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IX.
Giacinta scriveva. Vedendo entrare sua madre, fece atto di levarsi dal tavolino; ma questa le accennò di non muoversi e andò a sedersi sulla poltroncina accosto.
— Dobbiamo un po’ ragionare insieme.
Insospettita di quell’aria benevola, di quella dolcezza di voce, Giacinta si volse con tutto il suo corpo verso sua madre, strizzando gli occhi e le labbra, tra curiosa e diffidente.
— Tu non sei più una bambina — prese a dire la signora Marulli. — Hai già messo allegramente il tuo piedino nella società. Ma se ti figuri ch’essa sia sempre quale appare in un salotto, in una festa, dove tutti sorridono, si divertono e scambiano strette di mano...
Giacinta accennò negativamente col capo, ma sua madre non se n’accorse.
— T’inganni — continuò. — Il mondo è un castello da espugnare. La forza qualche volta riesce: l’arte e l’avvedutezza quasi sempre... Noi non siamo ricche — soggiunse dopo una piccola pausa.
Giacinta la fissò, sorpresa.
— Non siamo ricche — ripetè la signora Marulli, che aveva capito. — Se possiamo fare certe spese... sappi che è frutto delle economie di parecchi anni; alcune, le più grosse, sono un credito sull’avvenire... Siamo costrette a farle, per l’apparenza...
— Insomma, che cosa vuoi dirmi? — interruppe Giacinta spazientita.
— Voglio dirti — e lasciava cadere le parole lentamente — che da ora in poi tu devi pensare al posto da farti nella società...
— Va bene; ci penserò...
La sua voce s’era a un tratto turbata. Mentre la madre parlava con gli occhi fissi al tagliacarte preso in mano e che voltava e rivoltava, Giacinta non aveva cessato di guardarla in viso. C’era un che di volpino in quegli occhi piccoli e vivacissimi, in quella fronte piatta con la pelle lucida, tirata, e le sopracciglia sottili, in quel naso profilato, cartilaginoso, colle pinne che si gonfiavano, a certi movimenti di quella bocca diritta, dalle labbra fini, con le pozzette ai lati su cui la peluria più addensata, metteva una piccante sfumatura di virilità... Giacinta sentiva rimescolarsi in fondo al cuore la sua indignazione di tant’anni.
— Parecchi giovani ti sono già attorno — riprese la Marulli, severa. — Tu intanto...
— Li lascerò fare.
A questa brusca interruzione la signora Teresa alzò la testa, come se le avessero dato una puntura alla schiena. Giacinta si levò da sedere.
— Senti, mamma! — disse. — Hai ragione; non sono più una bambina: devo pensare alla mia sorte, e ci penserò; lasciami fare. C’è un destino per tutti. Vo’ andargli incontro sbadatamente. Che te ne importa? Con te sarò sempre buona... Mi presterò a tutto... Hai veduto?... Mi son prestata per la festa di tre mesi fa, come se fosse stata davvero una festa data per me...
— Per chi dunque? — domandò la signora Teresa, fulminando la figlia col suo terribile sguardo.
— Non lo so!... Non vo’ saperlo...
Giacinta portò le mani alla faccia, singhiozzante, intanto che sua madre non rinveniva dalla sorpresa di quella resistenza affatto incredibile per lei; e la guardava muta, e le pinne del naso le si sollevavano nervosamente, ad ogni contrazione delle labbra fatta per contenersi.
— Tu sei ancora malata — disse, dopo alcuni istanti di silenzio. — Me ne accorgo. Questa mattina avresti fatto meglio a rimanertene a letto.
— No, mamma, sto bene... Ma tu hai ragione di dire così; è meglio spiegarsi. Sappi dunque che alla mia situazione, al mio avvenire ci ho pensato lungamente. Son cresciuta fin oggi quasi abbandonata a me stessa; lasciami continuare così. Non dubitare, non avrai noie per cagion mia. Le mie idee non sono assurde, vedrai... Ma lasciami libera, assolutamente, te ne prego!... In ogni caso, dovrò prendermela soltanto con me.
Aveva parlato a scatti, quasi facesse uno sforzo per frenar le parole, tenendo bassa la testa, con gli occhi fissi al pavimento, stirando qua e là convulsamente le pieghe sul davanti del vestito; e la signora Marulli seguiva macchinalmente con lo sguardo quel significativo arrabbattarsi delle mani di sua figlia, intanto che ogni parola di essa le martellava sul cuore; poi si rizzò, dominandosi a stento.
— Per ora in casa comando io! — disse con la voce turbata — Che t’immagini?... Che ti si è dato a intendere?... Son forse queste le lezioni apprese in collegio?
— Il collegio ci rende quali ci ricevette! — rispose Giacinta.
— Sei un’ingrataccia!
— No, mamma.
— Un’ingrataccia!... — replicò la signora Teresa. — Ma, bada, ve’! È bene che tu lo sappia: a me i romanzetti non garbano punto. So come troncarli: tientelo per detto.
— Se tu credi che io abbia dei romanzetti pel capo!
— Che significa dunque quel: lasciami libera?
— Te lo spiegherei se tu fossi più calma.
— Sono calma, calmissima; ci vuol altro per agitarmi. Che significa dunque?...
E aspettava la risposta mordendosi il mignolo, col gomito appoggiato sull’altro braccio piegato sotto il seno, scotendo irrequietamente un piede...
Giacinta esitava.
— Significa — poi disse — che l’avvenire è ancora lontano...; che, per ora, nè io nè te dobbiamo... legarci le mani. Credimi, ho in orrore la società, benchè la conosca assai poco... Non darti pensiero di me... Se dovrò prender marito, non prenderò che una persona di mia scelta, risolutamente... a costo di farti dispiacere... Ma non lo prenderò, mamma... Ho un presentimento... Che so?... Ecco... non riesco a spiegarmi... Non darti più pensiero del mio avvenire... Non ci penserò nemmeno io... Qualcosa nascerà... vedrai... Però, te lo ripeto, non avrai noie per cagion mia... Lasciami fare... anche una sciocchezza! Che te ne importa?...
La signora Teresa non aspettò che terminasse; le voltò le spalle, sbatacchiando l’uscio con violenza.
E Giacinta ricadde abbandonatamente sulla seggiola, sfinita dallo sforzo fatto e quasi sgomenta della piena coscienza di sè stessa acquistata in quel punto.