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ARGOMENTO.
Al Soldan che dormia, si mostra Ismeno, |
CANTO DECIMO.
Così dicendo ancor, vicino scorse
Un destrier ch’a lui volse errante il passo:
Tosto al libero fren la mano ei porse,
4E su vi salse, ancorch’afflitto e lasso.
Già caduto è il cimier ch’orribil sorse,
Lasciando l’elmo inonorato e basso:
Rotta è la sopravesta, e di superba
8Pompa regal vestigio alcun non serba.
II.
Come dal chiuso ovil cacciato viene
Lupo talor, che fugge e si nasconde:
Che sebben del gran ventre omai ripiene
12Ha l’ingorde voragini profonde;
Avido pur di sangue anco fuor tiene
La lingua, e ’l sugge dalle labra immonde;
Tale ei sen gía, dopo il sanguigno strazio,
16Della sua cupa fame anco non sazio.
III.
E come è sua ventura, alle sonanti
Quadrella ond’a lui intorno un nembo vola,
A tante spade, a tante lance, a tanti
20Instrumenti di morte alfin s’invola:
E sconosciuto pur cammina innanti
Per quella via ch’è più deserta e sola:
E rivolgendo in se quel che far deggia,
24In gran tempesta di pensieri ondeggia.
IV.
Disponsi alfin di girne ove raguna
Oste sì poderosa il Re d’Egitto:
E giunger seco l’arme, e la fortuna
28Ritentar anco di novel conflitto.
Ciò prefisso tra se, dimora alcuna
Non pone in mezzo, e prende il cammin dritto
(Chè sa le vie, nè d’uopo ha di chi ’l guidi)
32Di Gaza antica agli arenosi lidi.
V.
Nè perchè senta inacerbir le doglie
Delle sue piaghe, e grave il corpo ed egro,
Vien però che si posi, e l’arme spoglie;
36Ma, travagliando, il dì ne passa integro.
Poi quando l’ombra oscura al mondo toglie
I varj aspetti, e i color tinge in negro,
Smonta, e fascia le piaghe, e come puote
40Meglio, d’un’alta palma i frutti scuote.
VI.
E cibato di lor, sul terren nudo
Cerca adagiare il travagliato fianco,
E, la testa appoggiando al duro scudo,
44Quetar i moti del pensier suo stanco.
Ma d’ora in ora a lui si fa più crudo
Sentire il duol delle ferite, ed anco
Roso gli è il petto e lacerato il core
48Dagl’interni avoltoj, sdegno e dolore.
VII.
Alfin, quando già tutte intorno chete
Nella più alta notte eran le cose,
Vinto egli pur dalla stanchezza, in Lete
52Sopì le cure sue gravi e nojose;
E in una breve e languida quiete
L’afflitte membra e gli occhj egri compose:
E mentre ancor dormia, voce severa
56Gl’intonò su le orecchie in tal maniera:
VIII.
Soliman Solimano, i tuoi sì lenti
Riposi a miglior tempo omai riserva;
Chè sotto il giogo di straniere genti
60La patria, ove regnasti, ancor è serva.
In questa terra dormi, e non rammenti
Ch’insepolte de’ tuoi l’ossa conserva?
Ove sì gran vestigio è del tuo scorno,
64Tu, neghittoso, aspetti il novo giorno?
IX.
Desto il Soldano, alza lo sguardo e vede
Uom che d’età gravissima ai sembianti,
Col ritorto baston, del vecchio piede
68Ferma e dirizza le vestigia erranti.
E chi sei tu (sdegnoso a lui richiede)
Che, fantasma importuno ai viandanti,
Rompi i brevi lor sonni? e chè s’aspetta
72A te la mia vergogna, o la vendetta?
X.
Io mi son’un (risponde il vecchio) al quale
In parte è noto il tuo novel disegno:
E siccome uom, a cui di te più cale
76Che tu forse non pensi, a te ne vegno.
Nè il mordace parlare indarno è tale:
Perchè della virtù cote è lo sdegno.
Prendi in grado, Signor, che ’l mio sermone
80Al tuo pronto valor sia sferza e sprone.
XI.
Or perchè, s’io m’appongo, esser dee volto
Al gran Re dell’Egitto il tuo cammino;
Che inutilmente aspro viaggio tolto
84Avrai, s’innanzi segui, io m’indovino:
Chè sebben tu non vai, fia tosto accolto
E tosto mosso il campo Saracino:
Nè loco è là dove s’impieghi e mostri
88La tua virtù contra i nemici nostri.
XII.
Ma se in duce me prendi, entro a quel muro
Che dall’armi Latine è intorno astretto,
Nel più chiaro del dì porti sicuro,
92Senza che spada impugni, io ti prometto.
Quivi con l’arme e co’ disagj un duro
Contrasto aver ti fia gloria e diletto:
Difenderai la terra, insin che giugna
96L’oste d’Egitto a rinnovar la pugna.
XIII.
Mentre ei ragiona ancor, gli occhj e la voce
Dell’uomo antico il fero Turco ammira;
E dal volto, e dall’animo feroce
100Tutto depone omai l’orgoglio e l’ira.
Padre, risponde, io già pronto e veloce
Sono a seguirti: ove tu vuoi mi gira.
A me sempre miglior parrà il consiglio,
104Ove ha più di fatica e di periglio.
XIV.
Loda il vecchio i suoi detti: e perchè l’aura
Notturna avea le piaghe incrudelite,
Un suo licor v’instilla, onde ristaura
108Le forze, e salda il sangue e le ferite.
Quinci veggendo omai ch’Apollo inaura
Le rose che l’Aurora ha colorite;
Tempo è, disse, al partir; chè già ne scopre
112Le strade il Sol ch’altrui richiama all’opre.
XV.
E sovra un carro suo, che non lontano
Quinci attendea, col fier Niceno ei siede:
Le briglie allenta, e con maestra mano
116Ambo i corsieri alternamente fiede.
Quei vanno sì, che ’l polveroso piano
Non ritien della ruota orma, o del piede.
Fumar gli vedi, ed anelar nel corso,
120E tutto biancheggiar di spuma il morso.
XVI.
Maraviglie dirò: s’aduna e stringe
L’aer d’intorno, in nuvolo raccolto,
Sicchè ’l gran carro ne ricopre e cinge;
124Ma non appar la nube o poco o molto:
Nè sasso, che mural machina spinge,
Penetreria per lo suo chiuso e folto:
Ben veder ponno i duo’ dal curvo seno
128La nebbia intorno, e fuori il Ciel sereno.
XVII.
Stupido il cavalier le ciglia inarca,
Ed increspa la fronte, e mira fiso
La nube, e ’l carro ch’ogni intoppo varca
132Veloce sì, che di volar gli è avviso.
L’altro, che di stupor l’anima carca
Gli scorge all’atto dell’immobil viso,
Gli rompe quel silenzio, e lui rappella;
136Ond’ei si scuote, e poi così favella:
XVIII.
O chiunque tu sia che, fuor d’ogni uso,
Pieghi natura ad opre altere e strane:
E spiando i secreti, entro al più chiuso
140Spazi a tua voglia delle menti umane;
S’arrivi col saper, ch’è d’alto infuso,
Alle cose remote anco e lontane;
Deh dimmi, qual riposo o qual ruina
144Ai gran moti dell’Asia il Ciel destina?
XIX.
Ma pria dimmi il tuo nome, e con qual arte
Far cose tu sì inusitate soglia:
Chè se pria lo stupor da me non parte,
148Com’esser può ch’io gli altri detti accoglia?
Sorrise il vecchio, e disse: in una parte
Mi sarà leve l’adempir tua voglia.
Son detto Ismeno, e i Siri appellan Mago
152Me, che dell’arti incognite son vago.
XX.
Ma ch’io scopra il futuro, e ch’io dispieghi
Dell’occulto destin gli eterni annali,
Troppo audace è il desio, troppo alti preghi:
156Non è tanto concesso a noi mortali.
Ciascun, qua giù, le forze e ’l senno impieghi
Per avanzar fra le sciagure e i mali:
Chè sovente addivien che ’l saggio e ’l forte
160Fabbro a se stesso è di beata sorte.
XXI.
Tu, questa destra invitta, a cui fia poco
Scuoter le forze del Francese impero,
Non che munir, non che guardar il loco
164Che strettamente oppugna il popol fero,
Contra l’arme apparecchia, e contra ’l foco:
Osa, soffri, confida; io bene spero.
Ma pur dirò, perchè piacer ti debbia,
168Ciò ch’oscuro vegg’io, quasi per nebbia.
XXII.
Veggio, o parmi vedere, anzi che lustri
Molti rivolga il gran pianeta eterno,
Uom che l’Asia ornerà co’ fatti illustri,
172E del fecondo Egitto avrà il governo.
Taccio i pregj dell’ozio, e l’arti industri,
Mille virtù, che non ben tutte io scerno:
Basti sol questo a te, che da lui scosse
176Non pur saranno le Cristiane posse;
XXIII.
Ma insin dal fondo suo l’imperio ingiusto
Svelto sarà nell’ultime contese;
E le afflitte reliquie entro un angusto
180Giro sospinte, e sol dal mar difese.
Questi fia del tuo sangue; e quì il vetusto
Mago si tacque: e quegli a dir riprese:
O lui felice eletto a tanta lode!
184E parte ne l’invidia, e parte gode.
XXIV.
Soggiunse poi: girisi pur Fortuna
O buona o rea, come è là su prescritto:
Chè non ha sovra me ragione alcuna,
188E non mi vedrà mai se non invitto.
Prima dal corso distornar la Luna
E le stelle potrà, che dal diritto
Torcere un sol mio passo: e in questo dire
192Sfavillò tutto di focoso ardire.
XXV.
Così gir ragionando, insin che furo
Là ’ve presso vedean le tende alzarse:
Che spettacolo fu crudele e duro!
196In quante forme ivi la morte apparse!
Si fè negli occhj allor torbido e scuro,
E di doglia il Soldano il volto sparse.
Ahi con quanto dispregio ivi le degne
200Mirò giacer sue già temute insegne!
XXVI.
E scorrer lieti i Franchi, e i petti e i volti
Spesso calcar de’ suoi più noti amici:
E, con fasto superbo, agl’insepolti
204L’arme spogliare e gli abiti infelici:
Molti onorare in lunga pompa accolti
Gli amati corpi degli estremi uficj:
Altri soppor le fiamme, e ’l volgo misto
208D’Arabi e Turchi, a un foco arder ha visto.
XXVII.
Sospirò dal profondo, e ’l ferro trasse,
E dal carro lanciossi, e correr volle;
Ma il vecchio incantatore a se il ritrasse
212Sgridando, e raffrenò l’impeto folle.
E fatto che di novo ei rimontasse,
Drizzò il suo corso al più sublime colle.
Così alquanto n’andaro, insin ch’a tergo
216Lasciar de’ Franchi il militare albergo.
XXVIII.
Smontaro allor del carro, e quel repente
Sparve, e presono a piedi insieme il calle
Nella solita nube occultamente,
220Discendendo a sinistra in una valle;
Sinchè giunsero là, dove al Ponente
L’alto monte Sion volge le spalle.
Quivi si ferma il Mago, e poi s’accosta
224(Quasi mirando) alla scoscesa costa.
XXIX.
Cava grotta s’apria nel duro sasso,
Di lunghissimi tempi avanti fatta;
Ma, disusando, or riturato il passo
228Era tra i pruni e l’erbe ove s’appiatta.
Sgombra il Mago gl’intoppi, e curvo e basso
Per l’angusto sentiero a gir s’adatta:
E l’una man precede, e ’l varco tenta,
232L’altra per guida al Principe appresenta.
XXX.
Dice allora il Soldan: qual via furtiva
È questa tua, dove convien ch’io vada?
Altra forse miglior io me n’apriva,
236Se ’l concedevi tu, con la mia spada.
Non sdegnar, gli risponde, anima schiva,
Premer col forte piè la buja strada;
Chè già solea calcarla il grande Erode,
240Quel c’ha nell’armi ancor sì chiara lode.
XXXI.
Cavò questa spelonca, allor che porre
Volse freno ai soggetti, il Re ch’io dico:
E per essa potea, da quella torre
244Ch’egli Antonia appellò dal chiaro amico,
Invisibile a tutti il piè raccorre
Dentro la soglia del gran tempio antico:
E quindi occulto uscir della Cittate,
248E trarne ed introdur genti celate.
XXXII.
Ma nota è questa via solinga e bruna
Or solo a me degli uomini viventi.
Per questa andremo al loco, ove raguna
252I più saggj a consiglio e i più potenti
Il Re, ch’al minacciar della fortuna,
Più forse che non dee, par che paventi.
Ben tu giungi a grand’uopo: ascolta, e taci;
256Poi muovi a tempo le parole audaci.
XXXIII.
Così gli disse; e ’l cavaliero allotta
Col gran corpo ingombrò l’umil caverna:
E per le vie, dove mai sempre annotta,
260Seguì colui che ’l suo cammin governa.
Chini pria se n’andar; ma quella grotta
Più si dilata, quanto più s’interna;
Sicchè asceser con agio, e tosto furo
264A mezzo quasi di quell’antro oscuro.
XXXIV.
Apriva allora un picciol uscio Ismeno,
E se ne gían per disusata scala,
A cui luce mal certo e mal sereno
268L’aere che giù d’alto spiraglio cala.
In sotterraneo chiostro alfin venieno,
E salian quindi in chiara e nobil sala.
Quì con lo scettro, e col diadema in testa
272Mesto sedeasi il Re fra gente mesta.
XXXV.
Dalla concava nube il Turco fero,
Non veduto, rimira e spia d’intorno;
E ode il Re frattanto, il qual primiero
276Incomincia così dal seggio adorno:
Veramente, o miei fidi, al nostro impero
Fu il trapassato assai dannoso giorno:
E caduti d’altissima speranza,
280Sol l’ajuto d’Egitto omai n’avanza.
XXXVI.
Ma ben vedete voi quanto la speme
Lontana sia da sì vicin periglio.
Dunque voi tutti ho quì raccolti insieme,
284Perchè ognun porti in mezzo il suo consiglio.
Quì tace; e quasi in bosco aura che freme,
Suona d’intorno un picciolo bisbiglio.
Ma con la faccia baldanzosa e lieta
288Sorgendo Argante il mormorare accheta.
XXXVII.
O magnanimo Re (fu la risposta
Del cavaliero indomito, e feroce)
Perchè ci tenti? e cosa a nullo ascosta
292Chiedi, ch’uopo non ha di nostra voce?
Pur dirò; sia la speme in noi sol posta:
E s’egli è ver che nulla a virtù nuoce,
Di questa armiamci: a lei chiediamo aita:
296Nè più, ch’ella si voglia, amiam la vita.
XXXVIII.
Nè parlo io già così, perch’io dispere
Dell’ajuto certissimo d’Egitto:
Chè dubitar, se le promesse vere
300Sian del mio Re, non lece, e non è dritto;
Ma il dico sol, perchè desio vedere
In alcuni di noi spirto più invitto;
Ch’egualmente apprestato ad ogni sorte
304Si prometta vittoria, e sprezzi morte.
XXXIX.
Tanto sol disse il generoso Argante,
Quasi uom che parli di non dubbia cosa.
Poi sorse in autorevole sembiante
308Orcano, uom d’alta nobiltà famosa,
E già nell’arme d’alcun pregio avante;
Ma or congiunto a giovinetta sposa,
E lieto omai de’ figlj, era invilito
312Negli affetti di padre e di marito.
XL.
Disse questi: o Signor, già non accuso
Il fervor di magnifiche parole,
Quando nasce d’ardir che star rinchiuso
316Tra i confini del cor non può, nè vuole.
Però se ’l buon Circasso a te, per uso,
Troppo in vero parlar fervido suole,
Ciò si conceda a lui, chè poi nell’opre
320Il medesmo fervor non meno scopre.
XLI.
Ma si conviene a te, cui fatto il corso
Delle cose e de’ tempi han sì prudente,
Impor colà de’ tuoi consiglj il morso,
324Dove costui se ne trascorre ardente:
Librar la speme del lontan soccorso
Col periglio vicino, anzi presente:
E con l’arme, e con l’impeto nemico
328I tuoi novi ripari, e ’l muro antico.
XLII.
Noi (se lece a me dir quel ch’io ne sento)
Siamo in forte città di sito, e d’arte;
Ma di machine grande e violento
332Apparato si fa dall’altra parte.
Quel che sarà, non sò: spero, e pavento
I giudizj incertissimi di Marte:
E temo che s’a noi più fia ristretto
336L’assedio, alfin di cibo avrem difetto.
XLIII.
Perocchè quegli armenti, e quelle biade
Ch’jeri tu ricettasti entro le mura,
Mentre nel campo a insanguinar le spade
340S’attendea solo (e fu somma ventura)
Picciol’ esca a gran fame, ampia cittade
Nutrir mal ponno, se l’assedio dura:
E forza è pur che duri, ancorchè vegna
344L’oste d’Egitto il dì ch’ella disegna.
XLIV.
Ma che fia se più tarda? orsù concedo
Che tua speme prevenga, e sue promesse;
La vittoria però, però non vedo
348Liberate, o Signor, le mura oppresse.
Combatteremo, o Re, con quel Goffredo,
E con que’ Duci, e con le genti istesse
Che tante volte han già rotti e dispersi
352Gli Arabi, i Turchi, i Soriani, e i Persi.
XLV.
E quali sian tu ’l sai, chè lor cedesti
Sì spesso il campo, o valoroso Argante:
E sì spesso le spalle anco volgesti,
356Fidando assai nelle veloci piante:
E ’l sa Clorinda teco, ed io con questi:
Ch’un più dell’altro non convien si vante.
Nè incolpo alcuno io già, chè vi fu mostro
360Quanto potea maggiore il valor nostro.
XLVI.
E dirò pur, benchè costui di morte
Bieco minacci, e ’l vero udir si sdegni;
Veggio portar da inevitabil sorte
364Il nemico fatale a certi segni:
Nè gente potrà mai nè muro forte
Impedirlo così, ch’alfin non regni.
Ciò mi fa dir (sia testimonio il Cielo)
368Del Signor, della patria, amore e zelo.
XLVII.
O saggio il Re di Tripoli che pace
Seppe impetrar dai Franchi e regno insieme!
Ma il Soldano ostinato, o morto or giace
372O pur servil catena il piè gli preme:
O nell’esiglio, timido e fugace,
Si va serbando alle miserie estreme:
E pur, cedendo parte, avria potuto
376Parte salvar co’ doni e col tributo.
XLVIII.
Così diceva; e s’avvolgea costui
Con giro di parole obliquo e incerto;
Ch’a chieder pace, a farsi uom ligio altrui
380Già non ardia di consigliarlo aperto.
Ma sdegnoso il Soldano i detti sui
Non potea omai più sostener coperto;
Quando il Mago gli disse: or vuoi tu darli
384Agio, Signor, che in tal materia parli?
XLIX.
Io per me, gli risponde, or quì mi celo
Contra mio grado, e d’ira ardo e di scorno.
Ciò disse appena, e immantinente il velo
388Della nube, che stesa è lor d’intorno,
Si fende, e purga nell’aperto Cielo,
Ed ei riman nel luminoso giorno:
E magnanimamente in fiero viso
392Rifulge in mezzo, e lor parla improvviso:
L.
Io, di cui si ragiona, or son presente,
Non fugace e non timido Soldano:
Ed a costui, ch’egli è codardo e mente
396M’offero di provar con questa mano.
Io, che sparsi di sangue ampio torrente,
Che montagne di strage alzai sul piano,
Chiuso nel vallo de’ nemici, e privo
400Alfin d’ogni compagno; io fuggitivo?
Io di cui si ragiona, or son presente, |
LI.
Ma se più questi, o s’altri a lui simíle,
Alla sua patria, alla sua fede infido,
Motto osa far d’accordo infame e vile,
404Buon Re, sia con tua pace, io quì l’uccido.
Gli agni e i lupi fian giunti in un ovile,
E le colombe e i serpi in un sol nido,
Prima che mai, di non discorde voglia,
408Noi co’ Francesi alcuna terra accoglia.
LII.
Tien sulla spada, mentre ei sì favella,
La fera destra in minaccevol’atto.
Riman ciascuno, a quel parlare a quella
412Orribil faccia, muto e stupefatto.
Poscia, con vista men turbata e fella,
Cortesemente inverso il Re s’è tratto.
Spera, gli dice, alto Signor; ch’io reco
416Non poco ajuto: or Solimano è teco.
LIII.
Aladin, ch’a lui contra era già sorto,
Risponde: o come lieto or quì ti veggio,
Diletto amico! or del mio stuol ch’è morto
420Non sento il danno; e ben temea di peggio.
Tu lo mio stabilire, e in tempo corto
Puoi ridrizzare il tuo caduto seggio,
Se ’l Ciel nol vieta. Indi le braccia al collo,
424Così detto, gli stese e circondollo.
LIV.
Finita l’accoglienza, il Re concede
Il suo medesmo soglio al gran Niceno.
Egli poscia a sinistra in nobil sede
428Si pone, ed al suo fianco alluoga Ismeno.
E mentre seco parla ed a lui chiede
Di lor venuta, ed ei risponde appieno,
L’alta Donzella ad onorar in pria
432Vien Solimano: ogni altro indi seguia.
LV.
Seguì fra gli altri Ormusse, il qual la schiera
Di quegli Arabi suoi a guidar tolse:
E mentre la battaglia ardea più fera,
436Per disusate vie così s’avvolse,
Ch’ajutando il silenzio, e l’aria nera,
Lei salva alfin nella Città raccolse:
E con le biade, e co’ rapiti armenti
440Aita porse alle affamate genti.
LVI.
Sol con la faccia torva e disdegnosa
Tacito si rimase il fer Circasso:
A guisa di leon, quando si posa,
444Girando gli occhj, e non movendo il passo:
Ma nel Soldan feroce alzar non osa
Orcano il volto, e ’l tien pensoso e basso.
Così a consiglio il Palestin tiranno
448E ’l Re de’ Turchi, e i cavalier quì stanno.
LVII.
Ma il pio Goffredo la vittoria e i vinti
Avea seguiti, e libere le vie:
E fatto intanto ai suoi guerrieri estinti
452L’ultimo onor di sacre esequie e píe.
Ed ora agli altri impon che siano accinti
A dar l’assalto nel secondo díe:
E, con maggiore e più terribil faccia,
456Di guerra i chiusi barbari minaccia.
LVIII.
E perchè conosciuto avea il drappello,
Ch’ajutò lui contra la gente infida,
Esser de’ suoi più cari, ed esser quello
460Che già seguì l’insidiosa guida:
E Tancredi con lor, che nel castello
Prigion restò della fallace Armida;
Nella presenza sol dell’Eremita
464E d’alcuni più saggj a se gl’invita.
LIX.
E dice lor: prego ch’alcun racconti
De’ vostri brevi errori il dubbio corso:
E come poscia vi trovaste pronti
468In sì grand’uopo a dar sì gran soccorso.
Vergognando tenean basse le fronti:
Ch’era al cor picciol fallo amaro morso.
Alfin del Re Britanno il chiaro figlio
472Ruppe il silenzio, e disse, alzando il ciglio:
LX.
Partimmo noi, che fuor dell’urna a sorte
Tratti non fummo, ognun per se nascoso,
D’Amor (nol nego) le fallaci scorte
476Seguendo; e un bel volto insidioso
Per vie ne trasse disusate e torte:
Fra noi discordi, e in se ciascun geloso,
Nutrian gli amori, e i nostri sdegni (ahi tardi
480Troppo il conosco!) or parolette, or guardi.
LXI.
Alfin giungemmo al loco, ove già scese
Fiamma dal Cielo in dilatate falde:
E di natura vendicò le offese
484Sovra le genti in mal oprar sì salde.
Fu già terra feconda, almo paese,
Or acque son bituminose e calde,
E steril lago: e quanto ei torce e gira,
488Compressa è l’aria, e grave il puzzo spira.
LXII.
Questo è lo stagno in cui nulla di greve
Si getta mai che giunga insino al basso;
Ma in guisa pur d’abete, o d’orno leve,
492L’uom vi sornuota, e ’l duro ferro, e ’l sasso.
Siede in esso un castello: e stretto e breve
Ponte concede a’ peregrini il passo.
Ivi n’accolse: e non so con qual’arte,
496Vaga è là dentro, e ride ogni sua parte.
LXIII.
V’è l’aura molle, e ’l Ciel sereno, e lieti
Gli alberi e i prati, e pure e dolci l’onde:
Ove fra gli amenissimi mirteti
500Sorge una fonte, e un fiumicel diffonde.
Piovono in grembo all ’erbe i sonni queti
Con un soave mormorio di fronde:
Cantan gli augelli; i marmi io taccio e l’oro
504Meravigliosi d’arte, e di lavoro.
LXIV.
Apprestar su l’erbetta, ov’è più densa
L’ombra, e vicino al suon delle acque chiare,
Fece di sculti vasi altera mensa,
508E ricca di vivande elette e care.
Era quì ciò ch’ogni stagion dispensa:
Ciò che dona la terra, o manda il mare:
Ciò che l’arte condisce; e cento belle
512Servivano al convito accorte ancelle.
LXV.
Ella d’un parlar dolce, e d’un bel riso
Temprava altrui cibo mortale e rio.
Or, mentre ancor ciascuno a mensa assiso
516Beve con lungo incendio un lungo oblio,
Sorse, e disse: or quì riedo; e con un viso
Ritornò poi non sì tranquillo e pio.
Con una man picciola verga scuote:
520Tien l’altra un libro, e legge in basse note.
LXVI.
Legge la Maga: ed io pensiero e voglia
Sento mutar, mutar vita ed albergo.
(Strana virtù!) novo piacer m’invoglia:
524Salto nell’acqua, e mi vi tuffo e immergo.
Non so come ogni gamba entro s’accoglia,
Come l’un braccio e l’altro entri nel tergo.
M’accorcio, e stringo: e su la pelle cresce
528Squammoso il cuojo, e d’uom son fatto un pesce.
LXVII.
Così ciascun degli altri anco fu volto,
E guizzò meco in quel vivace argento.
Quale allor mi foss’io, come di stolto
532Vano e torbido sogno, or men rammento.
Piacquele alfin tornarci il proprio volto:
Ma tra la meraviglia e lo spavento
Muti eravam; quando, turbata in vista,
536In tal guisa minaccia e ne contrista:
LXVIII.
Ecco a voi noto è il mio poter, ne dice,
E quanto sopra voi l’impero ho pieno:
Pende dal mio voler ch’altri infelice
540Perda, in prigione eterna, il Ciel sereno:
Altri divenga augello: altri radice
Faccia, e germogli nel terrestre seno:
O che s’induri in selce, o in molle fonte
544Si liquefaccia, o vesta irsuta fronte.
LXIX.
Ben potete schivar l’aspro mio sdegno,
Quando servire al mio piacer v’aggrade:
Farvi Pagani, e per lo nostro regno
548Contra l’empio Buglion mover le spade.
Ricusar tutti, ed abborrir l’indegno
Patto: solo a Rambaldo il persuade.
Noi (chè non val difesa) entro una buca,
552Di laccj avvolse, ove non è che luca.
LXX.
Poi nel castello istesso a sorte venne
Tancredi, ed egli ancor fu prigioniero.
Ma poco tempo in carcere ci tenne
556La falsa Maga: e (s’io n’intesi il vero)
Di seco trarne da quell’empia ottenne
Del Signor di Damasco un messaggiero:
Ch’al Re d’Egitto in don, fra cento armati,
560Ne conduceva inermi e incatenati.
LXXI.
Così ce n’andavamo: e come l’alta
Provvidenza del Cielo ordina e move,
Il buon Rinaldo, il qual più sempre esalta
564La gloria sua con opre eccelse e nuove,
In noi s’avviene, e i cavalieri assalta
Nostri custodi, e fa le usate prove:
Gli uccide e vince, e di quell’arme loro
568Fa noi vestir, che nostre in prima foro.
LXXII.
Io ’l vidi, e ’l vider questi: e da lui porta
Ci fu la destra, e fu sua voce udita.
Falso è il romor che quì risuona e porta
572Sì rea novella, e salva è la sua vita:
Ed oggi è il terzo dì che, con la scorta
D’un peregrin, fece da noi partita
Per girne in Antiochia: e pria depose
576L’arme che rotte aveva e sanguinose.
LXXIII.
Così parlava; e l’Eremita intanto
Volgeva al Cielo l’una e l’altra luce.
Non un color, non serba un volto: o quanto
580Più sacro e venerabile or riluce!
Pieno di Dio, ratto dal zelo, accanto
Alle angeliche menti ei si conduce:
Gli si svela il futuro, e nell’eterna
584Serie degli anni e delle età s’interna.
LXXIV.
E la bocca sciogliendo, in maggior suono,
Scopre le cose altrui ch’indi verranno.
Tutti conversi alle sembianze, al tuono
588Dell’insolita voce attenti stanno.
Vive, dice, Rinaldo: e le altre sono
Arti e bugie di femminile inganno:
Vive, e la vita giovinetta acerba
592A più mature glorie il Ciel riserba.
LXXV.
Presagj sono, e fanciulleschi affanni
Questi, ond’or l’Asia lui conosce, e noma.
Ecco chiaro vegg’io, correndo gli anni,
596Ch’egli s’oppone all’empio Augusto, e ’l doma:
E sotto l’ombra degli argentei vanni
L’Aquila sua copre la Chiesa, e Roma,
Che della fera avrà tolte agli artiglj:
600E ben di lui nasceran degni i figlj.
LXXVI.
De’ figlj i figlj, e chi verrà da quelli
Quinci avran chiari e memorandi esempj:
E da’ Cesari ingiusti, e da’ rubelli
604Difenderan le mitre, e i sacri tempj.
Premer gli alteri, e sollevar gl’imbelli,
Difender gli innocenti, e punir gli empj
Fian l’arti lor: così verrà, che vole
608L’Aquila Estense oltra le vie del Sole.
LXXVII.
E dritto è ben che, se ’l ver mira e ’l lume,
Ministri a Pietro i folgori mortali.
U’ per Cristo si pugni, ivi le piume
612Spiegar dee sempre invitte e trionfali:
Chè ciò per suo nativo alto costume
Dielle il Cielo, e per leggi a lei fatali.
Onde piace là su, ch’a questa degna
616Impresa, onde partì, chiamata vegna.
LXXVIII.
Con questi detti ogni timor discaccia
Di Rinaldo concetto il saggio Piero.
Sol nel plauso comune avvien che taccia
620Il pio Buglione immerso in gran pensiero.
Sorge intanto la notte, e su la faccia
Della terra distende il velo nero.
Vansene gli altri, e dan le membra al sonno;
624Ma i suoi pensieri in lui dormir non ponno.