< Gazzetta Musicale di Milano, 1842
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N. 9 - 27 febbraio 1842
Suppl. al N. 8 N. 10

GAZZETTA MUSICALE

N. 9

DOMENICA
27 Febbrajo 1842.

DI MILANO
Si pubblica ogni domenica. — Nel corso dell’anno si danno ai signori Associati dodici pezzi di scelta musica classica antica e moderna, destinati a comporre un volume in 4.° di centocinquanta pagine circa, il quale in apposito elegante frontespizio figurato si intitolerà Antologia classica musicale.
La musique, par des inflexions vives, accentuées. et. pour ainsi dire. parlantes, exprimè toutes les passions, peint tous les tableaux, rend tous les objets, soumet la nature entière à ses savantes imitations, et porte ainsi jusqu’au coeur de l’homme des sentiments propres à l’émouvoir.

J. J. Rousseau.

Il prezzo dell’associazione annua alla Gazzetta e all’Antologia classica musicale è di Aust. lire. 24 anticipate. Pel semestre e pel trimestre in proporzione. L’affrancazione postale della sola Gazzetta per l’interno della Monarchia e per l’estero fino a confini è stabilita ad annue lire 4. — La spedizione dei pezzi di musica viene fatta mensilmente e franca di porto ai diversi corrispondenti dello Studio Ricordi, nel modo indicato nel Manifesto — Le associazioni si ricevono in Milano presso l’Ufficio della Gazzetta in casa Ricordi, contrada degli Omenoni N.° 1720; all’estero presso i principali negozianti di musica e presso gli Uffici postali. Le lettere, i gruppi, ec. vorranno essere mandati franchi di porto.


GRANDI COMPOSITORI

delle scuole

TEDESCA E FRANCESE.

CRISTOFORO GLUCK

I.

Sua riforma melodrammatica


......Toules les fois que la forme est préférée à la vie je reconnais la trace de l’école romaine; toutes les fois que la vie l’emporte sur la forme, je recoinnais l’influence du teutonisme».

Ph. Charles.


I grandi compositori, che variamente contribuirono ai migliori incrementi del melodramma, voglionsi dividere in due distinte categorie. Ad una di queste appartengono quei sommi pe’ quali la forza del pensiero, la meditazione e lo studio giovarono in gran parte a dar valore ai prodotti di fantasie ricche più o meno di splendide immagini. Nell’altra sono da annoverare quelle organizzazioni privilegiate cui la dovizia dei doni naturali, o per meglio dire istintivi, non rese tanto necessaria la mentale elaborazione che e’ non potessero rapire le moltitudini anche colla sola libera abbondanza delle idee e colla spontaneità degli ispirati canti. Salve diverse eccezioni, delle quali sarà fatto conto a suo tempo, i principali compositori della scuola tedesca vorrebbero essere classificati nella prima delle due suindicate categorie. Al genio italiano è incontrastato il vanto di avere gettato immenso splendore sulla scuola musicale cui diedero celebrità i grandi scrittori melodrammatici appartenenti alla seconda. Adunque da un lato gli Hasse, gli Haendel, i Bach, gli Haydn, i Gluck, e a1 tempi a noi più vicini, Beethowen, Mozart, Weber, Meyerbeer, Spoor, Mandelshon; dall’altro i Porpora, i Pergolesi, i Cimarosa, i Paisiello, e a’ giorni nostri Rossini, Bellini, Donizetti, Mercadante, Coccia, Pacini, ec. Nei primi la natura germanica col severo suo carattere tendente all’analisi psicologica e alle astrazioni; un non so che di vago e di fantastico nella audace manifestazione del pensiero; la mente che spiccando i suoi voli dai più intimi recessi dell’anima mira a spaziare nei liberi campi dell’ideale: nei secondi l’indole meridionale più vivace che meditativa, e tendente per naturale impulso alla purezza della forma, alla chiara eleganza de’ concetti, alla leggiadria della locuzione, e ricca di mezzi di pronta e facile emozione. A chi però con sapiente discernimento osservi quanto al presente anche le più brillanti fantasie musicali italiane, falle accorte che le arti non giungono mai a tanta altezza come allora quando, nelle loro creazioni, all’elemento poetico per eccellenza è accoppiata la forza del pensiero, siensi volte a studiare i capolavori della scuola oltremontana sotto il loro punto di vista veramente degno di meditazione ed abbiano tratto buon frutto dal loro studio; a chi rifletta alla evidente innegabile tendenza del vario genio musicale delle due sì diverse nazioni ad approssimarsi per mettere in comune ciò che l’uno ha di forte e di profondo con ciò che l’altro ha di vivace, di elegante e di sentito, si chiarirà di leggeri quanto sia opportuno che ad agevolare la grande fusione nei limiti convenienti, contribuir possa l’esame delle classiche Opere appartenenti alle due scuole, e principalmente lo studio di quegli autori che già assai prima d’ora a quella fusione cooperano non abbastanza avvertiti dalla critica. Oltre a ciò, da un simile ufficio si otterrà di distruggere non poche prevenzioni e pregiudizi! che tra noi tengono ancora in sospeso gli animi intorno al valore di molti nomi di compositori oltramontani, già consecrati a una incontestata immortalità nella loro patria, inanella nostra Italia poco meno che sconosciuti, o tutt’al più bisbigliati con timida venerazione da alcuni isolali studiosi, ai quali, sotto pena di incorrere taccia di pedantismo scentifico per parte degli indotti musicali, è perfino negato il far libero e aperto esercizio del loro culto. Il tempo delle esclusioni è ormai passato: dacché le società europee, mercè le agevolate comunicazioni materiali, hanno addotto a perfezione i modi di porre in comune e per conseguenza di assoggettare a inevitabil confronto il relativo patrimonio di genio e di sapere, non è più lecito a veruna di esse il ridersi della povertà delle altre e pretendere di vantare una superiorità qualunque, se prima non si è fatto precedere il coscienzioso e dotto sindacato delle rispettive ricchezze. - Ora vogliano i lettori accompagnarci nella nostra prima corsa biografica. Cristoforo Gluck nacque nel Palatinato da poveri genitori verso il 1716. Il padre di lui trasferitosi in Boemia ove si domiciliò, moriva poco dopo lasciando il figlio suo in tenera età e privo di beni di fortuna. Molto negletta sortì l’educazione di questo fanciullo, ma la natura gli aveva fatto il dono prezioso dell’i— stinto musicale. Si potè già notare in altro articolo di questa Gazzetta come il gusto per l’arte de’ suoni sia poco meno che comune in Germania (1), dove così nelle città come ne’ villaggi o nelle chiese o per le strade ti incontri in donne e fanciulli che cantano a parti combinate o suonano diversi stromenti. Il giovinetto Gluck imparò a suonare la maggior parte de’ stromenti senza soccorso veruno di maestro. Ei trascorreva di città in città accattando il pane col dar saggio del suo ingegno musicale, finché a Vienna potè apprendere i principii della composizione, e si dedicò a scrivere diverse musiche il cui buon esito lo incoraggiò a far studio di perfezionare al più possibile le naturali sue doti (2). Non ancora aveva tocco il ventesimo anno, allorachè si decise, nel 1736, a trasferirsi in Italia, questa nostra terra prediletta del cielo, alla quale quasi per irrevocabile fascino sono o tosto o tardi chiamati tutti gli ingegni privilegiati e distinti nella più affettuosa e popolare tra le arti imitative. Il giovine Gluck dopo quattro anni di studio si sentì atto a scrivere pel teatro. In questo pericoloso arringo ei produsse una prima sua Opera, e fu l'Artaserse, che venne eseguita sulle scene del maggior teatro della nostra Milano, ove circa novant’anni dopo doveva appunto manifestarsi colle prime sue più calde ispirazioni il compositore contemporaneo italiano, che più d’ogni altro educato aveva il proprio ingegno musicale sui capolavori di Gluck, e meditatene a fondo le alte bellezze drammatiche. Susseguentemente, nel 1742, l’autore dell’Artaserse fece succedere sulle medesime nostre scene una seconda Opera, e questa fu il Demoofonte; poi nel 1743 il Siface, e nel 1744 la Fedra. In pari tempo e nel corso di questi quattro anni furono da lui prodotte il Demetrio e l'Ipermestra a Venezia, l’Artamene a Crema, lAlessandro nelle Indie a Torino. Quasi dappertutto ebbero buon esito queste sue Opere e lo posero in ischiera co' primarii compositori del suo tempo. Invitato a recarsi a Londra, diede colà due Opere nel 1743. Tornò poi in Germania ove altre partizioni teatrali confermarono la fama di che già era insignito il suo nome. Ei fu in questo periodo di tempo che lo

(1) Vedi Articolo sulla Musica in Germania nei numeri 5 e 7. (2) Secondo il Bertini, il Gluck a’ 17 anni portatosi in Italia fu per un pezzo scolaro del. Sammartini in Milano. - Ma altri biografi non fanno cenno di questa circostanza. prese il desiderio vivissimo di riparare al diletto della sua educazione. Dotato dalla natura di indole poetica e persuaso che il solo istinto artistico non basta a guidare gli ingegni alle grandi creazioni, ma vuolsi la cultura dello spirito che lo sviluppi e lo aiuti nei suoi sforzi, ei si diede con molto ardore a procacciarsi quell'istruzione letteraria che a torto tanti moderni compositori reputano poco meno che superflua al loro stato, il quale essi considerano di questo modo come una professione materiale o poco più. Gluck non aveva la mente cosi piccola, e si dedicò con fervore allo studio di alcune lingue viventi non solo ma anche della latina, si procacciò l’amicizia e la relazione di parecchi distinti letterati del suo tempo, e alla loro conversazione ed alla lettura di molte classiche opere, attinse delle idee assai più vaste e ardite di quelle che fino al suo tempo eransi adottate dai pigri intelletti intorno al grande principio dell'unione della musica colla poesia. Mercè le sue dotte elucubrazioni ei non fu forse tardo ad avvisare come certe arie e certi pezzi d’effetto cui i compositori italiani del suo tempo e i loro esclusivi ammiratori consideravano come il più sublime prodotto della musica, mentre vantar potevano il solo prestigio dell’eleganza delle forme e della soavità della melodia, ad altro non eran buone che a velicare gradevolmente l’orecchio o tutt’al più a svegliare nell’animo delle deboli e inde terminiate emozioni. Allorché taluno gli faceva parola di qualche aria di voga che pur dicevasi patetica: «è graziosa senza dubbio, ei rispondeva; ma la non è cosa che rimescoli il sangue!» Riferiamo questo detto di Gluck perchè ne pare opportuno a tratteggiare l’indole speciale del robusto suo ingegno e il forte sentire che lo fece essere lo scrittore musicale più eminentemente tragico che mai finora si vanti nei fasti del melodramma. E noi ricordiamo ancora il fuoco e l’entusiasmo veramente artistico con cui l’autore della Norma, il quale un profondo studio aveva fatto delle partizioni di Gluck e meditatone l’alto e severo stile, manifestava il suo culto a quel genio potente attribuendo al medesimo il merito incomparabile d’avere scossa dalla sua languida mollezza la musa dei maestri del suo tempo troppo facili a blandire il gusto capriccioso e il sensualismo materiale della moltitudine. In parte oseremmo dire, fondati anche sull’opinione di Bellini da noi non dimenticata, che Gluck indusse nel melodramma tragico la medesima riforma cui l’Alfieri assoggettar volle la tragedia italiana tanto effeminata dai poveri imitatori del Trissino e del Maffei. Entrambi richiamar vollero lo stile alla severità energica, concisa, vibrata che meglio s’addice alla pittura delle passioni; entrambi, bandendo dalle forme gli oziosi riempitivi e i futili lenocinii, non mirarono che a dar robustezza ai loro concetti e a scuotere gli animi con impressioni rapide, continuate, incalzanti. Altri punti di rassomiglianza tra l’autore dell’Orfeo e dell'Alceste e il grande Astigiano noi non dubiteremmo di poter scontrare, se in questi cenni, anziché una notizia biografica risguardante le artistiche vicende di Gluck, noi ci fossimo proposto l’esame della tempra del suo ingegno. Nelle Opere che Gluck ebbe a scrivere per l’Italia, ben egli più di quanto si facesse per lo innanzi si era più o meno studiato ad esprimere nelle sue arie il senso delle parole e il carattere delle situazioni; ma solo in Inghilterra, ove gli spiriti più riflessivi parvero a lui più atti degli italiani ad accogliere e comprendere una simile riforma, accolse il primo pensiero di una musica veramente drammatica. E per avventura ei non si ingannava nel credere che il pubblico cui rapivano all’entusiasmo le meravigliose bellezze del teatro di Shakspeare avesse, meglio d’ogni altro, a comprendere ed apprezzare i suoi sforzi tendenti ad elevare l’arte musicale al vero splendore a lei serbato. E qui non crediamo inopportuno osservare che i maggiori veramente mirabili sviluppi del melodramma si effettuarono più liberi e vennero più prontamente accolti là dove, per la più perfetta civiltà e cultura della nazione, gli spiriti erano meglio educati alle grandi bellezze della letteratura drammatica. Weber, Beethowen, Mozart, questi grandi campioni del melodramma romantico non ebbero mai altrove tanto plauso come nella patria di Schiller e di Goethe: Rossini scrisse il Guglielmo Tell nell’epoca in cui Parigi possedeva più di mille autori drammatici, tra i quali Delavigne, Dumas e Vittore Hugo; l’Italia nostra cominciò a ingiugnere a’suoi compositori una più stretta osservanza dell'alta estetica teatrale dopo che nauseata dalle mollezze e dalle assurdità de’ librettisti metastasiani, educata da Alfieri, da Monti e da Foscolo ad un forte sentire, erasi venuta a poco a poco persuadendo che anche la scena musicale può essere elevata ad emulare i trionfi della musa tragica. - Ma tutto ciò sia detto per digressione, chè il pensiero da noi qui esposto di volo potrebbe di per sè solo essere tema a molte e molto importanti riflessioni. Ora proseguiamo con Gluck. Oltre le due Opere per iscrivere le quali era egli stato chiamato a Londra, un appaltatore, vilmente, avido di mettere a traffico l’ingegno del maestro da lui prezzolato, gli ingiugneva di scrivere un cosi detto Pasticcio, mosso dalla speranza di poter fare una buona speculazione sul capriccioso gusto della moltitudine che, a suo credere, sarebbe stata rapita da quella stolta profanazione. Ma per meglio comprendere ciò è duopo avvertire che per pasticcio intendevasi a’ tempi di Gluck una specie di azione lirica alla quale si veniano adattando alla meglio dei pezzi di musica già acclamati in altre Opere, e tolti da queste senza riguardo ad altro che al loro merito meramente musicale. Il perchè Gluck, (il quale forse in quell’occasione si trovò suo malgrado costretto dal bisogno di denaro a commettere quel delitto di lesa arte che a ’dì nostri molti compositori, ed anche de’ primi, considerano come la regola ordinaria della loro professione) scelse da tutti i suoi spartiti le arie che maggiori e più costanti applausi aveano ottenuto, e col migliore artifizio che potè le incastrò nel poema che gli era stato dato, e che se non isbagliammo versava sulla favola di Piramo e Tisbe. Se non che, come avviene talora che dal male nasce il bene, da codesta specie di atto vandalico ispirato non da altro che dalle strettezze del maestro forzato a far olocausto del suo buon senso alla mercenaria avidità dell’impresario, si originò in lui la convinzione più severa defluita importanza dell’arte sua. Alla rappresentazione dell’ingiuntogli sciagurato pasticcio egli ebbe a provar meraviglia forse non disgiunta da un segreto piacere a vedere come i pezzi che sì grande effetto prodotto avevano nelle Opere per le quali erano stati scritti, ne mancavano al tutto trasportati sopra altri concetti poetici, e applicati ad una diversa azione. Questo fatto che ad uno spirito mediocre non avrebbe detto nulla, fu come un lampo di luce al forte e meditativo suo ingegno. Ponderandolo attentamente ei venne a trarne per corollario quell’assioma dell’arte che noi al presente consideriamo come vieto e poco men che comune, ma la cui verità a’ giorni di Gluck a malapena era sospettata dai più eletti spiriti, e il volgo ignaro intravvedeva incerto e dubbioso: vai a dire che ogni musica per quanto musicalmente parlando possa giudicarsi bene composta ed elaborata, perde metà del suo pregio, se scritta che sia per la scena, non si accorda nel generale concetto e nell’espression parziale col senso drammatico della situazione eli ella deve colorire e degli affetti cui debbe prestare il suo linguaggio. Da questa prima deduzione ei scese ad altre di un significato non meno luminoso; non doversi cioè sperare di poter dare alla musica tutta la energia e il prestigio di che è suscettiva se non se in quanto ella si sposi ad una poesia animata e semplice che con verità dipinga de’ sentimenti naturali e ben determinati; potere la musica mutarsi in un linguaggio sensibile proprio a ritrarre tutti i movimenti del cuore umano, ma a ciò esser duopo che il canto segua esattamente il ritmo e gli accenti della parola e che gli stranienti die lo accompagnano concorrano colla loro espressione propria o a rinvigorire quella del canto od a contrastare con essa, secondoché è voluto dalla situazione e dalle parole". Intanto la sua già grande riputazione lo faceva richiamare in Italia. A Roma dava la Clemenza di Tito e l'Antigone nel 1756; scriveva la Clelia per l’apertura di un nuovo teatro; in seguito si trasferiva a Parma ove produceva Bauci e Filomene, e l'Aristeo. Nelle Opere or menzionate recò Gluck molto innanzi la riforma del suo stile. Ogni novella produzione della sua penna era un passo di più eli’ ei moveva sulla strada già tracciata nella sua mente. Però, ben egli sapeva che indarno sarebbesi adoperato a far compiuta la meditata rivoluzione musicale, se non collegavasi alla difficile impresa con un poeta che sapesse comprendere l’alta portata de’ suoi pensieri e fosse disposto ad assecondarlo e avesse la capacità e la dottrina necessarie a tanfi uopo. Era egli intimamente convinto che i poemi del nostro Metastasio, quantunque pieni delle maggiori bellezze, non solo per quanto è della poesia, ma ed anco per la verità e vivezza del dialogo, per il taglio di certe arie e in ispecie de’ duetti, pure non si prestavano all’ampio sviluppo dei grandi effetti tragicomusicali di cui egli credeva suscettivo il melodramma. E principalmente ci sentiva la necessità di intrecciare nell’azione i cori, e anzi appoggiar ad essi gran parte di questa; persuaso come era che nulla vi ha che meglio si presti alle grandi e forti ispirazioni della musica teatrale quanto i sentimenti manifestati a un sol tratto da una moltitudine di persone in istato di passione. Fu ventura eli’ ei si scontrasse col poeta Calzabigi, il quale, già pensato avendo da sè alle imperfezioni dell’Opera italiana, prestamente si penetrò de’ medésimi suoi principii, e fu oltremodo soddisfatto di poter giovare ad un compositore il quale si proponeva di addurre a compimento una clamorosa rivoluzione in una importantissima parte delia letteratura e delle Belle Arti. Mosso da questo nobile desiderio, il Calzatosi scrisse a Vienna i melodrammi l'Alceste, il Paride ed Elena e l'Orfeo, e il Gluck, perfettamente d’accordo con esso, intese a musicarli. Or dunque si noti che se la forte intelligenza di un alemanno compositore potò concepire la possibilità di alzare l’Opera in musica in un orizzonte di idee tutto nuovo e più splendido, a questo grande progresso di una forma dell’arte d’origine interamente italiana contribuì in molta parte anche il genio poetico dell’Italia che nel celebre amico e nel sagace critico di Alfieri non ebbe di certo un oscuro interprete. Meno ricchi di poesia dei melodrammi del Metastasio ma più felicemente combinati per la musica, i poemi del Calzabigi offrono delle situazioni tragiche del più grande effetto. E per vero ove trovare scene più acconcio alle ispirazioni di un compositore filosofo di quelle bellissime in cui Alceste consulta l’oracolo sulla sorte del suo sposo, e udito che solo col perire per esso ei sarà salvo, mossa da eroico affetto si propone di compire volontaria il magnanimo sagrifizio? Ove trovare un punto drammatico nel quale al maggior segno sia recato il contrasto dell’amore e del dolore come nella scena in cui Admeto, vedendo la sposa in preda a mortale mestizia, insiste per scoprirne la segreta cagione, e la tenera Alceste, che già si votò per lui ai mani infernali, si sforza a nascondergliela onde egli non abbia ad opporsi al grande suo atto? Ma anche a giudizio del sig. Fétis, nulla vi ha che in tal genere di poesia musicale possa reggere al confronto del magnifico quadro che offre il secondo atto dell’Orfeo. «Egli è appunto in questa seconda parte, dice il sullodato critico, che Gluck poggiò al maggior grado di sublimità cui giugnesse mai! El solo udire il primo motivo, lo spettatore già presente tutto l’effetto della scena che si svolgerà dinnanzi a lui. La perfetta gradazione osservata nelle sensazioni dei cori di demonii, la novità delle forme, e soprattutto la dolcezza ammirabile che domina in tutto il canto d’Orfeo, formano di questa scena un capolavoro che resisterà a tutti i capricci della moda e che sarà sempre considerato come una delle più belle produzioni del genio (1)». Ora per conto nostro vogliamo far osservare con quale sceltezza e sobrietà di mezzi sia in questo pezzo vivamente tratteggiato il carattere della scena in cui-si mescono e si alternano il patetico e il terribile. L’istromentazione robusta senza essere romorosa, energica senza abuso dei naturali effetti dell’orchestra, è pittoresca per eccellenza. Un non so che di truce e di selvaggio spira dall’insieme de’ cori delle furie e dalia musica delle loro danze infernali, di mezzo al qual cupo fragore si espande e si distacca con lieve e trasparente ricamo di note il soave e pietoso canto di Orfeo Sulle prime i demonii, cui egli supplica a volergli concedere il passo nell’Èrebo per trarne la moglie, gli si oppongono, ed è mirabile 1 effetto di quel ferale No ripetuto con tetra ostinatezza a interrompere i patetici accenti del supplicante; ma poi a poco a poco le patetiche melodie dello sposo di Euridice scuotono perfino quegli animi inesorati: il fragore ad arte irrequieto e in-

(1) Veggasi il pezzo che si unisce in partizione e che forma il N. 2 della nostra Antologia Classica Musicale.

sistente dei ritornelli stromentali si viene sedando; i latrati di Cerbero, espressi da un gruppo di note de’ violini e delle viole gittati ad una sola arcata, si tacciono. E vinta la lotta tra la natura infernale e il divino genio del canto; si aprono stridendo le porte degli abissi, cessa l’agitarsi minaccioso delle furie e pare quasi che coi movimenti più tranquilli della musica e coi meno aspri contrasti delle dissonanze armoniche abbia voluto il compositore esprimere quella interna soddisfazione che prova lo spettatore al vedere esaudite le pietose istanze del tracio cantore, e dipingere il gradato ritorno del silenzio letale che dominar deve nel soggiorno delle ombre. Questa aria con cori dell’Orfeo di Gluck per semplicità di fattura e grandiosità di concetto e forza di ispirazione è mirabile come una delle più belle scene di Sofocle, di Euripide o di Alfieri, come una delle più ispirate tele di Raffaello, come una pagina de' Martiri di Chateaubriand, come un Inno sacro di Manzoni! Felice la penna del critico, allorachè si incontra in simili temi! G. Battaglia.


TEODOSIO DHÖLER

Seconda accademia data nel Ridotto dellI. R. Teatro della Scala, la mattina del 20 corrente. Per comune consentimento in Italia, Francia ed Inghilterra Teodoro Dholer vien annoverato nel rango delle pianistiche sommità dell’epoca. Senza un merito trascendente non puossi aspirare ad un tanto onore. In fatto questo artista sommamente distinguesi tanto pel talento di esecuzione, quanto per le sue composizioni. E una doppia gloria che offre da registrarsi ne’ nostri fasti musico-stromentali. Egli al pianoforte non affetta alcuna di quelle attitudini preparate, alcuni di quei gesti di apparato, per cui non pochi concertisti dalla moltitudine l’ansi segnare a dito; con semplicità e senza affettazione, ponsi al prediletto istromento. Nelle prime battute sarebbesi quasi tentati supporre in lui una certa timidezza, ma poscia a poco a poco la sua esecuzione diviene animata, agile, energica, pomposa. Tratto tratto dimostra di saper cantare con soavità ed espressione, di cui ne sia una convincente prova l’elegante ed affettuosa maniera colla quale toccò il tema dellAnna Balena; in complesso però, come la maggior parte de’ pianisti-compositori, lasciasi predominare dalla smania di sorprendere, e ad un tale scopo sagrifica qualche volta la finitezza e la chiarezza, per sfoggiare di precipitose immani difficoltà di maneggio, in cui senza contrasto è veramente straordinario; di esse abbiamo già accennato nel N. A di questa Gazzetta. Come autore poi a noi sembra possa andar del paro de’ giovani suoi rivali, ma tanto a lui come agli altri, eccettuatone Chopin che batte una via meno popolare, ma assai più utile per l’arte, resta ancora un bello spazio a percorrere prima di raggiungere un’alta meta. Noi non professiamo molta stima pel genere a cui Listz e Tlialberg e loro imitatori di preferenza si sono esercitati: le fantasie, i capricci e le variazioni sopra temi favoriti sono sempre da considerarsi siccome un Melodramma per un’Operetta in musica composto dietro un poema. In tali pezzi non può esservi vera creazione e dove manca il fuoco ravvivatore dell’inventiva, che cosa è mai la musica?... Frattanto, astrazion fatta dal futile genere a cui appartengono, abbiansi le dovute lodi la Fantasia sull’Anna Bolena ed il Capriccio su M’Assedio di Corinto, insieme cogli eccellenti studii da Dholer meravigliosamente eseguiti nella mattina del 20 corrente. — La brillante fantasia, sulla melodica cavatina di Donizetti si apre con una magnifica introduzione, nella seconda pagina della quale la mano sinistra sola intuona un cantabile accompagnato da accordi, producenti l’effetto di uno squarcio a quattro mani; la terza variazione è pure assai notevole. - Al diffìcile capriccio sull’introduzione dell’Assedio di Corinto, senza dubbio si compete un ragguardevole posto fra le recenti composizioni da concerto; è di uno stile grandioso e degno de’ superbi concepimenti rossiniani su cui è basato. - Gli studii N. 9 ed ultimo della raccolta da Dholer dedicata a Berlioz, sono due differenti perle musicali di moltissimo valore. L’ultimo allegro a tempo ordinario in fa diesis interrotto da un andante grazioso a 6 e 8, indipendentemente dalle qualità scolastiche per cui denominasi anche trillo, serve assai bene di preparazione alla cadenza e di esercizio per incrocicchiare le braccia e per assicurarsi nei salti. Ommetteremo di parlare della riduzione dell’andante della Sonnambula, dell’esecuzione del finale della Lucia trascritto da Liszt, e della marcia ungarese: Dholer, sopprimendoli, sarebbesi risparmiato un’eccessiva e troppo prolungata fatica. Abbiamo riservato per ultimo il famoso set limino di Hummel, opera sublime per inspirazione e per scienza, che dir potrebbesi la più bella epopea della musica concertata per pianoforte ed altri istromenti. Se le produzioni colle quali i giovani pianisti moderni meravigliano l’Europa non si allontanassero di troppo dalle forme di questo classico capolavoro, ora tanto non si deplorerebbe il decadimento dell’arte in riguardo alla ragionata musica per pianoforte! Dholer nell'interpretare il primo tempo del settimi no, mostrò altrettanto di bravura, che ili buon gusto c sentire, e noi siamo stati trasportati in un incantevole estasi; ma nel finale, forse per motivi a lui estranei, non abbiamo potuto ammirare che la velocità nel trascorrere da un passo all’altro. Nel Ridotto della Scala il sommo pianista italiano piacque molto più che nella prima sua accademia al teatro, e ne’ singoli pezzi di sua composizione suscitò un indicibile entusiasmo nell’uditorio, composto dal fiore della società e del dilettantismo milanese. Per aderire al desiderio di molli. Dholer prima della sua partenza per Vienna annunziò una terza ed ultima accademia (1). C. (1) Questa ultima accademia ebbe in fatti luogo giovedì sera nell’I. R. Teatro alla Scala. Dholer in varj pezzi rinnovò le prestigiose sue prove sul pianoforte, c dovette replicare il bel divertimento sulla Saffo! - Il violinista Bazzini, felicemente espresse i canti dell’aria finale della Lucia, di cui gli uditori chiesero la replica, invece della quale i due valenti suonatori comparvero ad eseguire insieme il duo di Benedict e Beriot sulla Sonnambula, che fu meno applaudito dell’altro sulla Norma.


RASSEGNA MELODRAMMATICA

L'ODALINA del maestro NINI, il BELISARIO di DONIZETTI, ec., ec. (1)

Cominciamo con un complimento: la nuova Opera del maestro Nini è sparsa di buoni pensieri melodici se non in tutto peregrini, svolti però con sufficiente garbo. Ma certo (1) I. R. Teatro alla Scala, le sere del 19 a 22 febbraio, 1S42. sarebbe a desiderare che l’ingegno medesimo mostrato dal maestro a ben contornare alcuni periodi staccati e a dare venustà c grazia al disegno di molte cantilene gettate qua e là poco più che alla ventura, ei lo avesse posto a coordinare la forma dei pezzi in guisa che meno apparisse quel non so die di rotto e di scomposto che domina nella più parte di essi. Non è già che noi vogliamo porre in dubbio che il sig. Nini manchi di dottrina e non sappia insegnare a molti che cosa si debba intendere per bella e corretta fattura musicale di un’aria, di un duetto, di un terzetto... ma certamente nella sua nuova partizione non sapremmo trovare un solo pezzo le cui diverse membra si colleghino e si intreccino tra esse con quell’ordine, con quella chiarezza e nobile eleganza e severità di stile che fanno mirabili le composizioni de’ grandi maestri. Ed all’incontro non troveremmo difficile l’additarne parecchi ne’ quali le impreparate sospensioni e ritardi, i repentini passaggi di tuono e i troppo vicini mutamenti di tempo appaiono più presto necessitati da quella fluttuazione della fantasia e incertezza della scienza cui indarno accorre a sussidio il volgare artifizio degli effetti di convenzione. I pezzi melodrammatici che a nostro giudizio stanno più saldi contro ai rigori della critica, non sono già quelli ne’ quali vi ha una tal quale abbondanza di idee appena sbozzate, ed ove certe frasi melodiche quasi vergognose della loro magrezza si appiccicano in coda le une alle altre, non per logico sviluppo, ma solo per determinare una certa lunghezza e distribuzione, prestabilità di tempi, di cadenze, di piani e di forti, ed offrir modo al cantante di far bella mostra delle sue corde ec.; bensì quegli altri ne’ quali anche con due o tre soli pensieri più o meno nuovi si elabora da sè stesso e senza sforzo od intoppo il naturale svolgimento della composizione e si compisce nelle sue proporzioni più giuste. Si dirà che vogliamo dettare dei precetti, ma noi preghiamo ad avvertire che non facciamo che esprimere la nostra opinione; libero ad ognuno adottarla o respingerla. Se non abbiamo a congratularci coll’autore dell’Odalisa dell’aver dato prova di molto sapere nello stendere i suoi pezzi con disegno tutt’altro che corretto, tanto meno troviamo argomento a dargli lode di ciò che anzitutto vorremmo notare nelle composizioni di que’ maestri che si producono sulla gran scena della Scala; e vogliamo dire il carattere melodrammatico, ossia quella speciale impronta per cui le diverse parti di un’Opera, anziché distinguersi l’una dall’altra per un certo quale formalismo materiale, vogliono essere diversificate da una fisonomia tutta propria che debbe apparire ispirata alla fantasia del compositore dalla intenzione dominante nella scena cui egli appone la musica. Per amore del vero però è a dire che in qualche pezzo, p. e., nel primo coro de' Zingari, il signor Nini lascia scorgere di avere tentato questa specie di effetto, ad ottenere il quale il maestro non dee accontentarsi di lasciar correre giù dalla penna i pensieri tali e quali si affacciano alla sua immaginazione, ma è duopo che colla meditazione soccorra a determinare se più o meno si convengono a quel dato punto scenico e se si assimilano perfettamente al concetto del poeta. I grandi capolavori musicali dell’età nostra, que’ pochissimi cui è riserbata una durevole fama, sono principalmente distinti per quest’importante pregio, c ciò clic in essi più si ammira è l’impronta caratterista ingiunta al tutt’insieme dall’indole del soggetto drammatico e dai rapporti di tempo, di luogo, di costumi, ec., cui il fatto è riferito, e alle singole parti dalle condizioni peculiari di ciascuna scena, dalla varia natura e umore de’ personaggi, dal vario contrasto d’azione in che son posti tra essi, ecc. Veggansi il Don Giovanni di Mozart, il Mosè, il Guglielmo Tell di Rossini, gli Ugonotti, il Roberto il Diavolo di Mayerbeer,ec.;e per scendere un tantino più basso osserviamo le due nuove Opere che di fresco furono date sulle nostre scene: la Maria Padilla e la Saffo: nell’una e nell’altra gli illustri maestri si curarono anzitutto di dare una tinta caratteristica ai diversi pezzi, e di modificare i diversi movimenti della loro immaginativa a seconda delle varie impressioni che doveano svegliare nello spirito dello spettatore. E quanto al signor Pacini in particolare, se a giudizio de’ buoni conoscenti, dalle ultime sue Opere udite alla Saffo segnò un passo gigantesco sulla via che guida ad una celebrità non effimera, a che cosa altro il deve se non allo studio posto, non solo di far cantare più o meno gradevolmente i suoi attori, ma sì di farli cantare nè più nè meno al modo che si richiedeva dalle qualità distintive del soggetto offertogli dal poeta, così che ottenne di imprimere al suo bel lavoro una fisonomia propria, e per la quale non si confonderà con tante altre Opere della giornata scritte senza meditazione e buttate giù all’infretta per soddisfare la grande brama di novità musicali clic agita il pubblico italiano. Forse anche il signor Nini subì l’influenza di questa dannosa condizione in che troppo spesso sono posti i nostri meno oscuri maestri; o fors’anco il libro gli si offriva povero di intenzioni drammatiche ben determinate e svolte con pensato e non apparente artifizio. Diremo a questo proposito che il signor Sacchéro è giovine di bell’ingegno, ma od inganniamo a gran partito, o ne sembra che non siasi ancora formata una giusta idea delle condizioni poetiche che voglionsi curare anzitutto in un’azione acciocché si presti felicemente ai grandi e svariati effetti della composizione musicale. A provare per esteso quanto qui affermiamo si vorrebbe un apposito articolo, e al caso non mancheremmo di stenderlo: ora ne basti accennare, per esempio, che dal carattere di Albo avrebbe potuto il poeta trarre molto miglior partito e per l’interesse del dramma e per quello della musica solo che si fosse studiato di conservarlo sotto quella sembianza di semiselvaggia fierezza e di appassionatezza rozza ma caratteristica di che seppe improntarlo nelle prime scene. Anche la maestosa figura di Giovanna, che sì drammatica si presenta nella storia, mancò poco meno che del tutto sotto il pennello incerto ma pur brillante del signor Sacchéro; non parliamo di Odalisa la protagonista, che per verità in questo melodramma (il cui soggetto ne pare richiami alla memoria la Maria Tudor di V. Hugo ) è poco meno che passiva. Questi sono difetti importanti in un libro per musica, perchè lasciano indeciso il maestro, al quale non rimane che la meschina risorsa di attaccarsi ai piccoli effetti melodici, e al ripiego delle casuali sortite de’ cantanti, più o meno buone secondo che sono più o meno felici e caldamente ispirati i parziali slanci della dizione poetica e l’incalzar del dialogo. Pregi di questa seconda qualità non ne mancano nella Odalisa del giovine Sacchéro, e ciò ai poveri tempi che corrono pel melodramma italiano, è pur qualche cosa. Delle locuzioni scorrette, e delle figure rettoriche un po’ strane, noi non crediamo necessario occuparci sul serio perchè sono più proprie del dominio della critica meramente letteraria. Si dirà che queste nostre osservazioni sono troppo sottili e sofistiche, ma a nostro giudizio, trattandosi di un’Opera nuova che si produce sulle scene di uno dei primi teatri del mondo, non sono mai sovverchic le esigenze. Se avessimo ad occuparci delle nuove partizioni che si scrivono per le piccole scene de’ teatri delle province e delle borgate, lasceremmo da un lato la severa critica estetica che ci siamo ingegnali di adoperare coll’egregio signor Nini e col suo bravo collega il Sacchéro, e forse ci acconteremmo di notare la minore o maggior bontà de’ motivi e delle cantilene, e d’altre simili futilità delle quali ogni menomo compositoruzzo che sappia rubare nelle vecchie partiture c nelle composizioni stromentali non note al pubblico, può fare sfoggio dal più al meno. - Ma il nostro è un caso ben diverso, e ciò diciamo per far onore ai nostri criticati. Ripetasi lo stesso press’a poco nel proposito de’ signori cantanti di quest’Opera. Dacché ci si appresentano sul vasto palco dell’illustre nostro teatro abbiamo diritto di pretendere qualche cosa di più che non due o tre felici sortite, otto o dieci frasi melodiche modulate con grazia, o se volete anche un intero andantino, una cabaletta, una cadenza o che so io, cantati con gusto e buon metodo... E in proposito dell’Odalisa chi pigli a lodare per queste menome cose il tenore sig. Saivi, la signora Abbadia, la signora Brambilla, ec. che altro farebbe se non impiccolire la loro importanza di attori cantanti di primo rango? Vorremmo avere potuto udirli un per uno nella interpretazione sentita e pensata di parti concepite con filosofia e con estro dal poeta e dal compositore (come, p. e., è il caso del Belisario) e allora non avremmo scrupolo di abbondare di larghi elogi ! A ciò s’aggiunga che per la buona esecuzione di un Opera anche cattiva non bastano le belle sortite parziali e isolate or dell’uno or dell’altro cantante, ma si vuole il beninsieme, l’accordo perfetto, l’intelligente concertazione!... E in tal proposito quanto alla prima recita dell’Odalisa ci si permetta un profondo silenzio. Il Belisario dell’illustre nostro Donizetti vuolsi annoverare tra le poche Opere italiane che in questi ultimi tempi potemmo veder concepite con vigoroso proposito drammatico musicale. Se questa Opera non fosse già da un pezzo in proprietà del Teatro, vorremmo assoggettarla ad una parziale analisi, nella quale crederemmo agevole far manifesta la verità di quanto abbiamo detto altra volta parlando del medesimo Donizetti, che, cioè, le ispirazioni del compositore sono sempre vive, originali e caratteristiche in ragione diretta delia maggiore o minore portata poetica del concetto offerto alla sua fantasia dall’estro del drammaturgo. Fors’anco troveremmo a notare alcune negligenze, alcune trascuranze di effetto, e diversi punti scenici trattati alla sbadata, e ne’ quali l’austerità di stile rigidamente osservata ne’ pezzi principali è al tutto perduta di vista. Ma tutta la parte di Belisario, il vecchio eroe romano che dai trionfali clamori della gloria guerriera, vittima di un viluppo di impreveduti casi, piomba nella sventura, e, cieco, errante per deserti paesi, non ha che i teneri affetti di una figlia che lo conforti nel doloroso abbandono, indi tardi vendicato spira all’ombra delle bandiere imperiali da lui guidale tante volte alla vittoria, tutta questa bellissima parte è svolta con molla filosofia c colorita con quella savia abbondanza di pensieri musicali che costituisce l’unità nella varietà, importante canone sì poco osservato nelle Arti imitative. Per una parte sì pensatamente concepita vuolsi un cantante di primo valore che a tutto il prestigio del musicale linguaggio sappia accoppiare quello dell’azione. il signor Ronconi non è il primo artista che tra noi rappresenti il carattere di Belisario, le diverse modificazioni psicologiche del quale già altri prima di lui mirabilmente interpretò. In quali punti egli superasse il suo antecessore, c in quali altri rimanesse forse al dì sotto, si dirà in altro apposito articolo se l’abbondanza delle materie ce ne lascierà il luogo. Ne basti intanto accennare che i movimenti di affetto, non che tutte le frasi nelle quali richiedesi vigore di pittoresca espressione, furono da lui molto vivamente colorite. È vano il dire dell’eleganza e purezza del suo canto; in questo proposito speciale, che in una parte come quella di Belisario è di necessaria ma non principale importanza, si può essere certi che il signor Ronconi non manca mai. L’egregio Donzelli, artista dotato di qualità tutt'altro che comuni ai giorni nostri, ha interpretata con molta energia (talora anzi forse sovverchia) la parte appassionata del giovinetto guerriero che Belisario reputa il solo degno di raccogliere la vittoriosa sua spada. Con artifizio superiore ad ogni lode egli sa nascondere la poca flessibilità di una voce di tenore se non freschissima, certo piena di colorito e di vigore. La signora Brambilla nell’affettuosa e tenera parte di Irene trovò delle tinte piene di garbo, e ricordò i suoi giorni più felici. Desideriamo di aver presto argomento d’intrattenerci a lungo della signora Strepponi, cui finora il pubblico non fu nè doveva essere largo de’ suoi favori. B.

BIBLIOGRAFIA MUSICALE

COMPOSIZIONI DI ANTONIO BAZZINI

ART. II (1).

Musica Vocale.


Il sig. Bazzini fino al presente non fece di pubblico diritto, in genere di musica vocale, che sei composizioni da camera. Il Gondoliero, La Sera, All’Amica lontana, Barcarola Impromptu, La Melanconia, L’Amo e il Bacio sono i titolari di questi sei componimenti, ne’ quali tutti riscontrasi giusta conoscenza di canto, retta espressione della parola, sufficiente originalità e costante eleganza. Come nella musica istromentale, da noi già accennata in altro articolo, così pure in questa, trascorreva un bel tratto di tempo, principalmente dalle prime alle ultime di queste Romanze, ed anche in questo caso appare nelle prime due l’incertezza del fare e la troppa apparente imitazione di Bellini più che d’altri; ma a contare dalla terza in avanti si chiarisce sempre più evidente Io sviluppo pieno di idee proprie e non comuni. Tuttavolta riscontriamo anche nella prima una cantilena sparsa di una omogenea melanconia e nella seconda un canto dolce e ritraente con giustezza il significato della parola. Ma vuolsi osservare nella terza molto maggiore finitezza; e in essa oltre un canto assai pieno d’espressione sono a lodarsi gli accompagnamenti, per altro forse più convenienti ad un complesso di stromenti d’arco che non al pianoforte. La quarta che è la Barcarola Impromptu, la quale se non è, deve almeno dal suo titolo supporsi improvvisata, è a nostro giudizio la più gentile e spontanea fra tutte queste sei composizioni. La cantilena è suffusa di una tinta pressoché aerea, e l’accompagnamento molto più accurato di quanto ad un improvviso si convenga, le presta grandissimo risalto. E questa davvero una cara Barcarola. Anche la romanza La Melanconia ha il pregio di molto sentita espressione, ma oseremmo giudicarla mancante di quella unità o piuttosto condotta di pensiero che abbiam dovuto condannare anche in alcune opere istrumentali del medesimo sig. Bazzini. Inoltre l’accompagnamento è pochissimo variato, sicché induce una tal quale monotonia nell’insieme del pezzo. Quanto alla tessitura vocale, sembra a noi che la si elevi un po’ di troppo nell’ultimo maggiore, che pure si abbellisce di una gradevole melodia. Non ci gradirono gran fatto i bassi dell’ultimo rigo della 4.a pagina che ne parvero poco felici. L’ultimo di questi sci pezzi si è il Duettino lAmo e il Bacio, il quale ne pare non sia da stimarsi da meno degli altri per vaghezza di melodie, d’armonia d’accompagnamento, ma dobbiamo confessare che in esso ci parve stucchevole la replica ostinata di que’ due versi Vieni coll’amo al margine I pesci a depredar, i quali sono, senza esagerazione, da ambe le parti cantanti, replicati una trentina di volte almeno. Di certo ella è questa una astrazione imperdonabile, non fosse altro per la semplice ragione che il pezzo ne riceve un effetto quasi ridicolo, sebbene per buona e corretta composizione potrebbe a buon diritto giudicarsi tutt’altro. Ponendo ora da un lato il pungolo della critica, ci sia lecito osservare che nessuno de’ nostri contemporanei istrumentisti trattò il canto con un fare così sicuro, e che ove piaccia al Bazzini dedicarsi a cose anche di maggior rilievo, certo egli il potrà, come colui che nelle or lodate composizioni ne diede saggio non dubbio di un ingegno atto a più maschi e vasti concepimenti.

A.M.

(1) Vedi il N. 7 di questa Gazzetta.


NOTIZIE VARIE.

— Soavi pochi esempj di una voga simile a quella ottenuta dai Venticinque studj progressivi diligentemente digitati per pianoforte, composti da Francesco Hunten. Coloro che già li conoscono s’accordano tutti nell’apprezzare la rara utilità di questi eccellenti Studj.
- Anche il celebre Bertini sta per pubblicare una nuova Opera di Studj che tutti quelli che si esercitano sul pianoforte vorranno procurarsi: tanto il nome dell’autore per siffatto genere di musica didascalica è benemerito all’arte.
— Varj giornali parigini confermano la notizia della nomina del maestro Auber alla direzione del Conservatorio di Parigi. Il ministro accettando la demissione di Cherubini, come già sidisse, ha nominato l’illustre compositorea commendatore dell’ordine reale della Legion d’onore. È il primo caso che un maestro di musica in Francia abbia ricevuto una tale onorifica distinzione.
Vienna. La piccola sorella dell’acclamata fanciulla pianista Sofia Bòhrer ne’passati giorni fu oggetto di singolare stupore. Questa bambina di circa sei anni in varie società suonò alcuni pezzi sul pianoforte con una granitura, facilità e sicurezza veramente miracolose. Il primo concerto del rinomato pianista Dhòler è quivi già annunziato per la mattina del giorno 10 Marzo nella sala del Conservatorio.

Madrid. Dopo che Fétis pubblicò la sua Rivista musicale ad imitazione della Gazzetta di Lipsia, nella maggior parte delle capitali d’Europa sorsero de’ giornali di musica. Da qualche tempo anche a Madrid compare un foglio intitolato, La Iberia musical che sembra redatto con mire assai lodevoli e chiamalo a render degli importanti scrvizj alla musica in quel paese.

Berlino. Quella università ha insignito Listz del titolo di Dottore in musica.


GIOVANNI RICORDI

EDITORE- PROPRIETARIO.

NB. Si unisce a questo foglio il pezzo N. 2 dell'ANTOLOGIA CLASSICA MUSICALE.


Dall'I.R. Stabilimento Nazionale Privilegiato di

Calcografia, Copisteria e Tipografia Musicale di GIOVANNI RICORDI.

Contrada degli Omenoni N. 1720

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