione.
In quel volto maschiamente leggiadro, quantunque abbronzito dalle battaglie, si sarebbe letto, insieme col rammarico del trovarsi lungi ed estraneo all’azione, in un momento in cui tanto incalzava il bisogno d’agire, l’indescrivibile angoscia di sapere l’amato suolo minacciato da nuova invasione dell’odiato straniero. Giacchè le notizie che mano mano pervenivano dal campo, dipingevano a nerissimi colori il rovescio sempre crescente delle armi regie, di fronte all’imbaldanzito nemico, il quale, debellata Treviso, soggiogata Padova, espugnata Vicenza e quasi totalmente sbarazzato d’assedianti il quadrilatero, ogni dì guadagnava terreno al ritorno sulle orme già peste nella svergognata fuga del marzo.
Infatti, dopo avere scompigliato e sconfitto l’esercito regio a Rivoli e a Sommacampagna, e rottagli così ogni base d’operazione: dopo averlo poscia buttato al di qua del Mincio, lo investiva sull’Oglio, minacciando già la linea dell’Adda.
Trascorsi in tal modo alcuni giorni di trepida ed angosciosa aspettativa, dal Comitato di Pubblica Difesa in Milano pervenne improvviso ordine a Garibaldi di retrocedere immediatamente, per accorrere in ajuto della già minacciata Capitale Lombarda. E, quasi a conferma dell’annunciato pericolo, nella notte d’apprestamento alla precipitosa retromarcia, dalle alture dell’ospitale città sorella si vedevano verso Cassano d’Adda luccicare i fuochi, che venivano interpretati opera dell’esercito invasore.
Ma l’imprevidenza, il tentennare dei novelli reggitori della pubblica cosa, e il destino svoltosi ormai sciaguratamente avverso alla causa italiana, concorsero a far sì che questa suprema chiamata del prontissimo Duce riuscisse tardiva: ciò che mi propongo provare col seguito del mio racconto.
La notte adunque dal 3 al 4 agosto fu spesa in febbrili apparecchi di marcia retrograda alla volta della sventurata Milano. Coi primi albori la giovine Legione, fatta già gagliarda di oltre 5 mila uomini, abbandonò i rispettivi quartieri nei quali era stata accasermata, per concentrarsi nella più ampia piazza della città. Colà Mazzini, che in que’ supremi momenti, accorso da Milano, aveva ripreso il suo posto di portabandiera nella Legione, le fece sprecare, a dir vero, un po’ di quel tempo così prezioso e richiesto dalla iniziata marcia, per declamarle, da un balcone di casa Camozzi, generose parole tendenti ad incitarla. ... al già da essa agognato cimento. Tal che soltanto verso le 8 mattutine l’alacre e giubilante colonna si rimise in cammino e, tenendo strategicamente la linea bergamasca al di qua dell’Adda (che passò a Brivio), divorato il terreno separatore, in mezzo alle festevoli acclamazioni dei terrazzani accorsi a plaudirla, verso l’una pomeridiana si ricoverò dai cocenti raggi del sole, stanca ed affievolita, nel Comune di Merate.
Quantunque incalzasse il bisogno d’altra rapida marcia per portarsi a Monza, e di là, col mezzo della ferrovia, alle minacciate mura della già scompigliata e costernata Milano, pure il Generale stimò necessario di concedere ai militi qualche ora di riposo; impartendo però severissime disposizioni perchè nessuno si sbandasse, ond’essere tutti parati al primo appello.
Dopo le 3 pomeridiane squillò nuovamente il segnale della partenza; e la rifocillata Legione s’avviò ancor più lieta e più festante del mattino al seguito dell’infaticabile e sempre più meditabondo suo Duce, che di pochi passi le cavalcava davanti. Ma trascorsi appena pochi chilometri di via, un temporale che s’era quetamente agglomerato sul capo dell’allegra colonna, si scatenò con tale turbinosa violenza d’acquazzone misto a grandine, orribilmente intersecato da tuoni e lampi, che il Generale fu costretto a farla retrocedere, allo scopo di riaverla e riassettarla col pernottare nel testé abbandonato Merate.
Durante la notte, che continuò brontolona e tempestosa, come il vespro che l’aveva preceduta, molti di que’ giovani militi, più agguerriti dall’entusiasmo del buon volere, che dall’abitudine alla travagliata vita militare, affranti dalle rapide corse e da quel complesso di persecuzioni atmosferiche, trovaronsi così seriamente indisposti, da far temere potessero pel susseguente mattino presentarsi ristabiliti e pronti alla nuova marcia, ai forse supremi cimenti.
Ma una splendida alba, salutata dagli squilli delle trombe che pareva invitassero, non solo a riprendere l’interrotto cammino, ma ad ingaggiar battaglia, risollevò nei malfermi, colle riposate membra, gli abbattuti spiriti, sì che in poco più di mezz’ora l’intera colonna sbarazzata, per ordine del previdente Generale, dei rispettivi zaini e fardelli, destinati a raggiungerla a seconda degli eventi, si slanciava più agile e spedita a percorrere la via.
In Cernusco Lombardone, piccola borgata che dista da Merate 3 o 4 chilometri, fu permesso alla colonna breve sosta, onde fornirsi di pane (generosamente elargito dal Comune) per poter reggere alla lunga marcia prefissa.
Il generoso proposito, l’ardente desiderio d’arrivare in buon punto sotto le dilette mura della già investita Milano, percorrendo come elettrica scintilla le file della giovine coorte, la facevano più rassegnata alla noja, al disagio del cammino, ancor fangoso pel recente acquazzone, all’inevitabile incubo della canicola estiva; ond’è che coll’accrescersi del numero dei divorati chilometri, pareva si raddoppiasse in essa la lena a raggiungere la desiata meta.
Toccati quindi, con brevissime soste, i brillanti comuni di Osnago, di Usmate, di Arcore, trovossi, per le due dopo mezzodì, giubilante a Monza: dove fu concesso dai Capi riposo, sotto il selvoso sentiero che conduce al giardino reale e per esso al famoso parco.
Ivi la vivace, ma pur faticata milizia, incrociati a fascio i fucili in mezzo ai fronzuti alberi dei quali va superba quell’ampia striscia di terreno, si distese sui verdi tappeti in attesa del rancio, che la Municipalità del comune fu sollecita di apprestare ai novelli ospiti, fornendo tutto l’occorrente sul posto. Poichè il Generale aveva emanato severissimo ordine ai rispettivi Capi e sotto-Capi: che nessun milite si sbandasse in cerca di cibo negli alberghi o nelle trattorie cittadine; tanto più che in quello sventurato pomeriggio correvano già voci allarmanti sull’equivoca posizione nella quale si dibatteva scompaginata la povera Capitale Lombarda.
Infatti non era ancora trascorsa un’ora dall’arrivo dell’agile colonna, sitibonda d’azione, che una voce corsa dell’approssimarsi di cavalleria e di granatieri croati, creata più dal timor panico degli incettatori di notizie ad ogni costo, che dalla reale sussistenza del fatto, fece balzare in piedi e momentaneamente scompigliò il giovine esercito; in guisa però che la maggior parte dei militi, riprese le armi, si schierava nei ranghi, mentre alcuni della retroguardia, fortunatamente pochi, fecero atto di prendere la corsa verso la città, a manifesto scopo di ivi ricoverarsi in salvo.
Il Battaglione Anzani, sempre capitanato dal Medici, colla pur gradita missione di servir d’avanguardia, si dispose a tale intento, in un batter d’occhio, in ordine di battaglia: imitato successivamente dal resto della colonna, che occupava in lungo ed in largo l’ampio viale2. In quel mentre fu visto giungere a galoppo, proveniente dall’interno della città, montato sul solito destriero, il Generale, che, pure sedotto dalle notizie che correvano sempre più allarmanti, credendo maturato l’istante di rivelarsi in patria degno della nomèa che l’aveva precorso, si buttò a percorrere in su ed in giù la schierata coorte, in tempo pur anco a sbarrare col cavallo la via ai pochi pusillanimi, che sulle prime aveano inconsultamente tentata la fuga. Per la prima volta fu visto allora l’irato Nizzardo dardeggiar dagli occhi lampi guerrieri; tu in quell’istante per la prima volta udita in minaccioso suono quella vibrata e metallica voce gridare ai mal capitati «Con me non si fugge, carogne! con me non si fugge! È giunto il momento di misurarci col nemico!... è giunto il momento di batterci.... rientrate nei ranghi.... serrate le file!....»
Quasi contemporaneamente a quelle intimazioni, s’udirono partire dalla coda della distesa colonna alcuni spari di fucile, che tenuti sul subito casualità inerenti a quel primo scompiglio, si seppe dappoi esser stato l’effetto di precipitata e forsennata fucilazione di due innocenti allarmisti, rei d’aver buttata e sparsa intempestivamente fra le schierate file la notizia della pur troppo già sottoscritta Capitolazione3.
Novella prova codesta che all’umana natura ripugna prestar fede ad annuncio, fatalmente destinato a tornarle dannoso o sgradito.
Cessate le detonazioni, ricomposti i ranghi, ne seguiva ansioso silenzio, commisto a indescrivibile trepidazione.
Trascorsa così un’ora circa d’inutile aspettativa, il Generale che, animato da speranza e da brama di prossima pugna, era corso in su in giù nel frattempo verso gli sbocchi della bella borgata, quasi a sfidare l’atteso nemico, conscio forse della verità delle diffuse notizie, e desideroso di mettere al sicuro da qualsiasi notturna sorpresa da parte delle scorrazzanti orde Austriache i suoi volontari, diè ordine di subita ritirata su Como. Cambiata quindi testa di colonna, l’avanguardia trovossi a funzionare da retroguardia; perchè in essa e nel suo Capo fidava tranquillo il Generale, nella temuta eventualità di inseguimento e di sorpresa alle spalle.
Quella marcia fu delle più disastrose fin’allora toccate alla fida coorte; vuoi perchè pochi avevan potuto fornirsi di commestibili e riaversi così dalla già lunga corsa del mattino, vuoi per l’invadente oscurità della notte, vuoi pel rammarico e lo scoramento che tutti aveva invasi fino alle lagrime, il pensiero delle famiglie, dei parenti, della disgraziata città; che ognuno si pingeva già a quell’ora investita, espugnata, saccheggiata dalle truppe vittrici, coll’immensurabile strascico di tutte le inerenti sciagure.
Forieri intanto e campioni del già completato disastro, del consumato sacrificio della misera terra, sorgiungevano militi dispersi e sbandati dal ripiegato esercito piemontese; laceri, stanchi, affamati; e dallo squallore del loro volto, dagli interrotti e mal distinti accenti, dai lacrimevoli racconti de’ patiti disagi e peripezie d’ogni genere, trapelava l’ansia febbrile di rifugiarsi, di ridursi frettolosamente al sicuro da ogni persecuzione nemica, chè:
- Nel soldato che vincer dispera
- Della vita rinasce l’amor.
Il Generale, dotato qual’era di nobile e pietoso sentire, commosso alle lagrime da tale spettacolo, fece salire sulla groppa del proprio destriero uno di quegli sventurati, che più degli altri appariva impotente a proseguire il cammino; e per lungo tratto di via se lo tenne amorevolmente accoccolato alle terga.
Per colmo di sventura la notte calò delle più buje: sì che le tenebre favorirono i pusillanimi, gli sfiduciati, che, pratici dei luoghi e non rattenuti da pudore, alla chetichella disertarono chi per di qua, chi per di là, le scompigliate e omai disordinate file.
Pochi, a dir vero, della giovine colonna, sorretti da gagliarda costituzione e da ben temprata fibra, ressero sempre svegli e presenti a sè stessi nella lunga e faticosa marcia. Ond’è che dopo avere attraversati i Comuni di Seregno, di Paina, di Mariano, la piazza principale di Cantù s’ebbe il maggior contingente di dormigliosi, che non sarebbero stati riscossi dal profondo letargo che li dominava appena sdrajati, neppure dal calpestio di sorvegliante cavalleria. Camerlata pure s’ebbe ricco deposito di sonnolenti: e Como, per metà già disertata da’ suoi costernati abitanti, rifugiatisi sulle circostanti montagne, subì a porte semichiuse coi primissimi albori, l’invasione di quell’accozzaglia. Che tale appariva in quell’istante il più che decimato e stremato manipolo, avanzo di quattro già floridi e ben compatti battaglioni.
Sparpagliati negli alberghi, nelle trattorie, nelle bettole, e più tardi accasermati nei quartieri della città, gli affranti militi non rividero più, fino a tarda ora della trascorrente domenica, la loro bandiera; onde soltanto nel pomeriggio fu dato a Garibaldi di riconoscere i guasti notturni di cui presentava ampie vestigia il giovine esercito, ritornato ai ranghi sulla spaziosa piazza della vicina Camerlata, dove gli era stata data la posta.
In aggiunta agli scomparsi la notte col favor delle tenebre, alcuni scoraggiati e disillusi s’erano nel mattino ricoverati nella vicina Svizzera.
Solo il Battaglione Anzani ed il Pavese offrivano ancora lusinghiero contingente nelle poco diradate file.
- ↑ Bello questo Quartiere armigero, che esiste anche ai dì nostri seminato di caserme, battezzate tutte col nome di santi.
- ↑ Mazzini, il famoso agitatore, armato di carabina inglese, fu visto dal narratore di queste Memorie in quel periglioso istante schierato fra i militi della seconda fila, disposto a fare ciò che era compito d’ogni legionario italiano.
- ↑ Altrettanto avveniva in quel medesimo pomeriggio nella sventurata Milano. Gli imprudenti ed angosciati propalatori del già consumato abbandono della infelice città alle orde vittrici, divennero bersaglio all’ira degli increduli, alle sevizie della disperazione.