< Giacinta < Parte terza
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IV.

Due settimane dopo, era tuttavia sbalordita. In ogni angolo della casa ritrovava un ricordo della sua bambina; tanti colpi di coltello! Si aspettava, di momento in momento, che un uscio si aprisse e che l’Adelina le balzasse incontro, scotendo quei suoi capelli d’oro arruffati, da piccola selvaggia... Ahimè! Tutti gli usci rimanevano chiusi, e la casa si schiacciava sotto una tristezza enorme, che non sarebbe finita mai più!

— Mai più! Oh, n’era certa! In quella disgrazia le s’era sviluppata una terribile facoltà: vedeva le cose proprio com’erano, spoglie d’ogni fallace apparenza; e si sentiva già disillusa della vita. Non gliene importava più nulla. Per chi doveva importargliene?

— Per chi ti vuol bene — gli rispondeva Andrea.

— Ah!... C’è ancora qualcuno che mi voglia bene?

A queste parole, pronunziate con accento di sconforto, di distacco rassegnato, senz’ironica amarezza, Andrea non insistette:

— Povera Giacinta! Gli faceva pietà.

E le stava intorno, da mattina a sera, premuroso, affettuoso, dolente che le sue parole di consolazione non producessero nessun effetto.

A vederlo così, a sentirlo parlare a quel modo, Giacinta più tosto s’irritava:

— Mi prendi dunque per una bimba? È inutile. Ho aperto gli occhi! Le belle parole non mi lusingano più!

Voleva morire, lo ripeteva spesso:

— Sarà dolce riposare accanto alla propria creaturina, sotto le zolle umide e fresche, nel gran silenzio, nel gran buio!...

— Ma che discorsi son questi? — rispondeva Andrea, rivoltandosi. — Io non aveva mai creduto che quella figliolina occupasse un sì gran posto nella nostra vita, nella mia, specialmente, lo confesso; ma dal mio dolore capisco che il tuo dev’essere immenso. Però, bisogna prendere il mondo com’è. Che si rimedia?

Giacinta lo lasciava dire. Se ne stava sola sola nella penombra della camera, rannicchiata su d’un canapè.

Non voleva nè pensare, nè accorgersi di vivere; e si affondava, con un accanimento dolorosamente voluttuoso, in quel suo torpore che somigliava alle sonnolenze snervanti di certe tiepide giornate di autunno.

Quando Andrea o qualche amica veniva a riscuoterla, levavasi a malincuore, con lentezza da sofferente; talvolta non si levava neppure, e riceveva le amiche a quel modo, scusandosi:

— Mi sento tutta rotta, fiaccata... Non so. Così, provo un po’ di sollievo.

— Invece t’impoltronisci, ti sfibri — le disse un giorno la signora Villa.

— Che male c’è? Tanto, non ho più voglia di nulla!

Il cicalìo della signora Villa e di Elisa Gessi le aliava attorno gli orecchi, ma non le penetrava nel cervello. Solamente, ella rifletteva che quell’Elisa, dopo maritata, era diventata un’altra:

— Mostrava le ugne, graffiava!

Ma, no, non voleva saperne più niente di tutte le sciocchezze, di tutti i pettegolezzi, di tutte le malignità di cui le sue amiche parlavano. E se suo malgrado sorrideva, se accorgevasi che la sua curiosità femminile si fosse lasciata un po’ sedurre, rinfacciavasi questi involontari abbandoni come una colpa: e si rituffava nel suo torpore.

Finalmente, una mattina Andrea la sorprese in salotto un po’ più tranquilla, quantunque dagli occhi di lei si scorgesse che aveva pianto da poco.

— Hai ragione — gli disse. — Non si fa violenza alla natura. Oggi il cuore mi si riapre alla vita, e non so perchè...

— Così mi fai piacere! Così ti volevo!

Giacinta gli si attaccò al braccio, e intanto si aggiravano per salotto, lentamente, fermandosi a riprese, continuava quasi sotto voce:

— Senti, Andrea: cangeremo tenore di vita, vivremo più raccolti, più isolati. Che bisogno abbiamo degli altri? Non possiamo viver felici soltanto da noi? Mi sento rinascere. Ho qui dentro l’effusione dei primi giorni del nostro amore, con qualcosa di più soave, di più pacato. Ah, com’erano belli quei giorni!... Andremo in villa. Vi passeremo delle settimane, dei mesi. Dev’essere una delizia, col mare che brontola a pochi passi da un lato, con la campagna tutta verde dall’altro. Non è vero?

— Certamente, una delizia!

— Andremo anche in barca. Ci divertiremo a pescare, come due anni fa, te ne rammenti? prima che la mamma morisse, quanto tu volevi saltare

da una barca in un’altra... (oh, che paura!) e tuffasti in mare.

— Se me ne rammento!

— Ma ora saremo soli; non voglio vedere altri visi. E non mi tormenterò più; avrò fiducia nel tuo amore. Non è una follia vivere in continui sospetti? Ah! In quest’ultima disgrazia, mi pareva d’essermi sperduta in una grande solitudine; e avevo paura! Ed ecco! sento di nuovo cantarmi nell’animo i dolci richiami della speranza e della felicità, come se la vita mi s’aprisse dinanzi ora, per la prima volta, e m’invitasse ad entrare. Donde viene questo ripullulare del cuore? Questo rifiorire della giovinezza? Non lo credevo più possibile, e non mi par vero.

E il suono della sua voce dileguava pel salotto, mentr’ella un po’ inquieta fissava il volto d’Andrea, un volto serio e pensoso.

— Perchè non dici nulla?

— Perchè non è facile — rispose Andrea — manifestare con parole emozioni così profonde. I ricordi ci lasciano una grande amarezza nel cuore, se rammentano delizie, dolcezze, felicità!... Hai ragione. Avverto anch’io un peso al cuore. Pur troppo, evocando il passato, si capisce che qualcosa di noi è già sparita e non potrà più ritornare!

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