< Gerusalemme liberata
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Canto Diciannovesimo
Canto diciottesimo Canto ventesimo


C. XIX.
Vista la faccia scolorita e bella,
Non scese no, precipitò di sella.


ARGOMENTO.

     Intera palma del famoso Argante
Tancredi ottiene in singolar tenzone.
Salvo è il Re nella rocca. Erminia ha innante
Vafrino; e questa a lui gran cose espone.
Riede instrutto: ella è seco; e ’l caro amante
Di lei trovano esangue in sul sabbione.
Piange ella, e ’l cura poi. Goffredo intende
Quali insidie il Pagan contra gli tende.



CANTO DECIMONONO.


I.


G la morte, o il consiglio, o la paura
Dalle difese ogni Pagano ha tolto:
E sol non s’è dall’espugnate mura
4Il pertinace Argante anco rivolto.
Mostra ei la faccia intrepida e sicura,
E pugna pur fra gli avversarj avvolto,
Più che morir, temendo esser rispinto:
8E vuol morendo anco parer non vinto.

II.


     Ma sovra ogni altro feritore infesto
Sovraggiunge Tancredi e lui percote.
Ben è il Circasso a riconoscer presto,
12Al portamento agli atti all’arme note,
Lui che pugnò già seco, e ’l giorno sesto
Tornar promise, e le promesse ir vote.
Onde gridò: così la fe, Tancredi,
16Mi servi tu? così alla pugna or riedi?

III.


     Tardi riedi, e non solo. Io non rifiuto
Però combatter teco, e riprovarmi;
Benchè non qual guerrier, ma quì venuto
20Quasi inventor di machine tu parmi.
Fatti scudo de’ tuoi: trova in ajuto
Novi ordigni di guerra, e insolite armi;
Chè non potrai dalle mie mani, o forte
24Delle donne uccisor, fuggir la morte.

IV.


     Sorrise il buon Tancredi un cotal riso
Di sdegno, e in detti alteri ebbe risposto:
Tardo è il ritorno mio; ma pur avviso
28Che frettoloso e’ ti parrà ben tosto:
E bramerai che te da me diviso
O l’alpe avesse, o fosse il mar frapposto;
E che del mio indugiar non fu cagione
32Tema o viltà, vedrai col paragone.

V.


     Vienne in disparte pur, tu che omicida
Sei de’ giganti solo e degli eroi:
L’uccisor delle femmine ti sfida.
36Così gli dice: indi si volge ai suoi,
E fa ritrargli dall’offesa, e grida:
Cessate pur di molestarlo or voi:
Ch’è proprio mio più che comun nemico
40Questi, ed a lui mi stringe obbligo antico.

VI.


     Or discendine giù solo, o seguíto
Come più vuoi (ripiglia il fier Circasso)
Và in frequentato loco, od in romíto,
44Chè per dubbio, o svantaggio io non ti lasso.
Sì fatto ed accettato il fero invito,
Muovon concordi alla gran lite il passo.
L’odio in un gli accompagna, e fa il rancore
48L’un nemico dell’altro or difensore.

VII.


     Grande è il zelo d’onor, grande il desire
Che Tancredi del sangue ha del Pagano;
Nè la sete ammorzar crede dell’ire,
52Se n’esce stilla fuor per altrui mano.
E con lo scudo il copre, e: non ferire,
Grida a quanti rincontra anco lontano:
Sì che salvo il nemico infra gli amici
56Tragge dall’arme irate e vincitrici.

VIII.


     Escon della Cittade, e dan le spalle
Ai padiglion delle accampate genti:
E se ne van dove un girevol calle
60Gli porta per secreti avvolgimenti:
E ritrovano ombrosa angusta valle
Tra più colli giacer; non altrimenti
Che se fosse un teatro: o fosse ad uso
64Di battaglie, e di cacce intorno chiuso.

IX.


     Quì si fermano entrambi: e pur sospeso
Volgeasi Argante alla Cittade afflitta.
Vede Tancredi che ’l Pagan difeso
68Non è di scudo, e ’l suo lontano ei gitta.
Poscia lui dice: or qual pensier t’ha preso?
Pensi ch’è giunta l’ora a te prescritta?
S’antivedendo ciò timido stai,
72È il tuo timore intempestivo omai.

X.


     Penso, risponde, alla Città del regno
Di Giudea antichissima Regina,
Che vinta or cade; e indarno esser sostegno
76Io procurai della fatal ruina.
E ch’è poca vendetta al mio disdegno
Il capo tuo, che ’l Cielo or mi destina.
Tacque, e incontra si van con gran risguardo:
80Chè ben conosce l’un l’altro gagliardo.

XI.


     È di corpo Tancredi agile e sciolto,
E di man velocissimo, e di piede.
Sovrasta a lui con l’alto capo, e molto
84Di grossezza di membra Argante eccede.
Girar Tancredi inchino, e in se raccolto
Per avventarsi, e sottentrar si vede:
E con la spada sua la spada trova
88Nemica, e in disviarla usa ogni prova.

XII.


     Ma disteso ed eretto il fero Argante
Dimostra arte simíle, atto diverso.
Quanto egli può va col gran braccio innante:
92E cerca il ferro no, ma il corpo avverso;
Quel tenta aditi novi in ogni instante:
Questi gli ha il ferro al volto ogn’or converso.
Minaccia, e intento a proibirgli stassi
96Furtive entrate, e subiti trapassi.

XIII.


     Così pugna naval, quando non spira
Per lo piano del mare Africo o Noto,
Fra due legni ineguali egual si mira;
100Ch’un d’altezza preval, l’altro di moto.
L’un con volte e rivolte assale e gira
Da prora a poppa: e si sta l’altro immoto;
E quando il più leggier se gli avvicina,
104D’alta parte minaccia alta ruina.

XIV.


     Mentre il Latin di sottentrar ritenta,
Sviando il ferro che si vede opporre,
Vibra Argante la spada, e gli appresenta
108La punta agli occhj: egli al riparo accorre;
Ma lei sì presta allor, sì violenta
Cala il Pagan, che ’l difensor precorre,
E ’l fere al fianco; e visto il fianco infermo
112Grida: lo schermitor vinto è di schermo.

XV.


     Fra lo sdegno Tancredi e la vergogna
Si rode, e lascia i soliti riguardi:
E in cotal guisa la vendetta agogna,
116Che sua perdita stima il vincer tardi.
Sol risponde col ferro alla rampogna,
E ’l drizza all’elmo, ove apre il passo ai guardi.
Ribatte Argante il colpo, e risoluto
120Tancredi a mezza spada è già venuto.

XVI.


     Passa veloce allor col piè sinestro,
E con la manca al dritto braccio il prende;
E con la destra intanto il lato destro
124Di punte mortalissime gli offende.
Questa, diceva, al vincitor maestro
Il vinto schermidor risposta rende.
Freme il Circasso, e si contorce, e scuote,
128Ma il braccio prigionier ritrar non puote.

XVII.


     Alfin lasciò la spada alla catena
Pendente, e sotto al buon Latin si spinse.
Fè l’istesso Tancredi, e con gran lena
132L’un calcò l’altro, e l’un l’altro ricinse.
Nè con più forza dall’adusta arena
Sospese Alcide il gran gigante, e strinse,
Di quella onde facean tenaci nodi
136Le nerborute braccia in varj modi.

XVIII.


     Tai fur gli avvolgimenti e tai le scosse,
Ch’ambi in un tempo il suol presser col fianco.
Argante, od arte o sua ventura fosse,
140Sovra ha il braccio migliore, e sotto il manco.
Ma la man ch’è più atta alle percosse,
Sottogiace impedita al guerrier Franco,
Ond’ei, che ’l suo svantaggio e ’l rischio vede,
144Si sviluppa dall’altro, e salta in piede.

XIX.


     Sorge più tardi, e un gran fendente, in prima
Che sorto ei sia, vien sopra al Saracino.
Ma come all’Euro la frondosa cima
148Piega, e in un tempo la solleva il pino,
Così lui sua virtute alza e sublima,
Quando ei ne gía per ricader più chino.
Or ricomincian quì colpi a vicenda.
152La pugna ha manco d’arte, ed è più orrenda.

XX.


     Esce a Tancredi in più d’un loco il sangue;
Ma ne versa il Pagan quasi torrenti.
Già nelle sceme forze il furor langue,
156Siccome fiamma in deboli alimenti.
Tancredi che ’l vedea col braccio esangue
Girar i colpi ad or ad or più lenti,
Dal magnanimo cor deposta l’ira,
160Placido gli ragiona, e ’l piè ritira.

XXI.


     Cedimi, uom forte; o riconoscer voglia
Me per tuo vincitore, o la Fortuna.
Nè ricerco da te trionfo, o spoglia:
164Nè mi riserbo in te ragione alcuna.
Terribile il Pagan, più che mai soglia,
Tutte le furie sue desta e raguna.
Risponde: or dunque il meglio aver ti vante,
168Ed osi di viltà tentare Argante?

XXII.


     Usa la sorte tua; chè nulla io temo:
Nè lascerò la tua follia impunita.
Come face rinforza anzi l’estremo
172Le fiamme, e luminosa esce di vita;
Tal riempiendo ei d’ira il sangue scemo,
Rinvigorì la gagliardía smarrita:
E l’ore della morte omai vicine
176Volle illustrar con generoso fine.

XXIII.


     La man sinistra alla compagna accosta,
E con ambe congiunte il ferro abbassa:
Cala un fendente: e benchè trovi opposta
180La spada ostil, la sforza ed oltre passa:
Scende alla spalla, e giù di costa in costa
Molte ferite in un sol punto lassa.
Se non teme Tancredi, il petto audace
184Non fè natura di timor capace.

XXIV.


     Quel doppia il colpo orribile, ed al vento
Le forze e l’ire inutilmente ha sparte:
Perchè Tancredi, alla percossa intento,
188Se ne sottrasse, e si lanciò in disparte.
Tu, dal tuo peso tratto, in giù col mento
N’andasti, Argante, e non potesti aitarte:
Per te cadesti; avventuroso intanto,
192Ch’altri non ha di tua caduta il vanto.

XXV.


     Il cader dilatò le piaghe aperte,
E ’l sangue espresso dilagando scese.
Punta ei la manca in terra, e si converte,
196Ritto sovra un ginocchio, alle difese:
Renditi, grida: e gli fa nuove offerte,
Senza nojarlo, il vincitor cortese.
Quegli di furto intanto il ferro caccia,
200E sul tallone il fiede: indi il minaccia.

XXVI.


     Infuriossi allor Tancredi, e disse:
Così abusi, fellon, la pietà mia?
Poi la spada gli fisse, e gli rifisse
204Nella visiera, ove accertò la via.
Moriva Argante, e tal moría qual visse:
Minacciava morendo, e non languia.
Superbi, formidabili, e feroci
208Gli ultimi moti fur, l’ultime voci.

XXVII.


     Ripon Tancredi il ferro, e poi devoto
Ringrazia Dio del trionfal onore.
Ma lasciato di forze ha quasi vuoto
212La sanguigna vittoria il vincitore.
Teme egli assai che del viaggio al moto
Durar non possa il suo fievol vigore.
Pur s’incammina, e così passo passo
216Per le già corse vie move il piè lasso.

XXVIII.


     Trar molto il debil fianco oltra non puote,
E quanto più si sforza, più s’affanna.
Onde in terra s’asside, e pon le gote
220Su la destra che par tremula canna.
Ciò che vedea, pargli veder che rote:
E di tenebre il dì già gli s’appanna.
Al fin isviene: e ’l vincitor dal vinto
224Non ben saria, nel rimirar, distinto.

XXIX.


     Mentre quì segue la solinga guerra,
Che privata cagion fè così ardente,
L’ira de’ vincitor trascorre, ed erra
228Per la Città sul popolo nocente.
Or chi giammai dell’espugnata terra
Potrebbe appien l’immagine dolente
Ritrarre in carte? od adeguar, parlando,
232Lo spettacolo atroce e miserando?

XXX.


     Ogni cosa di strage era già pieno:
Vedeansi in mucchj e in monti i corpi avvolti.
Là i feriti su i morti, e quì giacieno
236Sotto morti insepolti egri sepolti.
Fuggian, premendo i pargoletti al seno,
Le meste madri co’ capelli sciolti;
E ’l predator, di spoglie e di rapine
240Carco, stringea le vergini nel crine.

XXXI.


     Ma per le vie che al più sublime colle
Saglion verso Occidente, ov’è il gran Tempio,
Tutto del sangue ostíle orrido e molle
244Rinaldo corre, e caccia il popolo empio.
La fera spada il generoso estolle
Sovra gli armati capi, e ne fa scempio.
È schermo frale ogni elmo ed ogni scudo:
248Difesa è quì l’esser dell’arme ignudo.

XXXII.


     Sol contra il ferro il nobil ferro adopra,
E sdegna negl’inermi esser feroce:
E quei ch’ardir non armi, arme non copra,
252Caccia col guardo, e con l’orribil voce.
Vedresti, di valor mirabil opra,
Come or disprezza, ora minaccia, or nuoce;
Come con rischio disegual fugati
256Sono egualmente pur nudi ed armati.

XXXIII.


     Già col più imbelle volgo anco ritratto
S’è non picciolo stuol del più guerriero
Nel Tempio che, più volte arso e rifatto,
260Si noma ancor, dal fondator primiero,
Di Salomone; e fu per lui già fatto
Di cedri, e d’oro, e di bei marmi altero.
Or non sì ricco già; pur saldo e forte
264È d’alte torri, e di ferrate porte.

XXXIV.


     Giunto il gran Cavaliero ove raccolte
S’eran le turbe in loco ampio e sublime;
Trovò chiuse le porte, e trovò molte
268Difese apparecchiate in su le cime.
Alzò lo sguardo orribile, e due volte
Tutto il mirò dall’alte parti all’ime,
Varco angusto cercando; ed altrettante
272Il circondò con le veloci piante.

XXXV.


     Qual lupo predatore all’aer bruno
Le chiuse mandre insidiando aggira,
Secco l’avide fauci, e nel digiuno
276Da nativo odio stimolato e d’ira;
Tale egli intorno spia s’adito alcuno
(Piano od erto che siasi) aprirsi mira.
Si ferma alfin nella gran piazza: e d’alto
280Stanno aspettando i miseri l’assalto.

XXXVI.


     In disparte giacea (qual che si fosse
L’uso a cui si serbava) eccelsa trave:
Nè così alte mai, nè così grosse
284Spiega l’antenne sue Ligura nave.
Ver la gran porta il Cavalier la mosse
Con quella man, cui nessun pondo è grave:
E recandosi lei di lancia in modo,
288Urtò d’incontro impetuoso e sodo.

XXXVII.


     Restar non può marmo o metallo innanti
Al duro urtare, al riurtar più forte.
Svelse dal sasso i cardini sonanti:
292Ruppe i serraglj, ed abbattè le porte.
Non l’ariete di far più si vanti;
Non la bombarda fulmine di morte.
Per la dischiusa via la gente inonda,
296Quasi un diluvio, e ’l vincitor seconda.

XXXVIII.


     Rende misera strage atra e funesta
L’alta magion, che fu magion di Dio.
O giustizia del Ciel, quanto men presta
300Tanto più grave sovra il popol rio!
Dal tuo secreto provveder fu desta
L’ira ne’ cor pietosi, e incrudelío.
Lavò col sangue suo l’empio Pagano
304Quel tempio che già fatto avea profano.

XXXIX.


     Ma intanto Soliman ver la gran torre
Ito se n’è, che di David s’appella:
E quì fa de’ guerrier l’avanzo accorre,
308E sbarra intorno e questa strada e quella:
E ’l Tiranno Aladino anco vi corre.
Come il Soldan lui vede, a lui favella:
Vieni, o famoso Re, vieni, e là sovra
312Alla rocca fortissima ricovra.

XL.


     Chè dal furor delle nemiche spade
Guardar vi puoi la tua salute, e ’l regno.
Oimè, risponde, oimè, che la Cittade
316Strugge dal fondo suo barbaro sdegno:
E la mia vita, e ’l nostro imperio cade.
Vissi, e regnai: non vivo or più, nè regno.
Ben si può dir: noi fummo; a tutti è giunto
320L’ultimo dì, l’inevitabil punto.

XLI.


     Ov’è, Signor, la tua virtute antica?
(Disse il Soldan tutto cruccioso allora)
Tolgaci i regni pur sorte nemica;
324Chè ’l regal pregio è nostro, e in noi dimora.
Ma colà dentro omai dalla fatica
Le stanche e gravi tue membra ristora.
Così gli parla; e fa che si raccoglia
328Il vecchio Re nella guardata soglia.

XLII.


     Egli ferrata mazza a due man prende,
E si ripon la fida spada al fianco.
E stassi al varco intrepido, e difende
332Il chiuso delle strade al popol Franco.
Eran mortali le percosse orrende:
Quella che non uccide, atterra almanco.
Già fugge ogn’un dalla sbarrata piazza,
336Dove appressar vede l’orribil mazza.

XLIII.


     Ecco, da fera compagnia seguíto,
Sopraggiungeva il Tolosan Raimondo.
Al periglioso passo il vecchio ardito
340Corse, e sprezzò di quei gran colpi il pondo.
Primo ei ferì; ma invano ebbe ferito:
Non ferì invano il feritor secondo;
Chè in fronte il colse, e l’atterrò col peso
344Supin, tremante, a braccia aperte, e steso.

XLIV.


     Finalmente ritorna anco ne’ vinti
La virtù che ’l timore avea fugata:
E i Franchi vincitori o son rispinti,
348O pur caggiono uccisi in su l’entrata.
Ma il Soldan, che giacere infra gli estinti
Il tramortito duce ai piè si guata,
Grida ai suoi cavalier: costui sia tratto
352Dentro alle sbarre, e prigionier sia fatto.

XLV.


     Si movon quegli ad eseguir l’effetto;
Ma trovan dura e faticosa impresa:
Perchè non è d’alcun de’ suoi negletto
356Raimondo, e corron tutti in sua difesa.
Quinci furor, quindi pietoso affetto
Pugna: nè vil cagione è di contesa.
Di sì grand’uom la libertà, la vita,
360Questi a guardar, quegli a rapir invita.

XLVI.


     Pur vinto avrebbe a lungo andar la prova
Il Soldano ostinato alla vendetta;
Ch’alla fulminea mazza oppor non giova
364O doppio scudo, o tempra d’elmo eletta:
Ma grande aita, a’ suoi nemici, e nova
Di qua di là vede arrivare in fretta:
Chè da’ due lati opposti, in un sol punto,
368Il sopran Duce e ’l gran Guerriero è giunto.

XLVII.


     Come pastor quando, fremendo intorno
Il vento e i tuoni, e balenando i lampi,
Vede oscurar di mille nubi il giorno,
372Ritrae la greggia dagli aperti campi:
E sollecito cerca alcun soggiorno
Ove l’ira del Ciel sicuro scampi;
Ei col grido indrizzando e con la verga
376Le mandre innanzi, agli ultimi s’atterga;

XLVIII.


     Così il Pagan, che già venir sentía
L’irreparabil turbo e la tempesta,
Che di fremiti orrendi il Ciel feria,
380D’arme ingombrando e quella parte e questa;
Le custodite genti innanzi invia
Nella gran torre, ed egli ultimo resta.
Ultimo parte, e sì cede al periglio,
384Ch’audace appare in provvido consiglio.

XLIX.


     Pur a fatica avvien che si ripari
Dentro alle porte, e le riserra appena;
Chè già, rotte le sbarre, ai limitari
388Rinaldo vien, nè quivi anco s’affrena.
Desio di superar chi non ha pari
In opra d’arme, e giuramento il mena:
Chè non oblia, che in voto egli promise
392Di dar morte a colui che ’l Dano uccise.

L.


     E ben allor allor l’invitta mano
Tentato avria l’inespugnabil muro:
Nè forse colà dentro era il Soldano
396Dal fatal suo nemico assai sicuro;
Ma già suona a ritratta il Capitano:
Già l’orizonte d’ogn’intorno è scuro.
Goffredo alloggia nella terra, e vuole
400Rinnovar poi l’assalto al novo Sole.

LI.


     Diceva ai suoi, lietissimo in sembianza,
Favorito ha il gran Dio l’armi Cristiane:
Fatto è il sommo de’ fatti, e poco avanza
404Dell’opra, e nulla del timor rimane.
La torre (estrema, e misera speranza
Degl’infedeli) espugnerem dimane.
Pietà frattanto a confortar v’inviti,
408Con sollecito amor, gli egri e i feriti.

LII.


     Ite, e curate quei c’han fatto acquisto
Di questa patria a noi col sangue loro.
Ciò più conviensi ai cavalier di Cristo,
412Che desio di vendetta o di tesoro.
Troppo, ahi troppo di strage oggi s’è visto,
Troppa in alcuni avidità dell’oro.
Rapir più oltra, e incrudelir i’ vieto.
416Or divulghin le trombe il mio divieto.

LIII.


     Tacque: e poi se n’andò là dove il Conte
Riavuto dal colpo anco ne geme.
Nè Soliman con meno ardita fronte
420Ai suoi ragiona, e ’l duol nell’alma preme:
Siate, o compagni, di Fortuna all’onte
Invitti, insin che verde è fior di speme:
Chè sotto alta apparenza di fallace
424Spavento, oggi men grave il danno giace.

LIV.


     Prese i nemici han sol le mura e i tetti
E ’l volgo umil, non la Cittade han presa:
Chè nel capo del Re, ne’ vostri petti,
428Nelle man vostre è la Città compresa.
Veggio il Re salvo, e salvi i suoi più eletti:
Veggio che ne circonda alta difesa.
Vano trofeo d’abbandonata terra
432Abbiansi i Franchi, alfin perdran la guerra.

LV.


     E certo i’ son che perderanla alfine;
Chè nella sorte prospera insolenti
Fian volti agli omicidj, alle rapine,
436Ed agl’ingiuriosi abbracciamenti:
E saran di leggier tra le ruine,
Tra gli stupri e le prede oppressi e spinti,
Se in tanta tracotanza omai sorgiunge
440L’oste d’Egitto: e non puote esser lunge.

LVI.


     Intanto noi signoreggiar co’ sassi
Potrem della Città gli alti edificj:
Ed ogni calle, onde al Sepolcro vassi,
444Torran le nostre machine ai nemici.
Così, vigor porgendo ai cor già lassi,
La speme rinnovò negl’infelici.
Or mentre quì tai cose eran passate,
448Errò Vafrin tra mille schiere armate.

LVII.


     All’esercito avverso eletto in spia,
Già declinando il Sol, partì Vafrino:
E corse oscura e solitaria via
452Notturno e sconosciuto peregrino.
Ascalona passò, che non uscia
Dal balcon d’Oriente anco il mattino.
Poi, quando è nel meriggio il solar lampo,
456A vista fu del poderoso campo.

LVIII.


     Vide tende infinite, e ventilanti
Stendardi in cima azzurri e persi e gialli;
E tante udì lingue discordi, e tanti
460Timpani e corni e barbari metalli,
E voci di cammelli, e d’elefanti,
Tra ’l nitrir de’ magnanimi cavalli,
Che fra se disse: quì l’Africa tutta
464Translata viene, e quì l’Asia è condutta.

LIX.


     Mira egli alquanto pria come sia forte
Del campo il sito, e qual vallo il circonde.
Poscia non tenta vie furtive e torte:
468Nè dal frequente popolo s’asconde;
Ma, per dritto sentier, tra regie porte
Trapassa, ed or dimanda ed or risponde.
A dimande a risposte astute e pronte
472Accoppia baldanzosa audace fronte.

LX.


     Di qua di là sollecito s’aggira
Per le vie, per le piazze, e per le tende.
I guerrier, i destrier, l’arme rimira;
476L’arti, e gli ordini osserva, e i nomi apprende.
Nè di ciò pago, a maggior cose aspira:
Spia gli occulti disegni, e parte intende.
Tanto s’avvolge, e così destro e piano,
480Ch’adito s’apre al padiglion soprano.

LXI.


     Vede, mirando quì, sdruscita tela,
Ond’ha varco la voce, onde si scerne:
Che là proprio risponde, ove son de la
484Stanza regal le ritirate interne:
Sicchè i secreti del signor mal cela
Ad uom ch’ascolti dalle parti esterne.
Vafrin vi guata, e par ch’ad altro intenda,
488Come sia cura sua conciar la tenda.

LXII.


     Stavasi il Capitan la testa ignudo,
Le membra armato, e con purpureo ammanto.
Lunge due paggj avean l’elmo e lo scudo.
492Preme egli un’asta, e vi s’appoggia alquanto.
Guardava un uom di torvo aspetto e crudo,
Membruto, ed alto, il qual gli era da canto.
Vafrino è attento, e di Goffredo a nome
496Parlar sentendo, alza gli orecchj al nome.

LXIII.


     Parla il Duce a colui: dunque sicuro
Sei così tu di dar morte a Goffredo?
Risponde quegli: io sonne, e in corte giuro
500Non tornar mai, se vincitor non riedo.
Preverrò ben color che meco furo
Al congiurare: e premio altro non chiedo,
Se non ch’io possa un bel trofeo dell’armi
504Drizzar nel Cairo, e sottopor tai carmi:

LXIV.


     Queste arme in guerra al Capitan Francese,
Distruggitor dell’Asia, Ormondo trasse,
Quando gli trasse l’alma; e le sospese,
508Perchè memoria ad ogni età ne passe.
Non fia (l’altro dicea) che ’l Re cortese
L’opera grande inonorata lasse.
Ben ei darà ciò che per te si chiede;
512Ma congiunto l’avrai d’alta mercede.

LXV.


     Or apparecchia pur l’armi mentite:
Chè ’l giorno omai della battaglia è presso.
Son, rispose, già preste; e quì finite
516Queste parole, e ’l Duce tacque, ed esso.
Restò Vafrino, alle gran cose udite,
Sospeso e dubbio, e rivolgea in se stesso
Qual’arti di congiura, e quali sieno
520Le mentite arme, e nol comprese appieno.

LXVI.


     Indi partissi; e quella notte intera
Desto passò, ch’occhio serrar non volse.
Ma, quando poi di novo ogni bandiera
524All’aure mattutine il campo sciolse,
Anch’ei marciò con l’altra gente in schiera:
Fermossi anch’egli ov’ella albergo tolse:
E pur anco tornò di tenda in tenda
528Per udir cosa, onde il ver meglio intenda.

LXVII.


     Cercando trova in sede alta e pomposa
Fra cavalieri Armida, e fra donzelle:
Che stassi in se romíta, e sospirosa
532Fra se co’ suoi pensier par che favelle.
Su la candida man la guancia posa,
E china a terra le amorose stelle.
Non sa se pianga o no: ben può vederle
536Umidi gli occhj, e gravidi di perle.

LXVIII.


     Vedele incontra il fero Adrasto assiso
Che par ch’occhio non batta e che non spiri;
Tanto da lei pendea: tanto in lei fiso
540Pasceva i suoi famelici desiri!
Ma Tisaferno, or l’uno or l’altro in viso
Guardando, or vien che brami, or che s’adiri:
E segna il mobil volto or di colore
544Di rabbioso disdegno, ed or d’amore.

LXIX.


     Scorge poscia Altamor che, in cerchio accolto
Fra le donzelle, alquanto era in disparte.
Non lascia il desir vago a freno sciolto;
548Ma gira gli occhj cupidi con arte.
Volge un guardo alla mano, uno al bel volto:
Talora insidia più guardata parte:
E là s’interna ove mal cauto apria,
552Fra due mamme, un bel vel secreta via.

LXX.


     Alza alfin gli occhj Armida, e pur alquanto
La bella fronte sua torna serena;
E repente fra i nuvoli del pianto
556Un soave sorriso apre, e balena.
Signor, dicea, membrando il vostro vanto,
L’anima mia puote scemar la pena:
Chè d’esser vendicata in breve aspetta:
560E dolce è l’ira in aspettar vendetta.

LXXI.


     Risponde l’Indian: la fronte mesta
Deh, per Dio, rasserena, e ’l duolo alleggia:
Ch’assai tosto avverrà che l’empia testa
564Di quel Rinaldo a piè tronca ti veggia:
O menarolti prigionier con questa
Ultrice mano, ove prigion tu ’l chieggia.
Così promisi in voto; or l’altro, ch’ode,
568Motto non fa; ma tra suo cor si rode.

LXXII.


     Volgendo in Tisaferno il dolce sguardo:
Tu, che dici, Signor? colei soggiunge.
Risponde egli infingendo: io, che son tardo,
572Seguiterò il valor così da lunge
Di questo tuo terribile e gagliardo:
E con tai detti amaramente il punge.
Ripiglia l’Indo allor: ben è ragione,
576Che lunge segua, e tema il paragone.

LXXIII.


     Crollando Tisaferno il capo altero
Disse: o foss’io signor del mio talento:
Libero avessi in questa spada impero;
580Chè tosto e’ si parria chi sia più lento.
Non temo io te, nè i tuoi gran vanti, o fero;
Ma il Cielo, e ’l mio nemico amor pavento.
Tacque; e sorgeva Adrasto a far disfida;
584Ma la prevenne, e s’interpose Armida.

LXXIV.


     Diss’ella: o Cavalier, perchè quel dono,
Donatomi più volte, anco togliete?
Miei campion sete voi; pur esser buono
588Dovria tal nome a por tra voi quiete.
Meco s’adira, chi s’adira: io sono
Nell’offese l’offesa; e voi ’l sapete.
Così lor parla; e così avvien che accordi
592Sotto giogo di ferro alme discordi.

LXXV.


     È presente Vafrino, e ’l tutto ascolta:
E, sottrattone il vero, indi si toglie.
Spia dell’alta congiura, e lei ravvolta
596Trova in silenzio, e nulla ne raccoglie.
Chiedene improntamente anco talvolta:
E la difficoltà cresce le voglie.
O quì lasciar la vita egli è disposto,
600O riportarne il gran secreto ascosto.

LXXVI.


     Mille e più vie d’accorgimento ignote,
Mille e più pensa inusitate frodi.
E pur con tutto ciò non gli son note
604Dell’occulta congiura o l’arme, o i modi.
Fortuna alfin (quel ch’ei per se non puote)
Isviluppò d’ogni suo dubbio i nodi.
Sì ch’ei distinto e manifesto intese,
608Come l’insidie al pio Buglion sian tese.

LXXVII.


     Era tornato ov’è pur anco assisa,
Fra’ suoi campioni, la nemica amante:
Ch’ivi opportun l’investigarne avvisa,
612Ove traean genti sì varie e tante.
Or quì s’accosta a una donzella, in guisa
Che par che v’abbia conoscenza innante;
Par v’abbia d’amistade antica usanza,
616E ragiona in affabile sembianza.

LXXVIII.


     Egli dicea, quasi per gioco, anch’io
Vorrei d’alcuna bella esser campione:
E troncar penserei col ferro mio
620Il capo o di Rinaldo o del Buglione.
Chiedila pure a me, se n’hai desio,
La testa d’alcun barbaro barone.
Così comincia, e pensa appoco appoco
624A più grave parlar ridurre il gioco.

LXXIX.


     Ma in questo dir sorrise, e fè, ridendo,
Un cotal atto suo nativo usato.
Una dell’altre allor quì sorgiungendo,
628L’udì, guardollo, e poi gli venne a lato;
Disse: involarti a ciascun’altra intendo:
Nè ti dorrai d’amor male impiegato.
In mio campion t’eleggo; ed in disparte,
632Come a mio cavalier, vuò ragionarte.

LXXX.


     Ritirollo, e parlò: riconosciuto
Ho te, Vafrin, tu me conoscer dei:
Nel cor turbossi lo scudiero astuto;
636Pur si rivolse, sorridendo, a lei:
Non t’ho (che mi sovvenga) unqua veduto;
E degna pur d’esser mirata sei.
Questo so ben, ch’assai vario da quello,
640Che tu dicesti, è il nome, ond’io m’appello.

LXXXI.


     Me, su la piaggia di Biserta apríca,
Lesbin produsse, e mi nomò Almanzorre:
Tosto, disse ella, ho conoscenza antica,
644D’ogni esser tuo: nè già mi voglio apporre.
Non ti celar da me, ch’io sono amica,
Ed in tuo pro vorrei la vita esporre.
Erminia son, già di Re figlia, e serva
648Poi di Tancredi un tempo, e tua conserva.

LXXXII.


     Nella dolce prigion due lieti mesi
Pietoso prigionier m’avesti in guarda:
E mi servisti in bei modi cortesi.
652Ben dessa i’ son, ben dessa i’ son: riguarda.
Lo scudier, come pria v’ha gli occhj intesi,
La bella faccia a ravvisar non tarda.
Vivi (ella soggiungea) da me sicuro:
656Per questo Ciel, per questo Sol te ’l giuro.

LXXXIII.


     Anzi pregar ti vuò che, quando torni,
Mi riconduca alla prigion mia cara.
Torbide notti e tenebrosi giorni,
660Misera, vivo in libertate amara.
E se quì per ispia forse soggiorni,
Ti si fa incontro alta fortuna e rara.
Saprai da me congiure, e ciò ch’altrove
664Malagevol sarà che tu ritrove.

LXXXIV.


     Così gli parla; e intanto ei mira e tace;
Pensa all’esempio della falsa Armida.
Femina è cosa garrula e fallace:
668Vuole, e disvuole: è folle uom che sen fida.
Sì tra se volge: or se venir ti piace,
Alfin le disse, io ne sarò tua guida.
Sia fermato tra noi questo e conchiuso
672Serbisi il parlar d’altro a miglior uso.

LXXXV.


     Gli ordini danno di salire in sella
Anzi il mover del campo allora allora.
Parte Vafrin del padiglione, ed ella
676Si torna all’altre, e alquanto ivi dimora.
Di scherzar fa sembiante, e pur favella
Del campion novo, e se ne vien poi fuora:
Viene al loco prescritto, e s’accompagna:680Ed escon poi del campo alla campagna.

LXXXVI.


     Già eran giunti in parte assai romíta:
E già sparian le Saracine tende;
Quando ei le disse: or dì come alla vita
684Del pio Goffredo altri l’insidie tende.
Allor colei della congiura ordita
L’iniqua tela a lui dispiega e stende.
Son (gli divisa) otto guerrier di Corte,
688Tra’ quali il più famoso è Ormondo il forte.

LXXXVII.


     Questi (che che lor mova, odio o disdegno)
Han conspirato, e l’arte lor fia tale:
Quel dì che in lite verrà d’Asia il regno,
692Tra’ duo’ gran campi in gran pugna campale;
Avran su l’arme della Croce il segno,
E l’arme avranno alla Francesca: e quale
La guardia di Goffredo ha bianco e d’oro
696Il suo vestir, sarà l’abito loro.

LXXXVIII.


     Ma ciascun terrà cosa in su l’elmetto,
Che noto a’ suoi per uom Pagano il faccia.
Quando fia poi rimescolato e stretto
700L’un campo e l’altro, elli porransi in traccia,
E insidieranno al valoroso petto,
Mostrando di custodi amica faccia.
E ’l ferro armato di veleno avranno,
704Perchè mortal sia d’ogni piaga il danno.

LXXXIX.


     E perchè fra’ Pagani anco risassi
Ch’io so vostri usi, ed arme, e sopravveste;
Fer che le false insegne io divisassi,708E fui costretta ad opere moleste.
Queste son le cagion che ’l campo io lassi:
Fuggo l’imperiose altrui richieste.
Schivo ed abborro in qual si voglia modo
712Contaminarmi in atto alcun di frodo.

XC.


     Queste son le cagion, ma non già sole;
E quì si tacque, e di rossor si tinse,
E chinò gli occhj, e l’ultime parole
716Ritener volle, e non ben le distinse.
Lo scudier, che da lei ritrar pur vuole
Ciò ch’ella vergognando in se ristrinse,
Di poca fede, disse, or perchè cele
720Le più vere cagioni al tuo fedele?

XCI.


     Ella dal petto un gran sospiro apriva,
E parlava con suon tremante e roco:
Mal guardata vergogna intempestiva,
724Vattene omai; non hai tu quì più loco.
A chè pur tenti, o in van ritrosa e schiva,
Celar col foco tuo d’amore il foco?
Debiti fur questi rispetti innante;728Non or, che fatta son donzella errante.

XCII.


     Soggiunse poi: la notte a me fatale,
Ed alla patria mia che giacque oppressa,
Perdei più che non parve: e ’l mio gran male
732Non ebbi in lei; ma derivò da essa.
Lieve perdita è il regno; io col regale
Mio alto stato anco perdei me stessa;
Per mai non ricovrarla, allor perdei
736La mente folle, e ’l core, e i sensi miei.

XCIII.


     Vafrin, tu sai, che timidetta accorsi,
Tanta strage vedendo e tante prede,
Al tuo signore e mio, che prima i’ scorsi
740Armato por nella mia reggia il piede:
E chinandomi a lui tai voci porsi:
Invitto vincitor, pietà, mercede:
Non prego io te per la mia vita: il fiore
744Salvami sol del verginale onore.

XCIV.


     Egli, la sua porgendo alla mia mano,
Non aspettò che ’l mio pregar finisse:
Vergine bella, non ricorri in vano;748Io ne sarò tuo difensor, mi disse.
Allora un non so chè soave e piano
Sentii ch’al cor mi scese, e vi s’affisse:
Che serpendomi poi per l’alma vaga,
752Non so come, divenne incendio e piaga.

XCV.


     Visitommi egli spesso, e in dolce suono,
Consolando il mio duol, meco si dolse;
Dicea: l’intera libertà ti dono,
756E delle spoglie mie spoglia non volse.
Oimè, che fu rapina e parve dono:
Chè rendendomi a me da me mi tolse.
Quel mi rendè ch’è via men caro e degno;760Ma s’usurpò del core, a forza, il regno.

XCVI.


     Mal amor si nasconde. A te sovente
Desiosa i’ chiedea del mio signore.
Veggendo i segni tu d’inferma mente:
764Erminia, mi dicesti, ardi d’amore.
Io te ’l negai; ma un mio sospiro ardente
Fu più verace testimon del core:
E in vece forse della lingua, il guardo
768Manifestava il foco onde tutt’ardo.

XCVII.


     Sfortunato silenzio; avessi io almeno
Chiesta allor medicina al gran martíre;
S’esser poscia dovea lentato il freno,
772Quando non gioverebbe, al mio desire.
Partimmi in somma, e le mie piaghe in seno
Portai celate, e ne credei morire.
Alfin, cercando al viver mio soccorso,
776Mi sciolse amor d’ogni rispetto il morso.

XCVIII.


     Sicchè a trovarne il mio signor io mossi,
Ch’egra mi fece, e mi potea far sana.
Ma tra via fero intoppo attraversossi
780Di gente inclementissima e villana.
Poco mancò che preda lor non fossi;
Pur in parte fuggimmi erma e lontana:
E colà vissi, in solitaria cella,
784Cittadina di boschi e pastorella.

XCIX.


     Ma poichè quel desio, che fu ripresso
Alcun dì per la tema, in me risorse;
Tornarmi ritentando al loco stesso,
788La medesma sciagura anco m’occorse.
Fuggir non potei già; ch’era omai presso
Predatrice masnada, e troppo corse.
Così fui presa: e quei che mi rapiro
792Egizj fur, ch’a Gaza indi sen giro.

C.


     E in don menarmi al Capitano, a cui
Diedi di me contezza, e ’l persuasi,
Sicch’onorata, e inviolata fui
796Que’ dì che con Armida ivi rimasi.
Così venni più volte in forza altrui,
E men sottrassi: ecco i miei duri casi.
Pur le prime catene anco riserva
800La tante volte liberata, e serva.

CI.


     Oh! pur colui, che circondolle intorno
All’alma sì che non fia chi le scioglia,
Non dica: errante ancella, altro soggiorno
804Cercati pure: e me seco non voglia;
Ma pietoso gradisca il mio ritorno,
E nell’antica mia prigion m’accoglia.
Così diceagli Erminia: e insieme andaro
808La notte e ’l giorno ragionando a paro.
   

CII.


     Il più usato sentier lasciò Vafrino,
Calle cercando o più sicuro o corto.
Giunsero in loco alla Città vicino,
812Quando è il Sol nell’Occaso, e imbruna l’Orto:
E trovaron di sangue atro il cammino:
E poi vider nel sangue un guerrier morto,
Che le vie tutte ingombra, e la gran faccia
816Tien volta ai Cielo, e morto anco minaccia.
   

CIII.


     L’uso dell’arme, e ’l portamento estrano
Pagan mostrarlo: e lo scudier trascorse.
Un altro alquanto ne giacea lontano,
820Che tosto agli occhj di Vafrino occorse.
Egli disse fra se: questi è Cristiano.
Più il mise poscia il vestir bruno in forse.
Salta di sella, e gli discopre il viso:
824Ed oimè, grida, è quì Tancredi ucciso.
   

CIV.


     A riguardar sovra il guerrier feroce
La male avventurosa era fermata;
Quando dal suon della dolente voce
828Per lo mezzo del cor fu saettata.
Al nome di Tancredi ella veloce
Accorse in guisa d’ebra e forsennata.
Vista la faccia scolorita e bella,
832Non scese no, precipitò di sella.
   

CV.


     E in lui versò d’inessicabil vena
Lacrime, e voce di sospiri mista:
In che misero punto or quì mi mena
836Fortuna! ah che veduta amara e trista!
Dopo gran tempo i’ ti ritrovo appena,
Tancredi, e ti riveggio, e non son vista;
Vista non son da te, benchè presente,
840E trovando ti perdo eternamente.
   

CVI.


     Misera, non credea ch’agli occhj miei
Potessi in alcun tempo esser nojoso:
Or cieca farmi volentier torrei
844Per non vederti, e riguardar non oso.
Oimè! de’ lumi già sì dolci e rei
Ov’è la fiamma? ov’è il bel raggio ascoso?
Delle fiorite guancie il bel vermiglio
848Ov’è fuggito? ov’è il seren del ciglio?
   

CVII.


     Ma chè? squallido e scuro anco mi piaci;
Anima bella, se quinci entro gire,
S’odi il mio pianto, alle mie voglie audaci
852Perdona il furto, e ’l temerario ardire.
Dalle pallide labbra i freddi bacj,
Che più caldi sperai, vuò pur rapire.
Parte torrò di sue ragioni a morte,
856Baciando queste labbra esangui e smorte.
   

CVIII.


     Pietosa bocca, che solevi in vita
Consolar il mio duol di tue parole,
Lecito sia ch’anzi la mia partita
860D’alcun tuo caro bacio io mi console.
E forse allor, s’era a cercarlo ardita,
Quel davi tu, ch’ora convien che invole.
Lecito sia ch’ora ti stringa, e poi
864Versi lo spirto mio fra i labbri tuoi.
   

CIX.


     Raccogli tu l’anima mia seguace:
Drizzala tu dove la tua sen gío.
Così parla gemendo, e si disface
868Quasi per gli occhj, e par conversa in rio.
Rivenne quegli a quell’umor vivace,
E le languide labbra alquanto aprío:
Aprì le labbra, e, con le luci chiuse,
872Un suo sospir con que’ di lei confuse.
   

CX.


     Sente la donna il cavalier che geme;
E forza è pur che si conforti alquanto.
Apri gli occhj, Tancredi, a queste estreme
876Esequie, grida, ch’io ti fo col pianto.
Riguarda me, chè vuò venirne insieme
La lunga strada, e vuò morirti accanto.
Riguarda me: non ten fuggir sì presto.
880L’ultimo don ch’io ti dimando è questo.
   

CXI.


     Apre Tancredi gli occhj, e poi gli abbassa
Torbidi e gravi: ed ella pur si lagna.
Dice Vafrino a lei: questi non passa;
884Curisi adunque prima, e poi si piagna.
Egli il disarma: ella tremante e lassa
Porge la mano all’opere compagna.
Mira, e tratta le piaghe, e di ferute
888Giudice esperta, spera indi salute.
   

CXII.


     Vede che ’l mal dalla stanchezza nasce,
E dagli umori in troppa copia sparti.
Ma non ha, fuor che un velo, onde gli fasce
892Le sue ferite in sì solinghe parti.
Amor le trova inusitate fasce,
E di pietà le insegna insolite arti:
Le asciugò con le chiome, e rilegolle
896Pur con le chiome che troncarsi volle;
   

CXIII.


     Perocchè ’l velo suo bastar non puote,
Breve e sottile, alle sì spesse piaghe.
Dittamo e croco non avea; ma note
900Per uso tal sapea potenti e maghe.
Già il mortifero sonno ei da se scuote:
Già può le luci alzar mobili e vaghe.
Vede il suo servo, e la pietosa donna
904Sopra si mira in peregrina gonna.

CXIV.


     Chiede: o Vafrin, quì come giungi, e quando?
E tu chi sei, medica mia pietosa?
Ella fra lieta e dubbia, sospirando,
908Tinse il bel volto di color di rosa.
Saprai, rispose, il tutto: or (te ’l comando,
Come medica tua) taci, e riposa.
Salute avrai: prepara il guiderdone.
912Ed al suo capo il grembo indi soppone.

CXV.


     Pensa intanto Vafrin come all’ostello
Agiato il porti anzi più fosca sera:
Ed ecco di guerrier giunge un drappello.
916Conosce ei ben che di Tancredi è schiera.
Quando affrontò il Circasso, e per appello
Di battaglia chiamollo, insieme egli era.
Non seguì lui, perch’ei non volle allora,
920Poi dubbioso il cercò della dimora.

CXVI.


     Seguian molti altri la medesma inchiesta;
Ma ritrovarlo avvien che lor succeda.
Delle stesse lor braccia essi han contesta
924Quasi una sede, ov’ei s’appoggi, e sieda.
Disse Tancredi allora: adunque resta
Il valoroso Argante ai corvi in preda?
Ah per Dio non si lasci, e non si frodi
928O della sepoltura, o delle lodi.

CXVII.


     Nessuna a me, col busto esangue e muto,
Riman più guerra; egli morì qual forte:
Onde a ragion gli è quell’onor dovuto,
932Che solo in terra avanzo è della morte.
Così, da molti ricevendo ajuto,
Fa che ’l nemico suo dietro si porte.
Vafrino al fianco di colei si pose,
936Siccome uom suole alle guardate cose.

CXVIII.


     Soggiunse il Prence: alla Città regale,
Non alle tende mie vuò che si vada;
Chè s’umano accidente a questa frale
940Vita sovrasta, è ben ch’ivi m’accada.
Chè ’l loco ove morì l’uomo immortale,
Può forse al Cielo agevolar la strada:
E sarà pago un mio pensier devoto
944D’aver peregrinato al fin del voto.

CXIX.


     Disse; e colà portato egli fu posto
Sovra le piume, e ’l prese un sonno cheto.
Vafrino alla donzella, e non discosto,
948Ritrova albergo assai chiuso e secreto.
Quinci s’invia, dov’è Goffredo: e tosto
Entra, chè non gli è fatto alcun divieto:
Sebben allor della futura impresa
952In bilance i consiglj appende, e pesa.

CXX.


     Del letto, ove la stanca egra persona
Posa Raimondo, il Duce è sulla sponda:
E d’ogn’intorno nobile corona
956De’ più potenti e più saggj il circonda.
Or, mentre lo scudiero a lui ragiona,
Non v’è chi d’altro chieda, o chi risponda.
Signor, dicea, come imponesti andai
960Tra gl’infedeli, e ’l campo lor cercai.

CXXI.


     Ma non aspettar già che di quell’oste
L’innumerabil numero ti conti.
I’ vidi che, al passar, le valli ascoste
964Sotto e’ teneva e i piani tutti e i monti.
Vidi che dove giunga, ove s’accoste,
Spoglia la terra, e secca i fiumi e i fonti:
Perchè non bastan l’acque alla lor sete:
968E poco è lor ciò che la Siria miete.

CXXII.


     Ma sì de’ cavalier, sì de’ pedoni
Sono in gran parte inutili le schiere:
Gente che non intende ordini o suoni,
972Nè stringe ferro, e di lontan sol fere.
Ben ve ne sono alquanti eletti e buoni
Che seguite di Persia han le bandiere.
E forse squadra anco migliore è quella
976Che la squadra immortal del Re s’appella.

CXXIII.


     Ella è detta immortal, perchè difetto
In quel numero mai non fu pur d’uno:
Ma empie il loco voto, e sempre eletto
980Sottentra uom novo, ove ne manchi alcuno.
Il Capitan del campo, Emiren detto,
Pari ha in senno e in valor pochi o nessuno.
E gli comanda il Re che provocarti
984Debba a pugna campal con tutte l’arti.

CXXIV.


     Nè credo già che al dì secondo tardi
L’esercito nemico a comparire.
Ma tu Rinaldo assai convien che guardi
988Il capo, ond’è fra lor tanto desire:
Chè i più famosi in arme, e i più gagliardi
Gli hanno incontra arrotato il ferro e l’ire:
Perchè Armida se stessa in guiderdone,
992A qual di loro il troncherà, propone.

CXXV.


     Fra questi è il valoroso e nobil Perso:
Dico Altamoro il Re di Sarmacante.
Adrasto v’è che ha il regno suo là verso
996I confin dell’Aurora, ed è gigante:
Uom d’ogni umanità così diverso,
Che frena per cavallo un elefante.
V’è Tisaferno a cui, nell’esser prode,
1000Concorde fama dà sovrana lode.

CXXVI.


     Così dice egli; e ’l Giovinetto in volto
Tutto scintilla, ed ha negli occhj il foco.
Vorria già tra’ nemici essere avvolto:
1004Nè cape in se, nè ritrovar può loco.
Quinci Vafrino al Capitan rivolto:
Signor, soggiunse, insin quì detto è poco.
La somma delle cose or quì si chiuda:
1008Impugneransi in te l’arme di Giuda.

CXXVII.


     Di parte in parte poi tutto gli espose
Ciò che di fraudolente in lui si tesse:
L’arme, e ’l velen, le insegne insidiose,
1012Il vanto udito, i premj, e le promesse.
Molto chiesto gli fu, molto rispose:
Breve tra lor silenzio indi successe.
Poscia innalzando il Capitano il ciglio
1016Chiede a Raimondo: Or qual’è il tuo consiglio?

CXXVIII.


     Ed egli: È mio parer ch’ai novi albóri,
Come concluso fu, più non s’assaglia;
Ma si stringa la torre: onde uscir fuori
1020Chi dentro stassi a suo piacer non vaglia:
E posi il nostro campo, e si ristori
Frattanto ad uopo di maggior battaglia.
Pensa poi tu s’è meglio usar la spada
1024Con forza aperta, o ’l gir tenendo a bada.

CXXIX.


     Mio giudizio è però ch’a te convegna
Di te stesso curar sovra ogni cura;
Chè per te vince l’oste, e per te regna.
1028Chi senza te l’indrizza, e l’assicura?
E perchè i traditor non celi insegna;
Mutar le insegne a’ tuoi guerrier procura.
Così la fraude a te palese fatta
1032Sarà da quel medesmo in chi s’appiatta.

CXXX.


     Risponde il capitan: come hai per uso,
Mostri amico volere e saggia mente;
Ma quel che dubbio lasci, or sia conchiuso.
1036Uscirem contro alla nemica gente.
Nè già star deve in muro o in vallo chiuso
Il campo domator dell’Oriente.
Sia da quegli empj il valor nostro esperto
1040Nella più aperta luce, in loco aperto.

CXXXI.


     Non sosterran delle vittorie il nome,
Non che de’ vincitor l’aspetto altero,
Non che l’arme: e lor forze saran dome,
1044Fermo stabilimento al nostro impero.
La torre o tosto renderassi, o come
Altri nol vieti, il prenderla è leggiero.
Quì il magnanimo tace, e fa partita;
1048Chè ’l cader delle stelle al sonno invita.

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