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II.
La mattina che la signora Villa e le Maiocchi, mamma e figlia, eran venute in casa Marulli per vedere il corredo arrivato da Milano e da Vienna, Giacinta, più pallida del solito, con gli occhi infossati, pareva avesse pianto.
— Che hai? — le domandò la signora Villa.
— Nulla. Sto bene.
— Bene?... Ma se non ti si riconosce!
La Maiocchi aveva tirata la signora Teresa verso la finestra, mentre Elisa e la Villa mettevano sossopra mucchi di biancheria:
— Bada, Teresa! Quella ragazza si lascerebbe morire prima di dirti di no. Ma questo matrimonio..., non vedi?...
— È lei che l’ha voluto!
La signora Teresa s’irritava:
— Ve la prendete con me! Credete dunque che io menta?
— È proprio inesplicabile!
— Giulia, vieni qui; guarda che bellezza!
La signora Villa era in estasi davanti a certe camicie di Vienna. E la Maiocchi lodava, ammirava anche lei, facendo delle crollatine di testa, stringendo un pochino le labbra, e intanto osservava Giacinta di sbieco:
— Povera ragazza! Si consuma dal cordoglio di sposare quel grullo... A chi vuol darla a intendere sua madre?
— Bellissimo! Elegantissimo! Una magnificenza!
E la signora Villa faceva passare in mano dell’Elisa o della sua mamma, i diversi capi di biancheria, rimestando, posando un oggetto, tornando a riprenderlo per far meglio apprezzare il merletto, un ricamo o la qualità di una stoffa.
Giacinta stava zitta. E quando la signora Villa rivolgevasi a lei, rispondeva con un sorriso sforzato, con un monosillabo, sì o no; nauseata dell’odore di biancheria nuova, della fredda sensazione di liscio che le faceva correre dei brividi per la schiena, come se quelle lenzuola di tela di Olanda dovessero servire a involgerla morta, fra una o due settimane; come se quelle camicie dallo sparato orlato di trine dovessero servire soltanto ad abbigliarla per l’ultima volta.
— E sarebbe meglio!... Sarebbe meglio! — ripeteva da sè, andando dietro alle amiche che volevano visitare l’appartamento degli sposi...
— Una cosa provvisoria — diceva la signora Teresa, conducendole a traverso le impalcature e gli arnesi di ogni sorta che ingombravano il passaggio.
Gli operai si fermavano, tirandosi da parte, per lasciar passare quegli strascichi di gonne che sollevavano della polvere dappertutto. La signora Villa saltellava, di qua e di là, sugli arnesi buttati per terra, cacciando dei piccoli gridi, ridendo, facendo delle moine per la paura di conciarsi il vestito o di vedersi cascar addosso qualcosa dai palchi sotto i quali bisognava passare.
— Oh! Quell’appartamentino diventava un gioiello.
— Una cosa provvisoria — ripeteva la Marulli — Giacinta si è innamorata della palazzina qui accanto, ed è stata così sciocca da farlo capire. I proprietarii, naturalmente, ora la prendono per la gola.
— Lascia andare! Qui starai da regina!
Ma per le scale, nell’andar via, la Maiocchi diceva, in un orecchio alla Villa, che le Marulli avrebbero dovuto contentarsi di far le cose alla buona.
— Spendono e spandono, come se avessero in tasca dei milioni. Che ridicolaggine!
— E quella Giacinta che sembrava così savia!
— Se lasci mano libera alla Teresa, domani te n’avvedrai, come diceva quello!
— Dio! Mi son conciata!
La signora Maiocchi voleva montar subito in casa per ripulire la coda della veste da parecchi schizzi di calce e di tinta — Un abito rovinato! — Ma la Villa la trattenne.
— Che ne diceva lei? Dovevasi credere alle assicurazioni, e ai giuramenti della Teresa? Che pasticcio quel matrimonio! Eh?
— Lo temo anch’io. Povera ragazza!
— Ma sarà contessa — disse ingenuamente Elisa.
— Sciocchina! — rispose sua madre.