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II.

Giacinta viveva agitatissima:

— Dunque Andrea le sfuggiva di mano? Dunque i suoi tristi presentimenti non l’avevano ingannata?

Un’acutissima spina confitta nel cuore! Ma ella non la dava a vedere.

Nei ricevimenti del mercoledì, sempre affollati, sempre allegri, quando il Ratti, o qualche altro diceva una briosa stramberia, il di lei riso argentino partiva il primo pel salotto, come un razzo che dèsse il segnale.

Il suo bel corpo di giovane donna era in piena fioritura: ne convenivano tutti. I suoi occhi non erano mai stati così scintillanti: mai la sua voce e il suo sorriso non avevano esercitato un fascino più potente.

— Come faceva per rendersi bella a quel modo, per ringiovanirsi così?

La signora Villa la pregava, ridendo, di confidargliene il segreto.

— Questo segreto chi non l’indovina? È amata, è felice! — rispose una volta la Maiocchi.

— Proprio! — si lasciò scappare Giacinta, amaramente.

— Che voleva dire?

— C’erano dunque dei malumori?

Le due amiche almanaccarono un’intiera settimana.

— Vedi? Neppur questa sera è venuta a teatro — disse la signora Villa.

La signora Maiocchi si sporgeva un po’ fuori del palco per guardare in platea:

— Non c’è neanche Gerace. Credo che un po’ c’entri di mezzo il dottor Follini. Forse Gerace prende ombra.

— Dal dottore? È troppo serio. Dico bene?

— Benissimo! — rispose Porati a cui la signora Villa s’era rivolta.

E terminato il primo atto della Favorita, come il palco si riempì di visitatori, tutti continuarono a ragionare di quella misteriosa esclamazione.

— Nuvoli per aria!

— Tempesta vicina!

Porati non ne credeva nulla:

— Quel diavolo di napoletano l’ha stregata.

— Dite che non c’è più giovani al giorno d’oggi! — esclamò il Mochi, lasciando cadere sdegnosamente il suo monocolo.

— Piuttosto — aggiunse il commendatore Mazzi, procuratore del re — dite che quella donna ha un gran carattere. Tanta arditezza nel mettere in mostra una condizione anormale, e tanta austerità di passione, non si veggono, convenitene, tutti i giorni. — E continuava, con una leggiera intonazione declamatoria, fra il silenzio di tutti: — Forse abbiamo lì un caso di patologia morale non ordinario. Che ne pensa il dottore?

— Il dottore è sospetto.

— Perchè, signora Villa? — domandò il Follini che, entrato in quel punto, era rimasto in fondo al palco.

— È il medico di casa.

— Una ragione di più per conoscere più intimamente la contessa. Ma io, benchè la studi da un pezzo, non arrossisco di dichiarare che n’ho capito poco o nulla finora.

— Studii, studii, dottore! Intelligente com’è, finirà col capire. Le donne...

Risero tutti, interrompendolo.

— Quel Mochi! Sempre lo stesso!

— ... somigliano ai vulcani. Per comprenderne qualche cosa, bisogna fare come... come... insomma, come quel filosofo dell’antichità: buttarvisi dentro.

— Un’esperienza pericolosa.

— Il povero conte dev’essere imbecillito per questo.

— Lei stia zitto! — disse la signora Mochi a Ratti. — È sempre maligno.

— Se la malattia fosse ragionevole, poichè ci s’è messa, dovrebbe finire l’opera sua.

— Ratti! Ratti!

— In quanto a questo — entrò a dire il Follini — è probabile che al Gerace gli si debba allungare un po’ il collo, aspettando.

— Povera Giacinta!

La signora Villa, dopo che il dottor Follini si licenziò, non sapeva ancora persuadersi che in quell’affare di Giacinta colui non c’entrasse per nulla.

— Aveva, certamente, la scusa di visitare tutti i giorni il conte ammalato. Ma, entrato in casa Grippa, quel benedetto dottore non trovava più il verso d’andarsene. Ella li aveva sorpresi parecchie volte, Giacinta e lui, che conversavano nel salotto, intimamente. Anzi, Giacinta un giorno, quasi per scusarsi, le aveva detto: — È il mio confessore, un confessore troppo severo! — Sia. Ma quel confessore biondo e giovane non poteva garbare a Gerace...

Il Follini, invece, studiava Giacinta con la fredda curiosità d’uno scienziato di fronte a un bel caso. L’eredità naturale, le circostanze sociali glielo spiegavano fino a un certo punto. Ma per lui, già discepolo del De Meis all’università di Bologna, per lui che, se non credeva nell’anima immortale, credeva all’anima e allo spirito, una passione come quella non poteva esser soltanto il prodotto delle cellule, dei nervi e del sangue. E voleva scoprirne tutto il processo, l’essenziale. Gli interessava pel suo libro Fisiologia e patologia delle passioni a cui lavorava da due anni. Perciò, quando gli capitava, mettevasi a interrogare destramente Giacinta, a confessarla, com’ella diceva, ingegnandosi di sorprendere i sintomi nella loro spontanea attività.

Una sera che la contessa pareva allegrissima e faceva scoppiettare attorno a lei le sue frasi vibranti e frizzanti, il dottore s’era seduto in un angolo, fuori di vista, per osservarla con più comodo.

— No, quell’allegria non era sincera; glielo dicevano gli occhi di lei, che lampeggiavano stranamente, le labbra le si inaridivano così presto.

Appena Giacinta si avvide delle pupille quasi severe che le stavano addosso, cominciò, gradatamente, a provare un impaccio anche nei movimenti. Sforzatasi a continuare il discorso, si era sentita quasi legare la lingua e diventar distratta, incoerente. E si alzò, traendo un gran respirone, come se le fosse venuta meno l’aria.

Passando, visto il Merli che conversava con Mochi e con l’ingegner Villa:

— Lei fa bene a star sempre tra gli uomini seri — gli disse ridendo.

— Pare che sia l’unico modo di farla ridere! — rispose Merli, facendole un piccolo inchino.

— Toh! Anche dello spirito?

Intanto aveva gli occhi sul dottore, che si era accorto della manovra di lei.

— Insomma — domandò alla Maiocchi incontrata nel passaggio — i tuoi sposini vivono proprio da romiti?

La signora Maiocchi si strinse nelle spalle:

— Che vuoi? Bisogna lasciarli fare.

Follini era andato incontro a Giacinta:

— Soffre?

— Chi soffre non ride.

Era un po’ stizzita. Come faceva quell’uomo per leggerle così bene nel cuore?

— Ah! lei dimentica che sono il suo medico — disse Follini con dolcezza.

— Ha ragione. Ma, Dio mio! che gliene preme? Perchè mi osserva a quella maniera?

— La studio.

— Mi fa soffrire; sì, mi fa soffrire. Sono in via d’ammalarmi. Sia buono; mi aiuti a morir presto.

— Non è precisamente il mio mestiere.

— A domani?

— A domani.

Giacinta sorrise.

— Come deve soffrire questa donna per sorridere così! — rifletteva il dottore.

E il giorno dopo andò da lei un po’ più presto del solito.

— Dunque è una cosa grave?

— Forse no — rispose Giacinta. — Forse è un’esagerazione della mia fantasia. Mi è penetrato qualcosa qui, che mi rode la vita. Vi son dei momenti che mi credo sul punto di diventar pazza addirittura... Sì, qualcosa, che m’impedisce di pensare ad altro, che mi assorbe e mi succhia il midollo delle ossa. Mi dia dell’oppio, dottore. Son parecchie notti che non dormo.

— Mi permette qualche domanda? Sarò discreto.

— Interroghi pure. Non ho segreti per lei.

— Di che si tratta?

— Di nulla. Sospetti, cattivi fantasmi... Ma intravvedo una cosa orribile.

— ...Ha egli cambiato abitudini?

— Si sforza di non farmene accorgere; ma io indovino lo sforzo. È peggio.

— Quest’uomo è dunque parte integrale della sua vita?

— Tutto!

— È strano, inconcepibile! — esclamò il dottore abbassando la voce.

— Perchè?

— Debbo dirglielo?... È una persona comune, quasi volgare...

— M’ama!... Mi ha amato! — si corresse Giacinta, tristamente.

Quelle due inflessioni di voce colpirono il dottore.

— È una ragione, ne convengo. Però, dopo tutto lei sentirà, di quando in quando, un’aspirazione verso qualche cosa di più elevato; la sente, ne son sicuro.

— Amando, la persona amata ci apparisce unicamente quale noi ce la foggiamo; l’ho osservato un po’ negli altri, un po’ in me stessa. Poi, le circostanze modificano tutto. Le piccole qualità possono valere più delle grandi; i difetti diventare un merito. Da che cosa lei crede che dipenda il predominio di lui sul mio cuore? Quasi unicamente da quella sua mitezza di carattere, da quella sua bontà che gli altri, forse, chiamano debolezza. Mi amava diversamente da tutti, compatendomi... E gli ho immolato ogni cosa, e n’ho fatto lo scopo della mia vita!... Il disinganno mi ucciderebbe. Già... mi sento colpita.

Il dottore rimaneva indeciso. Certe inflessioni, certe sfumature dell’accento e della voce di lei, alcuni rapidi movimenti delle labbra e degli occhi gli avevano rivelato assai più che le parole non dicessero.

— Vi è un solo rimedio — rispose. — Viaggi.

— Mi faccia dormire; non le chieggo altro!

Follini cavò di tasca il portafogli, scrisse la sua ricetta e la posò sul tavolino.

— Un cucchiaio, prima d’andare letto... Oh, la cattiva bambina!

E si mise a fare una carezza all’Adelina che, entrata di corsa, scalmanata, s’era afferrata al collo della mamma coprendola di baci.

— Non si dice nulla al dottore? — la rimproverava la mamma.

La bambina gli fece una smorfietta, ma un colpo di tosse la interruppe.

— Badi: la stagione è pericolosa. La difterite infierisce.

Giacinta trasalì e strinse, istintivamente, la figliolina tra le braccia:

— È un po’ calda, è vero?... Non mi faccia paura.

La osservava tutta, passandole le mani sul viso, prendendola per le manine, interrogando con occhio inquieto ora la bambina, ora il dottore:

— Le tasti il polso.

Adelina stava ferma, seria seria, accigliata, sospettosa di quella mano del dottore.

— C’è un po’ di febbre... La cattiva signorina anderà a letto: capisce? E starà tranquilla, altrimenti la mamma non le vorrà più bene...

— Se lo avessi saputo! — esclamò Giacinta, impallidendo. — Ier sera la trattenni fuori fino a tardi. Aveva freddo; voleva tornarsene a casa... Ma non è nulla, spero... Mi dica che non è nulla; mi rassicuri!

— Speriamolo! — rispose il dottore, impensierito di certe macchie violette della faccia di Adelina.

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