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XVIII.
Per due giorni, Giacinta tenne il broncio alla delicata creaturina che vagiva a piè del suo letto. Quella bambina le aveva bruscamente distrutti tutti i bei castelli in aria fabbricati con tanta delizia, da più di otto mesi.
Si aspettava così sicuramente un bimbo, che non aveva ammesso neppur la possibilità del caso contrario. Ed ora si sentiva delusa, come se qualcuno le avesse fatto la cattiva azione di scambiarle la sua creatura; come se d’una bambina, ella non sapesse che farsene.
Ma nel provarsi ad allattarla, cacciò un piccolo grido di gioia repressa:
— Dio!... È tutta lui!
E smise subito il broncio. La camera le divampò d’un magnifico sole di primavera; un fiume d’ineffabile tenerezza le scaturì dal profondo del petto, diffondendosele per la persona come una ristoratrice onda di nettare.
— È tutta lui! I suoi occhi, il suo naso, la sua bocca! E questa fossettina del mento!
Passava lunghe ore fissa a contemplarla, muta, con gli occhi inumiditi, col cuore che le si riempiva di tristezza, pensando ch’ella non aveva mai ricevuto dalla sua mamma un solo bacio, una sola carezza, una sola occhiata da paragonarsi a quelle da lei prodigate alla creaturina delle sue viscere. Ed ella, ecco, si rifaceva, si compensava a quel modo.
— Non puoi immaginare — diceva ad Andrea, — com’è invadente, com’è tiranna! Ormai devi rassegnarti ad essere amato di rimbalzo, in questa carne della nostra carne.
— Mi son già rassegnato — rispondeva Andrea, celiando.
— Così presto? Cattivo!
E accarezzandogli la testa, senza levar gli occhi dalla culla, ella ricadeva nei rapimenti, nell’estasi che la tenevano in adorazione dinanzi a quella gioia, a quella stella, a quell’angioletta, a quell’amore, a quella vita sua, che rassomigliava tutta a lui!
Il conte Giulio però non era di questo parere.
— Ha voluto farsi un ritratto vivente! — gli aveva detto la signora Villa con intenzione maligna.
E nessuno gli aveva più potuto levare dal capo che non fosse davvero così.
— Mi son fatto un ritratto vivente! — era andato a dire al suocero che, tormentato dalla podagra, inchiodato su una poltrona, non poteva andar a vedere la nipotina.
Quella paternità lo gonfiava, gli solleticava dolcemente il cuore, e lo faceva aggirare attorno alla culla della bimba con una cert’aria d’importanza. Ma ogni volta che voleva prenderla in braccio, o semplicemente baciarla, Giacinta si trovava lì pronta a impedirglielo.
— Non vi accorgete che la bimba si secca? Bel gusto farla piangere!... Ma no; codesti baci così frequenti le rovinano il visino!
E lo allontanava, duramente, con gli occhi fiammeggianti di rabbia gelosa!
— La vuole tutta per sè! — diceva il conte alla suocera, una mattina, intanto che questa posava sul seno della bimba una carta piegata in quattro.
Era il suo regalo di madrina, l’atto di compra d’una villetta firmato in quel giorno.
— Ha un brutto nome, la Storta, — aggiunse la signora Marulli. — Ma potranno ribattezzarla Villa Adelina. Un palmo di terreno, in riva al mare, con un guscio per ripararvisi: però il posto è incantevole!
Giacinta, dalla sorpresa, non pensava a ringraziarla. Da parecchi mesi, la sua mamma era diventata un’altra; ella non la riconosceva più. Da persona pratica qual era, non essendo accaduto il finimondo da lei paventato, la sua mamma si era facilmente rassegnata a rispettare i fatti compiuti; contenta che il suo sogno di una vita tranquilla, fra gli agi e la considerazione, cominciasse già a realizzarsi, e che la gente, scordatasi d’onde ella veniva, guardasse soltanto dov’era arrivata.
Andrea, con un pretesto o con un altro, era tutto il giorno in casa Grippa. Se si trattava anche di un affare da nulla:
— Gerace, mi faccia lei questo piacere — gli diceva Giacinta.
— Bravo Gerace! — aggiungeva il conte.
Già egli si era così abituato a vederlo sempre lì, che non incontrandolo, una mezza giornata, premurosamente domandava:
— E Gerace? Non si è visto?
Andavano insieme alla Storta, per far rimettere a nuovo il villino; una passeggiata di due chilometri di strada pianissima, che percorrevano a piedi, fumando, mentre il conte ragionava dei suoi progetti d’abbellimento: una terrazza sul mare, un giardinetto dalla parte dell’entrata. Spesso però il conte partiva solo, di buon mattino; e tornava la sera, all’ora di pranzo. Gli mandavano la colazione laggiù.
Andrea si sdraiava in quel suo stato, spensieratamente, senza calcoli, come v’era entrato. Trovava naturale che un giovane non si fosse lasciata scappar di mano un’avventura come quella. Chi, nei suoi panni, non avrebbe fatto lo stesso? La passione lo giustificava! Coloro, parecchi! che sposavano soltanto per la dote una donna non amata, spesso spesso non stimata, non agivano peggio di lui? Almeno, egli amava!
Poi, quella vita dolce, tranquilla, senza grattacapi, tra le affettuose carezze d’una donna che doveva essere sua moglie e che da un sofisma di delicatezza femminile era stata spinta a maritarsi con un altro, metteva sempre tra lui e la donna amata un che di indefinibile, tale da rinnovare giorno per giorno le intime attrattive del loro legame. A questo servivano ora, un po’ il sentimento della paternità, e molto quelle che Andrea chiamava le esagerazioni di Giacinta.
— Tu vai sempre agli estremi! — le diceva. — Sarebbe meglio, per la tua salute, che prendessi una balia.
Giacinta, al contrario, era orgogliosa di porgere il capezzolo a quella bocchina affamata. E quando le manine della piccina le pizzicottavano il seno, col fare incerto d’una creaturina ancora mal sicura dei propri movimenti, ed ella sentivasi correre per tutto il corpo quei brividi di voluttà così nuovi per essa, doveva proprio farsi violenza per non stringere pazzamente la bimba al seno, e non soffocarla nel materno delirio d’un abbraccio.
— Tu non le vuoi bene! — rimproverava ad Andrea. — Tu non le vuoi bene!
— Che sciocchezza!
— Tu la baci poco, l’accarezzi di rado... Ma guarda!... Ma guarda!
E lo trascinava presso la culla e scopriva la bimba, che, mezza nascosta fra le bianche coperte, pareva un grazioso fiorellino vicino a sbocciare. Avrebbe voluto vederlo disfarsi di tenerezza, come si sentiva disfare lei:
— No, tu non le vuoi bene.
Quando la bimba era sveglia, Giacinta si divertiva a solleticarle i labbrini e il mento con la punta dell’indice:
— Via, un sorrisino al babbo!... Un altro alla mamma!
E la levava di culla e la metteva in braccio ad Andrea, perchè la dondolasse o la spasseggiasse, intanto ch’ella, gettatogli un braccio intorno al collo, seguitava a ciangottare colla figliolina il suo strano linguaggio materno: parole mozze, interrogativi, esclamazioni, una fitta di suoni inarticolati, che dicevano più di qualunque ragionevole discorso.
Andrea si adattava malvolentieri a la sua parte di balio. E se la bimba, svegliatasi di cattivo umore, strillava, e non c’era verso di racchetarla e farla addormentare:
— È noiosina! — brontolava, pur continuando a dondolarla.
E le cantava, ridendo di sè stesso, una ninna nanna rimastagli in mente:
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