< Giacinta < Parte seconda
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XV.

Giacinta era stata parecchi giorni in grave pericolo d’abortire; e Andrea non aveva potuto ricevere, direttamente, nessuna notizia di lei. Come presentarsi in casa Marulli dopo quel bigliettino che gli diceva: «Astienti di venire fino a mio nuovo avviso. Non darti nessun pensiero dei maneggi di mia madre!».

— Che cosa accadeva dunque? Che gli si tramava contro?

Veramente, non s’era sentito mai tranquillo neppure prima. Appena dato quel passo della rinunzia all’impiego, aveva cominciato a riflettere:

— E se i bei castelli in aria di Giacinta crollassero? E se quel colpo di pazzia di donna innamorata andasse a finire?... Non era impossibile; s’era visto tante volte!... Che ne sarebbe di lui, rimasto così, in mezzo a una strada, senza impiego, nè nulla?

Il bigliettino aggiungeva: «Lascia fare a me. Non t’ho mai voluto così bene come in questi giorni di lotta». Ma di queste assicurazioni egli non si fidava molto, benchè le credesse sincere. E tornava a rimuginare tutte le gravi difficoltà della vita che gli stavano sospese a un filo, minacciose sul capo; la la brutta prosa della realtà, che, spietatamente, da un momento all’altro, poteva venir a soffocare la spensierata dolce poesia del loro amore. Rimuginava, rinunziava; e quel romanzo del Montèpin, parsogli pochi giorni addietro interessantissimo, ora non riusciva nemmeno a distrarlo un momento.

— Che stupidaggine! Che assurdità!

E, buttato via il volume, accigliato, riprendeva a passeggiare, fumando, su e giù per la stanza, vuotandosi il cervello.

— Che gli si tramava dietro le spalle? Un pericolo conosciuto non gli avrebbe fatto paura... Un duello? Oh, avrebbe servito quei signori in qualunque maniera, con la sciabola, con la spada, con la pistola!... Ma quelle carogne non si battevano... Ed eccolo lì, solo solo, contro una donna che non voleva badar a nulla, se risoluta a colpire; in una piccola città, dove tutti, o quasi tutti, erano amici e parenti!... Intanto, egli conchiudeva col rimanersene in casa, col non farsi più vedere al Caffè della Pantera e non avvicinare nessuno.

Le buone notizie della salute di Giacinta lo spinsero fuori. Aspettò che fosse sera, e scese le scale lentamente, esitando; poi, si mise a camminare in fretta, tra la folla domenicale che invadeva il Corso un po’ buio per le botteghe tutte chiuse.

I Porati, padre e figlio, erano sull’uscio del Caffè della Pantera, fermati a discorrere, osservando la gente che passava; ma, tutt’a un tratto, si misero a parlare accaloratamente, faccia a faccia come per evitare di salutarlo. Infatti non risposero al saluto di lui.

— Può essere un caso... Anche a me, qualche volta è accaduto di non scorgere un amico che mi passava accanto...

Pure, l’idea che i Porati non avessero voluto salutarlo gli fece stringere i denti.

Il Caffè della Pantera rigurgitava.

In fondo, attorno al tavolino, Andrea vide il Merli, il Ratti, il Gessi, il capitano Ranzelli e due altri ufficiali, che discutevano animatamente e ridevano a scoppi. Andando verso di essi, volgeva gli occhi da ogni parte, in cerca di un posticino.

— Nè una seggiola, nè uno sgabello!

Due avventori s’erano già rassegnati a bere la loro birra in piedi, appoggiati all’orlo del banco coperto di zinco, lucentissimo, dietro cui sedeva il padrone colla papalina di velluto nero. Andrea tirò diritto fino al tavolino dei suoi amici.

— Buona sera.

— Oh!... Buona sera.

Intanto nessuno gli strinse la mano, nessuno mostrò l’intenzione di volergli far posto; continuarono a ragionare e a ridere, come se egli non fosse stato lì. Anzi il Merli, che gli voltava le spalle, non gli aveva neppure risposto buona sera. Andrea si frenò a stento.

— Quel merlo — lo chiamava spesso così — meritava un lattone, per imparare la buona creanza...

Ma girò i tacchi, coll’aria di chi si affretti a raggiungere una persona vista da lontano. Una gran risata gli corse dietro, quasi provocazione.

— No; è un effetto della mia immaginazione alterata — pensò, fremendo.

E, acceso un sigaro, svoltò pel Corso Vittorio Emanuele, dove il passeggio continuava con l’ordinaria folla serale che vuol godersi la domenica. Poco discosto dalla Banca nazionale, Andrea riconobbe l’ingegnere Villa, la sua signora e le due Maiocchi; scendevano incontro a lui dal lato sinistro. Gli erano apparsi improvvisamente sotto la viva luce d’un fanale; e i cappellini bianchi delle Maiocchi, con nastri e fiori rossi, gli avevano fatto l’impressione di un piccolo urto nelle pupille. La faccia violacea, e con la barba nera, di quell’omaccione dell’ingegnere si vedeva ancora illuminata, quando le signore, già immerse nell’ombra, apparivano tre figure grigie, un po’ confuse.

Andrea fece un gran saluto, fermandosi, tenendo in alto il cappello e inchinando la testa; ma la signora Villa e le Maiocchi, trovatesi faccia a faccia con lui, si voltarono in là, affettando di guardare le finestre del palazzo vicino: e l’ingegnere gli rispose con una specie di smorfiettina, sbadatamente.

— Non era più un’illusione!...Si trattava proprio d’una congiura... Lo sfuggivano, gli facevano il vuoto attorno!... Vigliacchi!

— Non curartene. È un lavoro della mamma e del Mochi — gli diceva il giorno dopo Giacinta. — Rappresaglia di invidiosi e di sciocchi. Si stancheranno... E poi, che te n’importa? Non ti basta dunque l’amor mio?

— Sì, sì!... Ma, infine, non sono di bronzo; e se mi mettono con le spalle al muro!

Giacinta lo accarezzava, sorridendogli dolcemente, bella anche nel pallore della convalescenza, e con gli occhi lo pregava di calmarsi.

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