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XIII.
— Un mostricino! — dicevano le persone dell’arte, parlando di quella palazzina.
Ma la facciata d’essa sorrideva all’occhio senza pretese, quantunque sovraccarica di ornati.
Al sito di calce fresca, di colla d’amido, di vernice che c’era dappertutto, la signora Marulli arricciava il naso. In parecchie stanze mancava la tappezzeria; Giacinta voleva addobbarsele a proprio gusto; e la signora Teresa ripeteva i suoi consigli, dava pratici suggerimenti, indicando il pittore, un romano, per gli ornati del salone...
— Se vuoi qualcosa di artistico. Non vedi che meschinità questi soffitti?
Invece, il conte e il signor Paolo trovavano tutto perfetto.
— Bellissima la vernice degli usci!
— E quegli uccellini lassù? Son lì lì per volare.
— E quelle frutta? Cospetto! Vien l’acquolina alla bocca.
— Che! Quegli ornati non sono in rilievo? Ma, per accorgersene, bisogna toccarli!
Il conte sfogava la sua soddisfazione:
— Quelle stanze?... Delle scatoline da confetti! Come vi si dee stare calduccini l’inverno! E che bel fresco d’estate, con tanti riscontri di usci e finestre!
— Vi paion stanze queste qui?
La signora Marulli non poteva patire la moderna gretteria dello spazio.
— Ecco: rizzandosi sulla punta dei piedi, si tocca quasi la volta!
— O che? Preferite gli stanzoni antichi, un tempio! dagli usci immensi, dalle finestre immense, che rimangon sempre mezzi al buio? Li conosco, pur troppo! Nel palazzo di famiglia, — il babbo fece bene a venderlo, — eran tutti così. Quando ero bambino se dovevo traversarli da solo, morivo dalla paura. In camera di mia madre, con la tappezzeria di cuoio di Cordova impresso a cuoricini dorati, con vecchi quadri alle pareti, con i mobili d’ebano, intarsiati di madreperla, e il letto di legno intagliato che pareva un catafalco sotto le cortine di raso giallo... in camera di mia madre, mi pareva di trovarmi in un luogo incantato; non vedevo distintamente neanche il viso di lei. Oh, non me ne parlate! Grazie tante!
— Sì, per certe comodità, non voglio contraddirvi, c’è un progresso. Ma non è da far confronti. Questa qui la chiamiamo una palazzina? Un alveare dovrebbero dire!
E portavano attorno, per le stanze vuote, la interminabile discussione.
Giacinta taceva.
Finalmente!... Finalmente aveva un cantuccio suo proprio!
E non sapeva frenarsi di far suonare sul pavimento i suoi piccoli tacchi, come per mettersi subito in diretta relazione con quel nido grazioso e allegro, ch’ella avrebbe ideato tal quale se avesse dovuto farlo costruire di pianta.
— Tolti due o tre palazzi antichi e qualcuno dei moderni, la sua modesta palazzina era quella che faceva più figura nella città, dava nell’occhio. Che vita intima e tranquilla voleva passare, col suo bimbo, lì dentro!... Era un bimbo, senza dubbio; doveva essere un bimbo... Se lo vedeva dinanzi!
E canterellava, felice di quel rimuginio di delizie future; e, di tanto in tanto, s’affacciava a una finestra o al terrazzino di centro:
— E Andrea che non viene più! È già trascorsa un’ora dall’ora fissata! Che se ne sia dimenticato? Non gliela perdonerei.
L’accolse un po’ imbroncita quand’egli, da lì a pochi minuti, arrivò; e lasciò che il conte lo prendesse per una mano e lo menasse attorno, col sussiego compiacente di padrone di casa.
— Bello, è vero?... Magnifico! Che ne dite? Queste stanze non vi sembrano scatoline da confetti? Le preferisco agli stanzoni antichi dagli usci immensi, dalle finestre immense, che rimangono sempre mezzi al buio... Ho ragione?... No?... Non ho ragione?... Parlate...
— Già! Già! — rispondeva Andrea, distratto.
La signora Teresa aveva corrisposto appena con un cenno del capo al saluto di lui; e s’era affacciata al terrazzino, diventata seria tutt’a un colpo.
— Che significava? Evidentemente l’aveva con lui... Forse sapeva tutto, e gli dichiarava la guerra!
Per via, Andrea trovò modo di farne motto a Giacinta, che gli rispose con una scrollatina di spalle:
— M’indispettisci! Non sei sicuro di me? Che t’importa degli altri?
— Ma il contegno di tua madre...
— Ubbie!
Però due giorni dopo, quando Andrea le si presentò tutto convulso, con la lettera della direzione generale che lo sbalzava a Siracusa:
— C’è lo zampino della mamma! — ella esclamò.
— Te lo dicevo?... Che disgrazia!... Bisogna partire!
— Non andrai! — disse Giacinta.
— E l’impiego?
— Il mio non è anche tuo?... Non andrai! Manda la rinunzia, subito subito.
Gli occhi le raggiavano di gioia, un fremito di soddisfazione l’agitava da capo a piedi.
E trascinatolo verso il tavolino, lo forzava a sedersi, gli metteva la penna fra le dita:
— Non m’ami dunque? Il mio non è anche tuo?
— Giacinta, che mai facciamo? È irrimediabile... No!
— Scrivi! — ella disse, supplicandolo smaniante.
Andrea intinse la penna. Curvata su di lui, con le braccia sulla spalliera della seggiola, Giacinta seguiva ansiosamente quella traccia nera di scritto che la penna si lasciava dietro.