< Giacinta < Parte seconda
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VIII
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VIII.

— Oh, state benissimo, si vede, contessa, si vede!

— No, no, v’ingannate.

— All’aspetto, in verità...

— L’aspetto non vuol dir nulla.

Il conte veniva a ridestarla ogni mattina da quel sogno d’amore, a precipitarla dall’altezza di quel paradiso artificiale nel profondo inferno della realtà.

Ahimè! Il suo sacrificio non l’era mai parso tanto terribile, quanto ora ch’ella doveva ineluttabilmente compirlo. E perdeva la testa. Avrebbe voluto fuggirsene via, col suo Andrea, fuori d’Italia, nell’angolo più ignorato del mondo...

— E dopo? — egli obbiettava.

— Hai ragione. Ma per riflettere bisognerebbe essere calma... Oh, è più forte di me!... Già tu sei un uomo, e non puoi comprendere.

— Ma dev’essere così!

— Dev’essere così? Dev’essere così?

E di faccia a questa inesorabilità, contro cui non poteva più nulla, rimaneva prostrata, avvilita.

— Doveva dunque lasciarsi soffocare dal melmoso putridume, dove affondava come più dibattevasi per uscirne?

— Ma dev’esser così!

— Era vero: doveva esser così!

Però il terribile momento veniva rimesso da un giorno all’altro:

— Domani!... Dopo domani!

Prolungava la sua agonia...

— Almeno questa raffinatezza di crudeltà contro sè stessa la lasciava libera qualche giorno di più... Poi... chi sa? Chi sa?...

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