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VI.
Entrando nel salotto dove il conte Giulio e il signor Paolo stavano ad aspettarla, Giacinta ebbe quasi a venir meno.
— Come sei pallida! — le disse il signor Paolo.
— Oh, passerà! Un po’ di nervi... Ne avrò forse per una settimana. Passerà.
— Appunto il giorno delle nozze!
Il conte non sapeva consolarsene.
Mentre Giacinta, seduta accanto al suo babbo e tenendolo per una mano, guardava attraverso i cristalli il cielo bianchiccio, da nevischio, che gittava una luce fredda sulla tappezzeria grigia della stanza, il signor Marulli si suonava il tamburo sulla pancia colle dita dell’altra mano.
— Che stagione! Vuol nevicare. Ed ieri avemmo quasi caldo!
— Sì, vuol nevicare.
Il conte gli faceva l’eco, per dir qualche cosa, continuando a guardare con gli occhi smorti sua moglie che taceva.
La conversazione languiva. Il Marulli avrebbe voluto trovare qualche barzelletta da far ridere gli sposi; ma il conte gli metteva soggezione col suo titolo, con la storica nobiltà del cognome, col sangue principesco che gli traspariva dalle vene a fior di pelle, alle tempie e alle mani. Gli occhi di Giacinta si ostinavano a restar fissati alla striscia di cielo bianchiccio che si vedeva dalla finestra sul tetto della casa di faccia; e col mordersi leggermente ora un labbro, ora l’altro, ella mostrava di non aver voglia di parlare.
Il conte intanto stava sulle spine, arrabbiato contro quell’imbecille di suo suocero inchiodato lì sul canapè, senza accorgersi (ci voleva molto?) d’essere importuno.
Il signor Paolo, osservato il cielo anche lui, ruppe il silenzio:
— È tempo che non dura.
— Certamente — rispose il conte.
— Certamente — replicò Giacinta.
E fu stupita d’aver parlato. Si passava le mani sul viso per riscuotersi, e sbirciava di sfuggita il conte Giulio che agitavasi sulla poltrona dirimpetto, umettandosi colla punta della lingua frequentemente le labbra, scotendo coll’indice il ciondolo della catena dell’orologio. Allora, dalla paura che il suo babbo potesse andar via, ella gli strinse forte la mano. Ma il signor Paolo comprese a rovescio e balzò su dal canapè, ridendo a scossoni, maliziosamente:
— Ma che faccio io qui? Eh! Eh! Avete delle cosine da dirvi in segreto... perchè... perchè...
Il conte gli rispondeva con dei gesti negativi e intanto gli faceva largo per lasciarlo passare. Ma Giacinta levatasi in piedi, ripresa la mano al suo babbo, gliela premeva con insistenza.
— Ti senti male? — le domandò il signor Marulli.
— Sì, babbo, un pochino.
E si lasciò ricadere sulla seggiola, bianca bianca in volto, con un lieve tremito per tutta la persona.
— Perchè ti sei alzata? Hai fatto male, malissimo.
— Che disgrazia! — ripeteva il conte, ritto in piedi dinanzi a lei, osservandola con tanto d’occhi.
— Sarà debolezza, — disse il signor Paolo — la fatica, l’agitazione dei giorni scorsi... È così gracile! Vuole scommettere, che non ha ancora preso nulla?... Se lo dicevo! A questo modo starebbe male anche un colosso.
Il conte, per mandarlo via più presto, accompagnandolo fino all’uscio, gli aveva sussurrato in un orecchio:
— Ci pensi lei!...
Non appena lo vide slanciarsi per sedersele accanto, Giacinta si strinse tutta e chiuse gli occhi. Poi, al contatto di quelle mani dalla pelle liscia e fredda, al fiato caldo che le alitò sulla faccia, tentò subito di rizzarsi, come atterrita da un imminente pericolo; ma il conte la tratteneva, balbettando parole inintelligibili. A un tratto, presale la testa fra le mani, la baciò sulla bocca.
Giacinta lo respinse, senza saper quel che si facesse, diventata di bragia; e gli sfuggì, a traverso le seggiole, correndo verso l’uscio.
— Siate buona, contessa!... Giacinta sii buona! — supplicava il conte, sbarrandole l’uscita, tendendo verso di lei le lunghe braccia, aprendo e chiudendo le mani.
— Perchè non volete? Perchè?
Rifugiata in quell’angolo del salottino, fremente d’indignazione, Giacinta spiava uno scampo:
— Lasciatemi uscire! Lasciatemi!
Avrebbe anche gridato al soccorso nel vederselo dinanzi, a pochi passi, piantato sulle gambe allargate, con le braccia aperte, e con lividi luccicori di fosforo negli occhi, sotto il ciuffo di capelli rovesciatoglisi sulla fronte; ma la rabbia e il dispetto le avevano inaridito la gola.
E si lasciò prendere tra le braccia, cedendo, andando quasi trascinata verso il canapè, dove il conte si mise a baciarla sulle guancie e sulla nuca, ripetutamente, insaziabilmente:
— Giacinta! Giacinta!
Oh! Quei baci la violavano!... E il nome di Andrea le rigurgitava in gola, per buttarlo in faccia al conte:
— Basta! Non vedete che soffro?
— Perdono, contessa! Perdono!...
Colpito da quel grido angoscioso, egli si era subito tirato da parte. E, intimidito, a testa bassa come un fanciullo sgridato, si confondeva ora in mille scuse:
— Aspetterò... quando vorrete voi... Perdono!... Rimettetevi; vien gente!
— Che ho mai fatto! — esclamò Giacinta un’ora dopo, torcendosi le mani, appena il conte e la signora Teresa la lasciarono un momento sola col Gerace, per accompagnar la Clerici e la Mazzi che andavano via.
— Che ho mai fatto!... Che terribile tortura sarà!...
— Oh, Andrea, Andrea!... E sono stata io!... Io stessa!
— Zitta, per carità! Ritornano! — disse Andrea.
— Che me n’importa?
— Ti farai scorgere...
— Hai paura?...
— Per te.
— Per me?... Oh... io porterei attorno, come un trionfo, il nostro amore!... Li disprezzo tutti. Capisci?