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XXXIII
CONTRO L’IGNORANZA E L’AVARIZIA DEI PRINCIPI
A Gaspare de Simeonibus
Giá d’una piva insuperbito e vano,
che gli pendea dal setoloso collo,
si gonfiò, si levò satiro insano,
ch’osò sfidar, prosuntuoso, Apollo.
— O tu — dicea, — che con aurato scettro
ti fai signor de l’eliconio fiume,
non ti vantar s’hai ne la mano il plettro,
ché non è tuo, ma del cillenio nume.
Cedi il tuo vanto all’armonia ch’io reco
con una canna industrïosa ed alma;
ma se ceder non vuoi, pròvati meco,
e premio sia del vincitor la palma.
Prendi il telar de le tue varie corde
ove in musica tela ordisci il suono,
e vedi poi chi nel sonar concorde
fa di noi due piú grazïoso il tuono.
Io d’armoniche fila ordine industre
luminoso non ho pettine bello;
ma con un legno ruvido e palustre
ti sfido intanto a singoiar duello. —
Udio la voce il biondo arcier canoro
del vantator del rusticale arnese,
ed armando la man di cetra d’oro,
guerrier canoro a la disfida scese.
Cinto colá da montanaro stuolo,
fatto l’arcade re giudice al canto,
dal commune parer discorde ei solo
il castalio signor pospose al vanto.
Di ciò sdegnato il sagittario biondo,
ch’è de la lira armonïoso arciero,
per castigar tanta follia nel mondo,
rese a Mida l’orecchio ispido e nero.
Ma per coprir l’ingiurïoso scorno,
che deforme rendea la regia testa,
la corona adoprò ch’intorno intorno
di scoltura gemmata era contesta.
Con esempio sí bello attica musa
sotto favola finta il ver ragiona:
che spesso mente torbida e confusa
va sotto ricca imperïal corona.
Chiude orecchio di Mida in aurea fascia
ricco signor, che vanitá gradisce;
perir gl’ingegni amaramente lascia,
le muse sprezza e le virtú bandisce.
Negletti in corte, i peregrini cigni
agiato nido al poetar non hanno;
sotto fèro tenor d’astri maligni
d’una in altra cittá dispersi vanno.
Non è chi merchi i lor soavi accenti,
sol per desio d’immortalarsi almeno;
per inchiostri non cambia ori ed argenti,
cosí bollente ha d’avarizia il seno.
Va ne le reggie a celebrar talora
gli eroici vanti un peregrino ingegno;
ei mal gradito e mal veduto ancora,
premio non trova al suo gran merto degno.
Contro irata fortuna ei per riparo
una povera lira in man si prende;
un frutto coglie in guiderdone amaro,
ch’inasprisce la lingua e ’l gusto offende.
Deh, tornate a la luce, al mondo, voi,
Mecenati famosi, eccelsi Augusti,
ch’i poetici ingegni e i sacri eroi
accoglieste a tutt’or pietosi e giusti.
Oggi al mondo non è chi largo e pio
amico venga a sollevar le muse;
per cibo un lauro e per bevanda un rio
hanno, in cima ad un colle accolte e chiuse.
Piú d’un nobile ingegno e piú d’un vate
sotto scarso destin perir si vede;
ma colpa sol de la moderna etate,
che nega avara a la virtú mercede.
Tesse eroico scrittor bellici vanti,
con la penna intrecciando almi episodi;
ma dai versi non prende altro che vanti
e per lodi non coglie altro che lodi.
Sparge in mezzo a le corti un’aurea vena
di faconda armonia, ch’in versi scioglie;
ma da mano real cortese e piena,
vena prodiga d’òr giamai non coglie.
Stima il garrulo vulgo un che togato
giudica ne le rote i dritti e i torti;
un ch’ha la lite e la discordia a lato,
cicalator, mormorator di corti;
un che d’Astrea torcendo i puri sensi,
la nuda veritá veste di frode;
corvo inuman, ch’ove a litigio viensi
de l’altrui mal come suo ben si gode.
E chi d’Apollo imitator ne l’arte
ai bianchi cigni è in puritá simile,
chi spira amor da le sue belle carte,
come inutile e vano ei prende a vile.
Oh di secolo pravo insania folle,
che l’umano giudizio ombra ed appanna!
Parolette e menzogne il mondo estolle,
e i poetici studi a terra danna.
Ma stiasi pur nel suo parer fallace
la sciocca plebe a vil guadagno intesa,
ch’in sí povero stato avendo io pace,
lasciar non vo’ l’incominciata impresa.
Benché frutti non abbia il sacro monte
e miniere produr non sappia d’auro,
benché poveri umor stilli il suo fonte,
in sí povero umor prendo ristauro.
Piú mi giova raccòr sterile alloro
tra i silenzi di Pindo alti e divini,
che tra i fremiti rei del rauco fòro
di fruttifera palma ornarmi i crini.
M’è piú grato fra cigni essere accolto,
lunge avendo da me discordie e liti,
che di garrulo stuol, fallace e stolto,
i vani applausi e i popolari inviti.
Leggi e riti d’Astrea né do né prendo,
nel causidico fòro amati tanto;
reggo me stesso, e quelle norme apprendo,
che fan puro lo stil, perfetto il canto.