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GAZZETTA MUSICALE | ||
N. 9 |
DOMENICA |
DI MILANO |
J. J. Rousseau.
GRANDI COMPOSITORI
delle scuole
TEDESCA E FRANCESE.
CRISTOFORO GLUCK
I.
Sua riforma melodrammatica
......Toules les fois que la forme est préférée à la vie je reconnais la trace de l’école romaine; toutes les fois que la vie l’emporte sur la forme, je recoinnais l’influence du teutonisme».
Ph. Charles.
I grandi compositori, che variamente
contribuirono ai migliori
incrementi del melodramma,
voglionsi dividere in
due distinte categorie.
Ad una di queste appartengono quei
sommi pe’ quali la forza del pensiero, la
meditazione e lo studio giovarono in gran
parte a dar valore ai prodotti di fantasie
ricche più o meno di splendide immagini.
Nell’altra sono da annoverare quelle organizzazioni
privilegiate cui la dovizia dei
doni naturali, o per meglio dire istintivi,
non rese tanto necessaria la mentale elaborazione
che e’ non potessero rapire le
moltitudini anche colla sola libera abbondanza
delle idee e colla spontaneità degli ispirati
canti. Salve diverse eccezioni, delle quali
sarà fatto conto a suo tempo, i principali compositori
della scuola tedesca vorrebbero essere
classificati nella prima delle due suindicate
categorie. Al genio italiano è incontrastato
il vanto di avere gettato immenso
splendore sulla scuola musicale cui diedero
celebrità i grandi scrittori melodrammatici
appartenenti alla seconda. Adunque da
un lato gli Hasse, gli Haendel, i Bach,
gli Haydn, i Gluck, e a1 tempi a noi più
vicini, Beethowen, Mozart, Weber, Meyerbeer,
Spoor, Mandelshon; dall’altro i Porpora,
i Pergolesi, i Cimarosa, i Paisiello,
e a’ giorni nostri Rossini, Bellini, Donizetti,
Mercadante, Coccia, Pacini, ec. Nei primi la natura
germanica col severo suo carattere tendente
all’analisi psicologica e alle astrazioni;
un non so che di vago e di fantastico nella
audace manifestazione del pensiero; la mente
che spiccando i suoi voli dai più intimi
recessi dell’anima mira a spaziare nei liberi
campi dell’ideale: nei secondi l’indole
meridionale più vivace che meditativa, e
tendente per naturale impulso alla purezza
della forma, alla chiara eleganza de’ concetti, alla leggiadria della locuzione, e ricca
di mezzi di pronta e facile emozione.
A chi però con sapiente discernimento
osservi quanto al presente anche le più brillanti
fantasie musicali italiane, falle accorte
che le arti non giungono mai a tanta altezza
come allora quando, nelle loro creazioni,
all’elemento poetico per eccellenza
è accoppiata la forza del pensiero, siensi
volte a studiare i capolavori della scuola
oltremontana sotto il loro punto di vista
veramente degno di meditazione ed abbiano
tratto buon frutto dal loro studio; a chi rifletta
alla evidente innegabile tendenza del
vario genio musicale delle due sì diverse nazioni
ad approssimarsi per mettere in comune
ciò che l’uno ha di forte e di profondo
con ciò che l’altro ha di vivace, di elegante
e di sentito, si chiarirà di leggeri
quanto sia opportuno che ad agevolare
la grande fusione nei limiti convenienti,
contribuir possa l’esame delle classiche
Opere appartenenti alle due scuole, e principalmente
lo studio di quegli autori che
già assai prima d’ora a quella fusione cooperano non
abbastanza avvertiti dalla critica.
Oltre a ciò, da un simile ufficio si otterrà
di distruggere non poche prevenzioni e pregiudizi!
che tra noi tengono ancora in sospeso
gli animi intorno al valore di molti
nomi di compositori oltramontani, già consecrati
a una incontestata immortalità nella
loro patria, inanella nostra Italia poco meno
che sconosciuti, o tutt’al più bisbigliati con
timida venerazione da alcuni isolali studiosi,
ai quali, sotto pena di incorrere taccia di
pedantismo scentifico per parte degli indotti
musicali, è perfino negato il far libero
e aperto esercizio del loro culto.
Il tempo delle esclusioni è ormai passato:
dacché le società europee, mercè le agevolate
comunicazioni materiali, hanno addotto
a perfezione i modi di porre in comune
e per conseguenza di assoggettare a
inevitabil confronto il relativo patrimonio
di genio e di sapere, non è più lecito a
veruna di esse il ridersi della povertà delle
altre e pretendere di vantare una superiorità
qualunque, se prima non si è fatto precedere
il coscienzioso e dotto sindacato delle
rispettive ricchezze. - Ora vogliano i lettori
accompagnarci nella nostra prima corsa
biografica.
Cristoforo Gluck nacque nel Palatinato
da poveri genitori verso il 1716. Il padre
di lui trasferitosi in Boemia ove si
domiciliò, moriva poco dopo lasciando il
figlio suo in tenera età e privo di beni
di fortuna. Molto negletta sortì l’educazione
di questo fanciullo, ma la natura
gli aveva fatto il dono prezioso dell’i—
stinto musicale. Si potè già notare in altro
articolo di questa Gazzetta come il gusto
per l’arte de’ suoni sia poco meno che
comune in Germania (1), dove così nelle
città come ne’ villaggi o nelle chiese o per
le strade ti incontri in donne e fanciulli
che cantano a parti combinate o suonano
diversi stromenti. Il giovinetto Gluck imparò
a suonare la maggior parte de’ stromenti
senza soccorso veruno di maestro.
Ei trascorreva di città in città accattando
il pane col dar saggio del suo ingegno
musicale, finché a Vienna potè apprendere
i principii della composizione, e si
dedicò a scrivere diverse musiche il cui
buon esito lo incoraggiò a far studio di
perfezionare al più possibile le naturali sue
doti (2). Non ancora aveva tocco il ventesimo
anno, allorachè si decise, nel 1736, a
trasferirsi in Italia, questa nostra terra prediletta
del cielo, alla quale quasi per irrevocabile
fascino sono o tosto o tardi chiamati
tutti gli ingegni privilegiati e distinti
nella più affettuosa e popolare tra le arti
imitative.
Il giovine Gluck dopo quattro anni di
studio si sentì atto a scrivere pel teatro.
In questo pericoloso arringo ei produsse
una prima sua Opera, e fu l'Artaserse, che
venne eseguita sulle scene del maggior teatro
della nostra Milano, ove circa novant’anni
dopo doveva appunto manifestarsi
colle prime sue più calde ispirazioni il compositore
contemporaneo italiano, che più
d’ogni altro educato aveva il proprio ingegno
musicale sui capolavori di Gluck, e meditatene
a fondo le alte bellezze drammatiche.
Susseguentemente, nel 1742, l’autore dell’Artaserse
fece succedere sulle medesime
nostre scene una seconda Opera, e questa
fu il Demoofonte; poi nel 1743 il Siface,
e nel 1744 la Fedra. In pari tempo
e nel corso di questi quattro anni furono
da lui prodotte il Demetrio e l'Ipermestra
a Venezia, l’Artamene a Crema, lAlessandro
nelle Indie a Torino. Quasi dappertutto
ebbero buon esito queste sue Opere
e lo posero in ischiera co' primarii compositori
del suo tempo. Invitato a recarsi
a Londra, diede colà due Opere nel 1743.
Tornò poi in Germania ove altre partizioni
teatrali confermarono la fama di che già
era insignito il suo nome.
Ei fu in questo periodo di tempo che lo
(1) Vedi Articolo sulla Musica in Germania nei numeri
5 e 7.
(2) Secondo il Bertini, il Gluck a’ 17 anni portatosi
in Italia fu per un pezzo scolaro del. Sammartini in Milano.
- Ma altri biografi non fanno cenno di questa circostanza. prese il desiderio vivissimo di riparare al diletto
della sua educazione. Dotato dalla natura
di indole poetica e persuaso che il solo
istinto artistico non basta a guidare gli ingegni
alle grandi creazioni, ma vuolsi la cultura
dello spirito che lo sviluppi e lo aiuti nei
suoi sforzi, ei si diede con molto ardore
a procacciarsi quell'istruzione letteraria che
a torto tanti moderni compositori reputano
poco meno che superflua al loro stato, il
quale essi considerano di questo modo come
una professione materiale o poco più. Gluck
non aveva la mente cosi piccola, e si
dedicò con fervore allo studio di alcune
lingue viventi non solo ma anche della
latina, si procacciò l’amicizia e la relazione
di parecchi distinti letterati del suo
tempo, e alla loro conversazione ed alla lettura
di molte classiche opere, attinse delle
idee assai più vaste e ardite di quelle che
fino al suo tempo eransi adottate dai pigri
intelletti intorno al grande principio
dell'unione della musica colla poesia. Mercè
le sue dotte elucubrazioni ei non fu forse
tardo ad avvisare come certe arie e certi
pezzi d’effetto cui i compositori italiani
del suo tempo e i loro esclusivi ammiratori
consideravano come il più sublime prodotto
della musica, mentre vantar potevano
il solo prestigio dell’eleganza delle forme e
della soavità della melodia, ad altro non
eran buone che a velicare gradevolmente
l’orecchio o tutt’al più a svegliare nell’animo
delle deboli e inde terminiate emozioni.
Allorché taluno gli faceva parola di qualche
aria di voga che pur dicevasi patetica:
«è graziosa senza dubbio, ei rispondeva;
ma la non è cosa che rimescoli il sangue!»
Riferiamo questo detto di Gluck perchè
ne pare opportuno a tratteggiare l’indole
speciale del robusto suo ingegno e il forte
sentire che lo fece essere lo scrittore musicale
più eminentemente tragico che mai
finora si vanti nei fasti del melodramma.
E noi ricordiamo ancora il fuoco e l’entusiasmo
veramente artistico con cui l’autore
della Norma, il quale un profondo
studio aveva fatto delle partizioni di
Gluck e meditatone l’alto e severo stile,
manifestava il suo culto a quel genio potente
attribuendo al medesimo il merito incomparabile
d’avere scossa dalla sua languida
mollezza la musa dei maestri del
suo tempo troppo facili a blandire il gusto
capriccioso e il sensualismo materiale
della moltitudine. In parte oseremmo dire,
fondati anche sull’opinione di Bellini da
noi non dimenticata, che Gluck indusse
nel melodramma tragico la medesima riforma
cui l’Alfieri assoggettar volle la tragedia
italiana tanto effeminata dai poveri
imitatori del Trissino e del Maffei. Entrambi
richiamar vollero lo stile alla severità
energica, concisa, vibrata che meglio
s’addice alla pittura delle passioni; entrambi,
bandendo dalle forme gli oziosi riempitivi
e i futili lenocinii, non mirarono che a dar
robustezza ai loro concetti e a scuotere gli
animi con impressioni rapide, continuate,
incalzanti. Altri punti di rassomiglianza tra
l’autore dell’Orfeo e dell'Alceste e il grande
Astigiano noi non dubiteremmo di poter
scontrare, se in questi cenni, anziché una
notizia biografica risguardante le artistiche
vicende di Gluck, noi ci fossimo proposto
l’esame della tempra del suo ingegno.
Nelle Opere che Gluck ebbe a scrivere
per l’Italia, ben egli più di quanto si facesse
per lo innanzi si era più o meno
studiato ad esprimere nelle sue arie il
senso delle parole e il carattere delle situazioni;
ma solo in Inghilterra, ove gli
spiriti più riflessivi parvero a lui più atti
degli italiani ad accogliere e comprendere
una simile riforma, accolse il primo pensiero
di una musica veramente drammatica.
E per avventura ei non si ingannava
nel credere che il pubblico cui rapivano
all’entusiasmo le meravigliose bellezze del
teatro di Shakspeare avesse, meglio d’ogni
altro, a comprendere ed apprezzare i suoi
sforzi tendenti ad elevare l’arte musicale
al vero splendore a lei serbato.
E qui non crediamo inopportuno osservare
che i maggiori veramente mirabili sviluppi
del melodramma si effettuarono più
liberi e vennero più prontamente accolti
là dove, per la più perfetta civiltà e cultura
della nazione, gli spiriti erano meglio
educati alle grandi bellezze della letteratura
drammatica. Weber, Beethowen,
Mozart, questi grandi campioni del melodramma
romantico non ebbero mai altrove
tanto plauso come nella patria di Schiller
e di Goethe: Rossini scrisse il Guglielmo
Tell nell’epoca in cui Parigi possedeva
più di mille autori drammatici, tra i quali
Delavigne, Dumas e Vittore Hugo; l’Italia
nostra cominciò a ingiugnere a’suoi compositori
una più stretta osservanza dell'alta estetica teatrale dopo che nauseata
dalle mollezze e dalle assurdità de’ librettisti
metastasiani, educata da Alfieri, da
Monti e da Foscolo ad un forte sentire,
erasi venuta a poco a poco persuadendo
che anche la scena musicale può essere
elevata ad emulare i trionfi della musa tragica.
- Ma tutto ciò sia detto per digressione,
chè il pensiero da noi qui esposto
di volo potrebbe di per sè solo essere tema
a molte e molto importanti riflessioni.
Ora proseguiamo con Gluck.
Oltre le due Opere per iscrivere le quali
era egli stato chiamato a Londra, un appaltatore,
vilmente, avido di mettere a traffico
l’ingegno del maestro da lui prezzolato,
gli ingiugneva di scrivere un cosi detto Pasticcio,
mosso dalla speranza di poter fare
una buona speculazione sul capriccioso gusto
della moltitudine che, a suo credere,
sarebbe stata rapita da quella stolta profanazione.
Ma per meglio comprendere ciò
è duopo avvertire che per pasticcio intendevasi
a’ tempi di Gluck una specie di azione
lirica alla quale si veniano adattando alla
meglio dei pezzi di musica già acclamati in
altre Opere, e tolti da queste senza riguardo
ad altro che al loro merito meramente musicale.
Il perchè Gluck, (il quale forse in
quell’occasione si trovò suo malgrado costretto
dal bisogno di denaro a commettere
quel delitto di lesa arte che a ’dì nostri molti
compositori, ed anche de’ primi, considerano
come la regola ordinaria della loro
professione) scelse da tutti i suoi spartiti
le arie che maggiori e più costanti applausi
aveano ottenuto, e col migliore artifizio che
potè le incastrò nel poema che gli era stato
dato, e che se non isbagliammo versava sulla
favola di Piramo e Tisbe. Se non che,
come avviene talora che dal male nasce il
bene, da codesta specie di atto vandalico
ispirato non da altro che dalle strettezze
del maestro forzato a far olocausto del suo
buon senso alla mercenaria avidità dell’impresario,
si originò in lui la convinzione
più severa defluita importanza dell’arte sua.
Alla rappresentazione dell’ingiuntogli sciagurato
pasticcio egli ebbe a provar meraviglia
forse non disgiunta da un segreto
piacere a vedere come i pezzi che sì grande
effetto prodotto avevano nelle Opere per
le quali erano stati scritti, ne mancavano
al tutto trasportati sopra altri concetti poetici,
e applicati ad una diversa azione. Questo
fatto che ad uno spirito mediocre non
avrebbe detto nulla, fu come un lampo di
luce al forte e meditativo suo ingegno. Ponderandolo
attentamente ei venne a trarne
per corollario quell’assioma dell’arte che
noi al presente consideriamo come vieto e
poco men che comune, ma la cui verità
a’ giorni di Gluck a malapena era sospettata
dai più eletti spiriti, e il volgo ignaro
intravvedeva incerto e dubbioso: vai a dire
che ogni musica per quanto musicalmente
parlando possa giudicarsi bene composta ed
elaborata, perde metà del suo pregio, se
scritta che sia per la scena, non si accorda
nel generale concetto e nell’espression parziale
col senso drammatico della situazione
eli ella deve colorire e degli affetti cui debbe
prestare il suo linguaggio. Da questa prima
deduzione ei scese ad altre di un significato
non meno luminoso; non doversi cioè
sperare di poter dare alla musica tutta la
energia e il prestigio di che è suscettiva
se non se in quanto ella si sposi ad una
poesia animata e semplice che con verità
dipinga de’ sentimenti naturali e ben determinati;
potere la musica mutarsi in un
linguaggio sensibile proprio a ritrarre tutti
i movimenti del cuore umano, ma a ciò
esser duopo che il canto segua esattamente
il ritmo e gli accenti della parola e che gli
stranienti die lo accompagnano concorrano
colla loro espressione propria o a rinvigorire
quella del canto od a contrastare con
essa, secondoché è voluto dalla situazione
e dalle parole".
Intanto la sua già grande riputazione lo
faceva richiamare in Italia. A Roma dava la
Clemenza di Tito e l'Antigone nel 1756;
scriveva la Clelia per l’apertura di un nuovo
teatro; in seguito si trasferiva a Parma ove
produceva Bauci e Filomene, e l'Aristeo.
Nelle Opere or menzionate recò Gluck molto
innanzi la riforma del suo stile. Ogni novella
produzione della sua penna era un passo di
più eli’ ei moveva sulla strada già tracciata
nella sua mente. Però, ben egli sapeva che
indarno sarebbesi adoperato a far compiuta
la meditata rivoluzione musicale, se
non collegavasi alla difficile impresa con un
poeta che sapesse comprendere l’alta portata
de’ suoi pensieri e fosse disposto ad
assecondarlo e avesse la capacità e la dottrina
necessarie a tanfi uopo.
Era egli intimamente convinto che i poemi
del nostro Metastasio, quantunque pieni delle
maggiori bellezze, non solo per quanto è della
poesia, ma ed anco per la verità e vivezza
del dialogo, per il taglio di certe arie e in
ispecie de’ duetti, pure non si prestavano
all’ampio sviluppo dei grandi effetti tragicomusicali
di cui egli credeva suscettivo il
melodramma. E principalmente ci sentiva
la necessità di intrecciare nell’azione i cori,
e anzi appoggiar ad essi gran parte di questa;
persuaso come era che nulla vi ha che
meglio si presti alle grandi e forti ispirazioni
della musica teatrale quanto i sentimenti
manifestati a un sol tratto da una
moltitudine di persone in istato di passione.
Fu ventura eli’ ei si scontrasse col poeta
Calzabigi, il quale, già pensato avendo da
sè alle imperfezioni dell’Opera italiana, prestamente
si penetrò de’ medésimi suoi principii,
e fu oltremodo soddisfatto di poter
giovare ad un compositore il quale si proponeva
di addurre a compimento una clamorosa
rivoluzione in una importantissima
parte delia letteratura e delle Belle Arti. Mosso da questo nobile desiderio, il Calzatosi
scrisse a Vienna i melodrammi l'Alceste,
il Paride ed Elena e l'Orfeo, e il
Gluck, perfettamente d’accordo con esso,
intese a musicarli. Or dunque si noti che
se la forte intelligenza di un alemanno
compositore potò concepire la possibilità di
alzare l’Opera in musica in un orizzonte
di idee tutto nuovo e più splendido, a questo
grande progresso di una forma dell’arte
d’origine interamente italiana contribuì in
molta parte anche il genio poetico dell’Italia
che nel celebre amico e nel sagace critico
di Alfieri non ebbe di certo un oscuro interprete.
Meno ricchi di poesia dei melodrammi
del Metastasio ma più felicemente combinati
per la musica, i poemi del Calzabigi
offrono delle situazioni tragiche del più
grande effetto. E per vero ove trovare scene
più acconcio alle ispirazioni di un compositore
filosofo di quelle bellissime in cui
Alceste consulta l’oracolo sulla sorte del
suo sposo, e udito che solo col perire per
esso ei sarà salvo, mossa da eroico affetto
si propone di compire volontaria il magnanimo
sagrifizio? Ove trovare un punto
drammatico nel quale al maggior segno sia
recato il contrasto dell’amore e del dolore
come nella scena in cui Admeto, vedendo
la sposa in preda a mortale mestizia, insiste
per scoprirne la segreta cagione, e la
tenera Alceste, che già si votò per lui ai
mani infernali, si sforza a nascondergliela
onde egli non abbia ad opporsi al grande
suo atto?
Ma anche a giudizio del sig. Fétis, nulla
vi ha che in tal genere di poesia musicale
possa reggere al confronto del magnifico
quadro che offre il secondo atto dell’Orfeo. «Egli è appunto in questa seconda
parte, dice il sullodato critico, che
Gluck poggiò al maggior grado di sublimità
cui giugnesse mai! El solo udire il
primo motivo, lo spettatore già presente
tutto l’effetto della scena che si svolgerà
dinnanzi a lui. La perfetta gradazione osservata
nelle sensazioni dei cori di demonii,
la novità delle forme, e soprattutto la
dolcezza ammirabile che domina in tutto
il canto d’Orfeo, formano di questa scena
un capolavoro che resisterà a tutti i capricci
della moda e che sarà sempre considerato
come una delle più belle produzioni del
genio (1)».
Ora per conto nostro vogliamo far osservare
con quale sceltezza e sobrietà di
mezzi sia in questo pezzo vivamente tratteggiato
il carattere della scena in cui-si
mescono e si alternano il patetico e il terribile.
L’istromentazione robusta senza essere
romorosa, energica senza abuso dei
naturali effetti dell’orchestra, è pittoresca
per eccellenza. Un non so che di truce e
di selvaggio spira dall’insieme de’ cori delle
furie e dalia musica delle loro danze infernali, di mezzo al qual cupo fragore si
espande e si distacca con lieve e trasparente
ricamo di note il soave e pietoso
canto di Orfeo Sulle prime i demonii,
cui egli supplica a volergli concedere
il passo nell’Èrebo per trarne la
moglie, gli si oppongono, ed è mirabile
1 effetto di quel ferale No ripetuto con
tetra ostinatezza a interrompere i patetici
accenti del supplicante; ma poi a poco a
poco le patetiche melodie dello sposo di
Euridice scuotono perfino quegli animi inesorati: il fragore ad arte irrequieto e in-
(1) Veggasi il pezzo che si unisce in partizione e che forma il N. 2 della nostra Antologia Classica Musicale.
sistente dei ritornelli stromentali si viene sedando; i latrati di Cerbero, espressi da un gruppo di note de’ violini e delle viole gittati ad una sola arcata, si tacciono. E vinta la lotta tra la natura infernale e il divino genio del canto; si aprono stridendo le porte degli abissi, cessa l’agitarsi minaccioso delle furie e pare quasi che coi movimenti più tranquilli della musica e coi meno aspri contrasti delle dissonanze armoniche abbia voluto il compositore esprimere quella interna soddisfazione che prova lo spettatore al vedere esaudite le pietose istanze del tracio cantore, e dipingere il gradato ritorno del silenzio letale che dominar deve nel soggiorno delle ombre. Questa aria con cori dell’Orfeo di Gluck per semplicità di fattura e grandiosità di concetto e forza di ispirazione è mirabile come una delle più belle scene di Sofocle, di Euripide o di Alfieri, come una delle più ispirate tele di Raffaello, come una pagina de' Martiri di Chateaubriand, come un Inno sacro di Manzoni! Felice la penna del critico, allorachè si incontra in simili temi! G. Battaglia.
TEODOSIO DHÖLER
Seconda accademia data nel Ridotto dell’I. R. Teatro della Scala, la mattina del 20 corrente. Per comune consentimento in Italia, Francia ed Inghilterra Teodoro Dholer vien annoverato nel rango delle pianistiche sommità dell’epoca. Senza un merito trascendente non puossi aspirare ad un tanto onore. In fatto questo artista sommamente distinguesi tanto pel talento di esecuzione, quanto per le sue composizioni. E una doppia gloria che offre da registrarsi ne’ nostri fasti musico-stromentali. Egli al pianoforte non affetta alcuna di quelle attitudini preparate, alcuni di quei gesti di apparato, per cui non pochi concertisti dalla moltitudine l’ansi segnare a dito; con semplicità e senza affettazione, ponsi al prediletto istromento. Nelle prime battute sarebbesi quasi tentati supporre in lui una certa timidezza, ma poscia a poco a poco la sua esecuzione diviene animata, agile, energica, pomposa. Tratto tratto dimostra di saper cantare con soavità ed espressione, di cui ne sia una convincente prova l’elegante ed affettuosa maniera colla quale toccò il tema dellAnna Balena; in complesso però, come la maggior parte de’ pianisti-compositori, lasciasi predominare dalla smania di sorprendere, e ad un tale scopo sagrifica qualche volta la finitezza e la chiarezza, per sfoggiare di precipitose immani difficoltà di maneggio, in cui senza contrasto è veramente straordinario; di esse abbiamo già accennato nel N. A di questa Gazzetta. Come autore poi a noi sembra possa andar del paro de’ giovani suoi rivali, ma tanto a lui come agli altri, eccettuatone Chopin che batte una via meno popolare, ma assai più utile per l’arte, resta ancora un bello spazio a percorrere prima di raggiungere un’alta meta. Noi non professiamo molta stima pel genere a cui Listz e Tlialberg e loro imitatori di preferenza si sono esercitati: le fantasie, i capricci e le variazioni sopra temi favoriti sono sempre da considerarsi siccome un Melodramma per un’Operetta in musica composto dietro un poema. In tali pezzi non può esservi vera creazione e dove manca il fuoco ravvivatore dell’inventiva, che cosa è mai la musica?... Frattanto, astrazion fatta dal futile genere a cui appartengono, abbiansi le dovute lodi la Fantasia sull’Anna Bolena ed il Capriccio su M’Assedio di Corinto, insieme cogli eccellenti studii da Dholer meravigliosamente eseguiti nella mattina del 20 corrente. — La brillante fantasia, sulla melodica cavatina di Donizetti si apre con una magnifica introduzione, nella seconda pagina della quale la mano sinistra sola intuona un cantabile accompagnato da accordi, producenti l’effetto di uno squarcio a quattro mani; la terza variazione è pure assai notevole. - Al diffìcile capriccio sull’introduzione dell’Assedio di Corinto, senza dubbio si compete un ragguardevole posto fra le recenti composizioni da concerto; è di uno stile grandioso e degno de’ superbi concepimenti rossiniani su cui è basato. - Gli studii N. 9 ed ultimo della raccolta da Dholer dedicata a Berlioz, sono due differenti perle musicali di moltissimo valore. L’ultimo allegro a tempo ordinario in fa diesis interrotto da un andante grazioso a 6 e 8, indipendentemente dalle qualità scolastiche per cui denominasi anche trillo, serve assai bene di preparazione alla cadenza e di esercizio per incrocicchiare le braccia e per assicurarsi nei salti. Ommetteremo di parlare della riduzione dell’andante della Sonnambula, dell’esecuzione del finale della Lucia trascritto da Liszt, e della marcia ungarese: Dholer, sopprimendoli, sarebbesi risparmiato un’eccessiva e troppo prolungata fatica. Abbiamo riservato per ultimo il famoso set limino di Hummel, opera sublime per inspirazione e per scienza, che dir potrebbesi la più bella epopea della musica concertata per pianoforte ed altri istromenti. Se le produzioni colle quali i giovani pianisti moderni meravigliano l’Europa non si allontanassero di troppo dalle forme di questo classico capolavoro, ora tanto non si deplorerebbe il decadimento dell’arte in riguardo alla ragionata musica per pianoforte! Dholer nell'interpretare il primo tempo del settimi no, mostrò altrettanto di bravura, che ili buon gusto c sentire, e noi siamo stati trasportati in un incantevole estasi; ma nel finale, forse per motivi a lui estranei, non abbiamo potuto ammirare che la velocità nel trascorrere da un passo all’altro. Nel Ridotto della Scala il sommo pianista italiano piacque molto più che nella prima sua accademia al teatro, e ne’ singoli pezzi di sua composizione suscitò un indicibile entusiasmo nell’uditorio, composto dal fiore della società e del dilettantismo milanese. Per aderire al desiderio di molli. Dholer prima della sua partenza per Vienna annunziò una terza ed ultima accademia (1). C. (1) Questa ultima accademia ebbe in fatti luogo giovedì sera nell’I. R. Teatro alla Scala. Dholer in varj pezzi rinnovò le prestigiose sue prove sul pianoforte, c dovette replicare il bel divertimento sulla Saffo! - Il violinista Bazzini, felicemente espresse i canti dell’aria finale della Lucia, di cui gli uditori chiesero la replica, invece della quale i due valenti suonatori comparvero ad eseguire insieme il duo di Benedict e Beriot sulla Sonnambula, che fu meno applaudito dell’altro sulla Norma.
RASSEGNA MELODRAMMATICA
L'ODALINA del maestro NINI, il BELISARIO di DONIZETTI, ec., ec. (1)
Cominciamo con un complimento: la nuova Opera del maestro Nini è sparsa di buoni pensieri melodici se non in tutto peregrini, svolti però con sufficiente garbo. Ma certo (1) I. R. Teatro alla Scala, le sere del 19 a 22 febbraio, 1S42. sarebbe a desiderare che l’ingegno medesimo mostrato dal maestro a ben contornare alcuni periodi staccati e a dare venustà c grazia al disegno di molte cantilene gettate qua e là poco più che alla ventura, ei lo avesse posto a coordinare la forma dei pezzi in guisa che meno apparisse quel non so die di rotto e di scomposto che domina nella più parte di essi. Non è già che noi vogliamo porre in dubbio che il sig. Nini manchi di dottrina e non sappia insegnare a molti che cosa si debba intendere per bella e corretta fattura musicale di un’aria, di un duetto, di un terzetto... ma certamente nella sua nuova partizione non sapremmo trovare un solo pezzo le cui diverse membra si colleghino e si intreccino tra esse con quell’ordine, con quella chiarezza e nobile eleganza e severità di stile che fanno mirabili le composizioni de’ grandi maestri. Ed all’incontro non troveremmo difficile l’additarne parecchi ne’ quali le impreparate sospensioni e ritardi, i repentini passaggi di tuono e i troppo vicini mutamenti di tempo appaiono più presto necessitati da quella fluttuazione della fantasia e incertezza della scienza cui indarno accorre a sussidio il volgare artifizio degli effetti di convenzione. I pezzi melodrammatici che a nostro giudizio stanno più saldi contro ai rigori della critica, non sono già quelli ne’ quali vi ha una tal quale abbondanza di idee appena sbozzate, ed ove certe frasi melodiche quasi vergognose della loro magrezza si appiccicano in coda le une alle altre, non per logico sviluppo, ma solo per determinare una certa lunghezza e distribuzione, prestabilità di tempi, di cadenze, di piani e di forti, ed offrir modo al cantante di far bella mostra delle sue corde ec.; bensì quegli altri ne’ quali anche con due o tre soli pensieri più o meno nuovi si elabora da sè stesso e senza sforzo od intoppo il naturale svolgimento della composizione e si compisce nelle sue proporzioni più giuste. Si dirà che vogliamo dettare dei precetti, ma noi preghiamo ad avvertire che non facciamo che esprimere la nostra opinione; libero ad ognuno adottarla o respingerla. Se non abbiamo a congratularci coll’autore dell’Odalisa dell’aver dato prova di molto sapere nello stendere i suoi pezzi con disegno tutt’altro che corretto, tanto meno troviamo argomento a dargli lode di ciò che anzitutto vorremmo notare nelle composizioni di que’ maestri che si producono sulla gran scena della Scala; e vogliamo dire il carattere melodrammatico, ossia quella speciale impronta per cui le diverse parti di un’Opera, anziché distinguersi l’una dall’altra per un certo quale formalismo materiale, vogliono essere diversificate da una fisonomia tutta propria che debbe apparire ispirata alla fantasia del compositore dalla intenzione dominante nella scena cui egli appone la musica. Per amore del vero però è a dire che in qualche pezzo, p. e., nel primo coro de' Zingari, il signor Nini lascia scorgere di avere tentato questa specie di effetto, ad ottenere il quale il maestro non dee accontentarsi di lasciar correre giù dalla penna i pensieri tali e quali si affacciano alla sua immaginazione, ma è duopo che colla meditazione soccorra a determinare se più o meno si convengono a quel dato punto scenico e se si assimilano perfettamente al concetto del poeta. I grandi capolavori musicali dell’età nostra, que’ pochissimi cui è riserbata una durevole fama, sono principalmente distinti per quest’importante pregio, c ciò clic in essi più si ammira è l’impronta caratterista ingiunta al tutt’insieme dall’indole del soggetto drammatico e dai rapporti di tempo, di luogo, di costumi, ec., cui il fatto è riferito, e alle singole parti dalle condizioni peculiari di ciascuna scena, dalla varia natura e umore de’ personaggi, dal vario contrasto d’azione in che son posti tra essi, ecc. Veggansi il Don Giovanni di Mozart, il Mosè, il Guglielmo Tell di Rossini, gli Ugonotti, il Roberto il Diavolo di Mayerbeer,ec.;e per scendere un tantino più basso osserviamo le due nuove Opere che di fresco furono date sulle nostre scene: la Maria Padilla e la Saffo: nell’una e nell’altra gli illustri maestri si curarono anzitutto di dare una tinta caratteristica ai diversi pezzi, e di modificare i diversi movimenti della loro immaginativa a seconda delle varie impressioni che doveano svegliare nello spirito dello spettatore. E quanto al signor Pacini in particolare, se a giudizio de’ buoni conoscenti, dalle ultime sue Opere udite alla Saffo segnò un passo gigantesco sulla via che guida ad una celebrità non effimera, a che cosa altro il deve se non allo studio posto, non solo di far cantare più o meno gradevolmente i suoi attori, ma sì di farli cantare nè più nè meno al modo che si richiedeva dalle qualità distintive del soggetto offertogli dal poeta, così che ottenne di imprimere al suo bel lavoro una fisonomia propria, e per la quale non si confonderà con tante altre Opere della giornata scritte senza meditazione e buttate giù all’infretta per soddisfare la grande brama di novità musicali clic agita il pubblico italiano. Forse anche il signor Nini subì l’influenza di questa dannosa condizione in che troppo spesso sono posti i nostri meno oscuri maestri; o fors’anco il libro gli si offriva povero di intenzioni drammatiche ben determinate e svolte con pensato e non apparente artifizio. Diremo a questo proposito che il signor Sacchéro è giovine di bell’ingegno, ma od inganniamo a gran partito, o ne sembra che non siasi ancora formata una giusta idea delle condizioni poetiche che voglionsi curare anzitutto in un’azione acciocché si presti felicemente ai grandi e svariati effetti della composizione musicale. A provare per esteso quanto qui affermiamo si vorrebbe un apposito articolo, e al caso non mancheremmo di stenderlo: ora ne basti accennare, per esempio, che dal carattere di Albo avrebbe potuto il poeta trarre molto miglior partito e per l’interesse del dramma e per quello della musica solo che si fosse studiato di conservarlo sotto quella sembianza di semiselvaggia fierezza e di appassionatezza rozza ma caratteristica di che seppe improntarlo nelle prime scene. Anche la maestosa figura di Giovanna, che sì drammatica si presenta nella storia, mancò poco meno che del tutto sotto il pennello incerto ma pur brillante del signor Sacchéro; non parliamo di Odalisa la protagonista, che per verità in questo melodramma (il cui soggetto ne pare richiami alla memoria la Maria Tudor di V. Hugo ) è poco meno che passiva. Questi sono difetti importanti in un libro per musica, perchè lasciano indeciso il maestro, al quale non rimane che la meschina risorsa di attaccarsi ai piccoli effetti melodici, e al ripiego delle casuali sortite de’ cantanti, più o meno buone secondo che sono più o meno felici e caldamente ispirati i parziali slanci della dizione poetica e l’incalzar del dialogo. Pregi di questa seconda qualità non ne mancano nella Odalisa del giovine Sacchéro, e ciò ai poveri tempi che corrono pel melodramma italiano, è pur qualche cosa. Delle locuzioni scorrette, e delle figure rettoriche un po’ strane, noi non crediamo necessario occuparci sul serio perchè sono più proprie del dominio della critica meramente letteraria. Si dirà che queste nostre osservazioni sono troppo sottili e sofistiche, ma a nostro giudizio, trattandosi di un’Opera nuova che si produce sulle scene di uno dei primi teatri del mondo, non sono mai sovverchic le esigenze. Se avessimo ad occuparci delle nuove partizioni che si scrivono per le piccole scene de’ teatri delle province e delle borgate, lasceremmo da un lato la severa critica estetica che ci siamo ingegnali di adoperare coll’egregio signor Nini e col suo bravo collega il Sacchéro, e forse ci acconteremmo di notare la minore o maggior bontà de’ motivi e delle cantilene, e d’altre simili futilità delle quali ogni menomo compositoruzzo che sappia rubare nelle vecchie partiture c nelle composizioni stromentali non note al pubblico, può fare sfoggio dal più al meno. - Ma il nostro è un caso ben diverso, e ciò diciamo per far onore ai nostri criticati. Ripetasi lo stesso press’a poco nel proposito de’ signori cantanti di quest’Opera. Dacché ci si appresentano sul vasto palco dell’illustre nostro teatro abbiamo diritto di pretendere qualche cosa di più che non due o tre felici sortite, otto o dieci frasi melodiche modulate con grazia, o se volete anche un intero andantino, una cabaletta, una cadenza o che so io, cantati con gusto e buon metodo... E in proposito dell’Odalisa chi pigli a lodare per queste menome cose il tenore sig. Saivi, la signora Abbadia, la signora Brambilla, ec. che altro farebbe se non impiccolire la loro importanza di attori cantanti di primo rango? Vorremmo avere potuto udirli un per uno nella interpretazione sentita e pensata di parti concepite con filosofia e con estro dal poeta e dal compositore (come, p. e., è il caso del Belisario) e allora non avremmo scrupolo di abbondare di larghi elogi ! A ciò s’aggiunga che per la buona esecuzione di un Opera anche cattiva non bastano le belle sortite parziali e isolate or dell’uno or dell’altro cantante, ma si vuole il beninsieme, l’accordo perfetto, l’intelligente concertazione!... E in tal proposito quanto alla prima recita dell’Odalisa ci si permetta un profondo silenzio. Il Belisario dell’illustre nostro Donizetti vuolsi annoverare tra le poche Opere italiane che in questi ultimi tempi potemmo veder concepite con vigoroso proposito drammatico musicale. Se questa Opera non fosse già da un pezzo in proprietà del Teatro, vorremmo assoggettarla ad una parziale analisi, nella quale crederemmo agevole far manifesta la verità di quanto abbiamo detto altra volta parlando del medesimo Donizetti, che, cioè, le ispirazioni del compositore sono sempre vive, originali e caratteristiche in ragione diretta delia maggiore o minore portata poetica del concetto offerto alla sua fantasia dall’estro del drammaturgo. Fors’anco troveremmo a notare alcune negligenze, alcune trascuranze di effetto, e diversi punti scenici trattati alla sbadata, e ne’ quali l’austerità di stile rigidamente osservata ne’ pezzi principali è al tutto perduta di vista. Ma tutta la parte di Belisario, il vecchio eroe romano che dai trionfali clamori della gloria guerriera, vittima di un viluppo di impreveduti casi, piomba nella sventura, e, cieco, errante per deserti paesi, non ha che i teneri affetti di una figlia che lo conforti nel doloroso abbandono, indi tardi vendicato spira all’ombra delle bandiere imperiali da lui guidale tante volte alla vittoria, tutta questa bellissima parte è svolta con molla filosofia c colorita con quella savia abbondanza di pensieri musicali che costituisce l’unità nella varietà, importante canone sì poco osservato nelle Arti imitative. Per una parte sì pensatamente concepita vuolsi un cantante di primo valore che a tutto il prestigio del musicale linguaggio sappia accoppiare quello dell’azione. il signor Ronconi non è il primo artista che tra noi rappresenti il carattere di Belisario, le diverse modificazioni psicologiche del quale già altri prima di lui mirabilmente interpretò. In quali punti egli superasse il suo antecessore, c in quali altri rimanesse forse al dì sotto, si dirà in altro apposito articolo se l’abbondanza delle materie ce ne lascierà il luogo. Ne basti intanto accennare che i movimenti di affetto, non che tutte le frasi nelle quali richiedesi vigore di pittoresca espressione, furono da lui molto vivamente colorite. È vano il dire dell’eleganza e purezza del suo canto; in questo proposito speciale, che in una parte come quella di Belisario è di necessaria ma non principale importanza, si può essere certi che il signor Ronconi non manca mai. L’egregio Donzelli, artista dotato di qualità tutt'altro che comuni ai giorni nostri, ha interpretata con molta energia (talora anzi forse sovverchia) la parte appassionata del giovinetto guerriero che Belisario reputa il solo degno di raccogliere la vittoriosa sua spada. Con artifizio superiore ad ogni lode egli sa nascondere la poca flessibilità di una voce di tenore se non freschissima, certo piena di colorito e di vigore. La signora Brambilla nell’affettuosa e tenera parte di Irene trovò delle tinte piene di garbo, e ricordò i suoi giorni più felici. Desideriamo di aver presto argomento d’intrattenerci a lungo della signora Strepponi, cui finora il pubblico non fu nè doveva essere largo de’ suoi favori. B.
BIBLIOGRAFIA MUSICALE
COMPOSIZIONI DI ANTONIO BAZZINI
ART. II (1).
Musica Vocale.
Il sig. Bazzini fino al presente non fece di pubblico
diritto, in genere di musica vocale, che sei composizioni
da camera. Il Gondoliero, La Sera, All’Amica lontana,
Barcarola Impromptu, La Melanconia, L’Amo
e il Bacio sono i titolari di questi sei componimenti,
ne’ quali tutti riscontrasi giusta conoscenza di canto,
retta espressione della parola, sufficiente originalità e
costante eleganza. Come nella musica istromentale, da
noi già accennata in altro articolo, così pure in questa,
trascorreva un bel tratto di tempo, principalmente dalle
prime alle ultime di queste Romanze, ed anche in questo
caso appare nelle prime due l’incertezza del fare e
la troppa apparente imitazione di Bellini più che d’altri;
ma a contare dalla terza in avanti si chiarisce sempre
più evidente Io sviluppo pieno di idee proprie e non comuni.
Tuttavolta riscontriamo anche nella prima una
cantilena sparsa di una omogenea melanconia e nella
seconda un canto dolce e ritraente con giustezza il significato
della parola. Ma vuolsi osservare nella terza
molto maggiore finitezza; e in essa oltre un canto assai
pieno d’espressione sono a lodarsi gli accompagnamenti,
per altro forse più convenienti ad un complesso di stromenti
d’arco che non al pianoforte.
La quarta che è la Barcarola Impromptu, la quale
se non è, deve almeno dal suo titolo supporsi improvvisata,
è a nostro giudizio la più gentile e spontanea fra
tutte queste sei composizioni. La cantilena è suffusa di
una tinta pressoché aerea, e l’accompagnamento molto
più accurato di quanto ad un improvviso si convenga,
le presta grandissimo risalto. E questa davvero una cara
Barcarola.
Anche la romanza La Melanconia ha il pregio di
molto sentita espressione, ma oseremmo giudicarla mancante
di quella unità o piuttosto condotta di pensiero
che abbiam dovuto condannare anche in alcune opere
istrumentali del medesimo sig. Bazzini. Inoltre l’accompagnamento
è pochissimo variato, sicché induce una tal
quale monotonia nell’insieme del pezzo. Quanto alla tessitura
vocale, sembra a noi che la si elevi un po’ di
troppo nell’ultimo maggiore, che pure si abbellisce di una
gradevole melodia. Non ci gradirono gran fatto i bassi
dell’ultimo rigo della 4.a pagina che ne parvero poco felici.
L’ultimo di questi sci pezzi si è il Duettino lAmo e il
Bacio, il quale ne pare non sia da stimarsi da meno degli
altri per vaghezza di melodie, d’armonia d’accompagnamento,
ma dobbiamo confessare che in esso ci parve
stucchevole la replica ostinata di que’ due versi Vieni
coll’amo al margine I pesci a depredar, i quali sono,
senza esagerazione, da ambe le parti cantanti, replicati
una trentina di volte almeno. Di certo ella è questa una
astrazione imperdonabile, non fosse altro per la semplice
ragione che il pezzo ne riceve un effetto quasi ridicolo,
sebbene per buona e corretta composizione potrebbe a
buon diritto giudicarsi tutt’altro.
Ponendo ora da un lato il pungolo della critica, ci sia
lecito osservare che nessuno de’ nostri contemporanei
istrumentisti trattò il canto con un fare così sicuro, e
che ove piaccia al Bazzini dedicarsi a cose anche di maggior
rilievo, certo egli il potrà, come colui che nelle or
lodate composizioni ne diede saggio non dubbio di un
ingegno atto a più maschi e vasti concepimenti.
A.M.
(1) Vedi il N. 7 di questa Gazzetta.
NOTIZIE VARIE.
— Soavi pochi esempj di una voga simile a quella
ottenuta dai Venticinque studj progressivi diligentemente
digitati per pianoforte, composti da Francesco
Hunten. Coloro che già li conoscono s’accordano tutti
nell’apprezzare la rara utilità di questi eccellenti Studj.
- Anche il celebre Bertini sta per pubblicare una nuova
Opera di Studj che tutti quelli che si esercitano sul
pianoforte vorranno procurarsi: tanto il nome dell’autore
per siffatto genere di musica didascalica è benemerito
all’arte.
— Varj giornali parigini confermano la notizia della
nomina del maestro Auber alla direzione del Conservatorio
di Parigi. Il ministro accettando la demissione di Cherubini,
come già sidisse, ha nominato l’illustre compositorea
commendatore dell’ordine reale della Legion d’onore.
È il primo caso che un maestro di musica in Francia
abbia ricevuto una tale onorifica distinzione.
— Vienna. La piccola sorella dell’acclamata fanciulla
pianista Sofia Bòhrer ne’passati giorni fu oggetto di singolare
stupore. Questa bambina di circa sei anni in varie
società suonò alcuni pezzi sul pianoforte con una granitura,
facilità e sicurezza veramente miracolose.
Il primo concerto del rinomato pianista Dhòler è
quivi già annunziato per la mattina del giorno 10 Marzo
nella sala del Conservatorio.
— Madrid. Dopo che Fétis pubblicò la sua Rivista
musicale ad imitazione della Gazzetta di Lipsia, nella
maggior parte delle capitali d’Europa sorsero de’ giornali
di musica. Da qualche tempo anche a Madrid compare
un foglio intitolato, La Iberia musical che sembra
redatto con mire assai lodevoli e chiamalo a render degli
importanti scrvizj alla musica in quel paese.
— Berlino. Quella università ha insignito Listz del titolo di Dottore in musica.
GIOVANNI RICORDI
EDITORE- PROPRIETARIO.
NB. Si unisce a questo foglio il pezzo N. 2 dell'ANTOLOGIA CLASSICA MUSICALE.
Dall'I.R. Stabilimento Nazionale Privilegiato di
Calcografia, Copisteria e Tipografia Musicale di GIOVANNI RICORDI.
Contrada degli Omenoni N. 1720