< Giacinta < Parte prima
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VI.

Un giorno era venuta Camilla per una visita.

Vedendola entrare rinfagottata in quel modo, con lo scialle spocchioso, con le dita piene di anelli e uno spillone grande come un quadrante di orologio sul petto, Giacinta, che si era un po’ rimescolata all’annunzio, non potè trattenersi dal ridere.

Camilla, ingrassata, ansimante per la fatica di aver montato tante scale, arrancava peggio di prima.

— Oh, la mia cara padroncina! Come si è fatta grande e bella, con la grazia di Dio!

Seduta con le gambe larghe, le mani sui ginocchi, parlava forte, fermandosi di tratto in tratto, come se le mancasse il respiro.

— Vista per istrada la signora, son venuta... La signora è in collera con me... oh, a torto! Ma io no: sempre la Camilla affezionata a questa casa dove ho servito per otto anni! — La mia bottega di ova e di pollame va benino. La Madonna m’aiuta!... Però mio marito... — Oh, cara, padroncina! Com’è bella! — mio marito comincia a ciurlarmi nel manico... Beve troppo!... Ieri per la prima volta mi ha picchiata!... Però, signorina, lavora tanto! Bisogna compatirlo.

Giacinta, guardandola, con un sorriso di diffidenza sulle labbra, la lasciava dire.

— Ho i miei difetti anch’io... Sempre con tanto di lingua!... Che posso farci?... Se non sbraito, mi par di scoppiare... Basta!... — La signora Teresa l’ha con me...Ma, Vergine Santa, Vergine Benedetta, non è vero nulla!... ho sempre tenuto la bocca cucita a refe doppio. Fu quella ciarlona della portinaia... mi lasci dire... Dio non gliene domandi conto lassù, requiesca in pace!... In quanto a me, signorina...

— State zitta, Camilla — la interruppe Marietta per sviare il discorso. — La signorina non si mescola nei fatti della mamma, voi lo sapete.

Ma quella volea votare il sacco, e si puliva colle dita le estremità della bocca fiorite di saliva.

— Ah! non si meritava questo! E non pensare che se non fosse stato per me... se non fosse stato per me!... L’ho riveduto, quel tristaccio, giorni addietro... È soldato ora... Un bell’arnese! — Deve dirglielo lei, cara padroncina alla mamma; deve dirglielo lei che la Camilla, poverina, non ci ha avuto nessuna colpa se la cosa si è risaputa...

Giacinta impallidiva, sudava fredda. Come sull’orlo di un precipizio, gli occhi le si intorbidavano; le girava il capo...Non comprendeva ancora, ma intravedeva che quello a cui la Camilla accennava, doveva essere stato qualcosa di infame!...

— Si sente male? — le domandò Marietta, accorgendosene.

— Un po’ di vertigine... non è nulla!

— Andate, andate, Camilla! La signorina non sta bene.

L’avrebbe pigliata per le spalle e ruzzolata di cima alla scala!

Camilla, ponzando, si levò finalmente da sedere.

— Signorina, dia retta a me, prenda un uovo fresco tutte le mattine, a bere, ancora caldo del calore della gallina... Mandi in bottega, alle otto. Ho una gallina nera che fa l’uovo tutti i giorni a quell’ora. Come se avesse l’orologio lì... E mi comandino pei polli. L’uovo, sa come si fa? Un buchino sopra, un buchino sotto, e si succhia da una parte. Una santa cosa!... Scappo... Non ho tempo da perdere, con la bottega... E se ne rammenti di dirlo alla mamma: polli, con due dita di grasso, ne ha soltanto la Camilla. Glielo garentisco, signorina... Si ricorda di quand’era bambina e mi diceva: sciancata! Ah! ah! ah!... Allora era alta così, una tombolina... Ora, Dio la benedica non si riconosce più... Se ne rammenti per la mamma, mi raccomando!

Quella notte, verso le due, Marietta andava in punta di piedi, a prendere un limone dalla credenza nella sala da pranzo e tornava lesta, in punta di piedi, in camera della padroncina.

Buttata sul letto, mezza spogliata, la faccia affogata fra i guanciali, i capelli disfatti e le mani che brancicavano le coperte, Giacinta singhiozzava, convulsa.

— Si calmi, signorina, si calmi! — ripeteva Marietta intanto che strizzava il limone in un bicchiere.

Poi, agitando la limonata per scioglier lo zucchero, si accostava al letto, aiutava Giacinta a sollevarsi e le metteva il bicchiere alle labbra.

— Beva, le farà bene...Si calmi, entri in letto, per carità; cerchi di riposarsi, di dormire. Io mi stenderò sul canapè... Si calmi, si calmi!

— Va’ — rispose Giacinta. — Non occorre che tu stia qui... Verrai un po’ per tempo domattina, senza aspettare che io suoni. Quella voce velata del gran pianto, straziava il cuore alla Marietta.

— Già la colpa è anche mia! — disse. — Se io non le avessi spiegato...

Le rannodò alla meglio i capelli disciolti, finì di spogliarla, aggiustò bene le coperte, ravviò un po’ la stanza, e con la candela in mano, tornò presso il letto:

— Mi lasci dormire qui, sul canapè — insisteva.

— Grazie; non occorre.

Marietta, appena in camera sua, lasciò cadere tutte ad una volta le sottane per terra, entrò d’un salto sotto le coltri e spense il lume.

— Povera signorina! — pensava. — Ma se noi, povera gente, ci si dovesse disperare per così poco!... Almeno io avevo ragione... Ci andava di mezzo una creaturina innocente... Quelli sì furono guai!... Povera signorina! Ha ragione anche lei.

Si era voltata e rivoltata più volte da un fianco all’altro; poi non si mosse più. Russava leggiermente.

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