< Giacinta < Parte seconda
Questo testo è completo.
Parte seconda - III Parte seconda - V

IV.

Andrea, sbalordito, rimase un pochino nella stanza da giuoco, presso il tavolino dove il signor Marulli, il Porati e il Regio Procuratore facevano una partita a tressette; poi uscì nell’andito.

— Vuol nulla, signor Gerace?

Non aveva riconosciuto il giovane del suo barbiere mascherato a quel modo, in giubba e cravatta bianca.

— Grazie — rispose.

— Che confusione, signor Gerace! Non danno neppure il tempo di riempire i vassoi. Una porcheria!

Andrea lasciò che colui fosse sparito, e aperto un uscio, entrò, richiudendolo subito col paletto.

Il salottino, tappezzato di color verde cupo, con la lampada di bronzo pendente dal soffitto, aveva qualcosa di funebre. Andrea, quasi colpito da paura, girò gli occhi attorno. Un gran vaso di porcellana del Ginori, gl’intagli della consolle di ebano, le sbarre delle seggiole disposte in due righe presso la finestra, la tavola inglese di noce situata nel mezzo, le borchie di un album si accendevano di vivi riflessi fra la tinta scura delle pareti. Un piccolo canapè rannicchiavasi nell’ombra, a sinistra, in quel silenzio pieno d’un terrore indefinito.

— Perchè era venuto lì?... Ah!... Ella voleva parlargli! Dunque sentiva il bisogno di scolparsi, di domandargli perdono? Che poteva mai dirgli?... Il cuore di quella ragazza era proprio un enigma!

Non poteva star fermo; le gambe gli formicolavano. E si rigirava pel salottino, ora guardando la figurina di donna, incipriata e scollacciata, colle labbra rosse rosse, dipinta nel medaglione del vaso di porcellana, fissandola con attenzione, come se non avesse avuto altro da fare: ora svoltando le grosse pagine dell’album, dagli orli dorati, senza nemmeno osservare i ritratti; ora accostandosi all’uscio per origliare fra il rumore lontano della festa che arrivava, indistinto, fin lì.

— Ballavano una mazurka!... Com’era eterna! E se sopraggiungeva qualcuno?... Giacinta tardava troppo... Già non doveva essere facile scomparire da una festa, con tanti noiosi attorno... E se non le riusciva? Fino a che ora doveva attendere?

Il cuore gli diè un balzo. Chi parlava nella stanza accanto? Trattenne il fiato; ma non afferrava le parole, non riconosceva le voci.

— Non posso; sto male. Trova tu qualche scusa, — diceva una di esse.

Era Giacinta!

Quell’altra persona aveva dovuto fare delle obbiezioni, perchè questa le rispondesse bruscamente:

— Te l’ho detto: non posso!

Poi non sentì più nulla. Erano andate via?

D’un tratto, Andrea vedevasi dinanzi Giacinta ritta in mezzo all’uscio spalancatosi senza rumore: una apparizione, nella semioscurità del salottino, con quell’abito di garza bianca, riccamente guarnito di svolazzi di trina, che le dava l’aria d’una forma fantastica.

Non osò d’accostarsele: ma visto che, portate le mani al viso, scoppiava in singhiozzi, si slanciò verso di lei e l’afferrò pei polsi, balbettando:

— Che cosa è stato?... Che cosa è stato?

Giacinta, trascinatolo nell’altra stanza, si era gittata bocconi sulla spalliera del canapè, piangendo dirottamente. Andrea, in ginocchio accanto a lei, tentava di calmarla, di farla parlare:

— Che cosa è stato?... Che cosa è stato?

Immaginava un grosso scandalo. Erano già scoperti? Venivano a sfondar gli usci per sorprenderli insieme? Ma Giacinta, volgendo il capo lo guardava ansiosamente, a traverso il velo delle sue lagrime:

— Dio mio! Non m’ami più? — diceva con voce soffocata, brancicandogli la faccia colle mani tremanti: — Dio Mio!... Non m’ami più?

Andrea rispose abbracciandola, baciandola e ribaciandola furiosamente. E per alcuni minuti, rimasero così, avvinghiati, come confusi in un sol corpo. Fra quei primi baci, fra quei primi abbracci di amanti, di tratto in tratto, scappavan fuori parole mal articolate, frasi mozze:

— Ah, come mai potesti?

— Zitto!

— Che infamia!

— Zitto! T’amo! T’amo!

— Non hai scusa!... imperdonabile!

— Andrea mio!

E si divorarono, silenziosamente, con le labbra incollate alle labbra; non potevan più staccarsi, non respiravano più. E, di là, il ballo riprendeva, e l’oficleide tornava a borbottare da lontano. Andrea saltò in piedi.

— Ed ora?

Giacinta, presolo per le mani, lo costrinse a sedersi di nuovo.

— Più accosto. Non aver timore; non è nulla!

Lo tirava a sè dolcemente, sorridendo, cacciandosi indietro le ciocche dei capelli arruffate sulla fronte nel disordine del pianto:

— Non è nulla; qui siamo sicurissimi!

E vedendo Andrea ancora esitante:

— Mi credi ammattita? — gli disse.

Andrea arrossì. Non osava di confessarle il vago terrore da cui sentivasi oppresso, quantunque le stringesse, per assicurarla, le mani; e tendeva l’orecchio al rantolo minaccioso di quel maledetto strumento.

— Dimmi che mi ami!... Dimmi che mi ami ancora! — gli ripeteva Giacinta.

— Potreste dubitarne?

— Dimmi che mi amerai sempre, sempre.

— Ma...

— Prendi!

Giacinta, toltosi dal dito l’anello nuziale, cercava d’infilarlo al dito di lui. Andrea resisteva, col pugno serrato:

— No, no, non lo voglio...

Ma quella gli aveva già aperta per forza la mano.

— Prendi...! Le mie vere nozze sono queste qui! Sarà per sempre, è vero?... Per tutta la vita?

E con voce tremante di tenerezza, continuava:

— Intendi ora?... Intendi?... Non potevo, non volevo doverti nulla... Volevo trovarmi da pari a pari con te!... Era la mia idea fissa, il chiodo piantato nel mio cuore!... Ah, che lotte mi costi!... Ti ho conquistato a prezzo di lagrime... Perderti era un sacrifizio assai superiore alle mie forze... Mi costavi troppo! Intendi ora?... Le mie vere nozze son queste qui!

— Ho dubitato!... Perdonami! — disse Andrea, gettandosele ai piedi e nascondendo il viso in grembo a lei. — Non è un sogno tutto questo?

Era commosso, esaltato. Rimaneva lì, ginocchioni; e voleva sentire, assolutamente, quella parola: perdono!

Picchiarono all’uscio.

Giacinta, portato rapidamente l’indice alle labbra, pallida, intentissima, aggrottava gli occhi verso quella parte. Andrea, più pallido di lei, la guardava fisso, rimescolato.

Picchiarono di nuovo, discretamente.

— Contessa!... Giacinta!

Il conte chiamava sotto voce, tossicchiando, dando colle nocchie delle dita, ad intervalli, contro l’uscio dei colpettini che la pelle del guanto smorzava:

— Contessa!

— Ah?... Voleva una risposta?

E Giacinta si strinse al petto la testa d’Andrea, ricercando avidamente con le labbra quei capelli morbidi come la seta, aspirandone deliziosamente il sottile profumo.

Appena s’intese sul tappeto lo scricchiolio dei passi del conte che se n’andava, Giacinta ed Andrea si levarono in piedi. Sorridevano, ma impacciati, ma con dei brividi per tutto il corpo, come se un soffio diaccio li avesse colti; e non riuscivano a rimettersi nello stato di prima.

Andrea chinossi per raccogliere il mazzolino di fiori d’arancio staccatosi dalla testa di lei; Giacinta lo buttò via. E siccome egli faceva atto di voler tornare a raccattarlo, gli riafferrò le mani e lo attirò verso di sè.

Con la testa rovesciata indietro, abbandonatamente, con gli occhi socchiusi, pareva rapita dalla violenza del galoppo lanciato in quel punto dall’orchestra e smorzato dalla distanza con soavità voluttuosa. E l’ombra dei loro corpi abbracciati in mezzo alla camera si allungava tremolante, contro il lume, sul candore del letto nuziale che, come un altare parato a festa, biancheggiava tra il pallido color di rosa della tappezzeria e le tende azzurre del sopraccielo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.