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II. 1813-1814: Indirizzo filologico
I. 1808-1814 III. 1815: «Saggio sugli errori popolari degli antichi»

II

1813-1814

INDIRIZZO FILOLOGICO

In questi due anni ebbero fine i canti, i poemetti, le tragedie, i polimetri, ne’ quali si effondeva il suo umore immaginoso, aiutato dalla rettorica di Don Sebastiano.

L’erudizione prese il sopravvento, e il precoce poeta si voltò in un accanito grammatico. Lo studio del latino e del greco, le infinite letture della biblioteca, l’ambiente archeologico e filologico romano che investiva il suo spirito, l’abito di pazienza contratto ne’ suoi studi e nelle sue ricerche di fatti e di notizie, di quistioni grammaticali e filologiche, spiegano abbastanza questo indirizzo. Il giovinetto ignorava l’Italia del tempo, o per dir meglio l’Italia era per lui Roma, antica e venerata sede di erudizione, e il grand’uomo, che a lui giungeva circondato di aureola, era il cardinale Mai, che riempiva di sé il mondo. I battimano di Recanati non gli bastavano più; voleva cacciar fuori tutto quel suo accumulato sapere di biblioteca, il suo greco e il suo latino. A quindici anni si sentiva già autore, e parla con prosopopea ai lettori, a’ quali si fa guida, come maestro a studiosi. Aveva già posto mano a una Storia dell’astronomia dalla sua origine fino al 1811, un zibaldone che fa spavento per la quantità dei libri ove attinse, delle notizie raccolte, e per la pazienza delle ricerche. Il libro è stato pubblicato dal Cugnoni, e si legge non senza diletto in certi punti; e in certi altri il lettore perde la pazienza, affogato in quell’infinità di citazioni, di date e di notizie, sì che il libro ti pare più un sommario che una storia. Ora abbiamo due versioni dal greco in italiano, l’una che è un commentario sulla vita e le opere di Plotino, scritto da Porfirio, e l’altra è il libro di Esichio Milesio degli uomini per dottrina chiari, pubblicato testé dal Cugnoni, insieme col commentario leopardiano sulla vita e gli scritti di quell’autore. La vita di Plotino ha in fronte al manoscritto questa annotazione, di mano propria del padre di Giacomo:

Oggi, 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo, mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni sedici, mesi due e giorni due.

Il Cancellieri, che ebbe in mano il manoscritto, afferma che quella versione fu fatta in sei mesi insieme con l’altra di Esichio Milesio; che in poco più di un mese scrisse l’altra opera. De vita et scriptis rhetorum quorumdam, con illustrazione di alcuni opuscoli greco-latini; e che, non ancora stanco, diè mano a un’opera più lunga, intitolata Fragmenta Patrum secundi saeculi, et veterum auctorum de illis testimonia collecta et illustrata. Il Cancellieri conchiude: — Quali progressi non dovranno aspettarsi in età più matura da un giovane di merito sì straordinario? — E cita giudizio simile del gran poliglotto svedese, Davide Akerblad. Creuzer, che aveva spesa una vita intorno a Plotino, non disdegnò di valersi di quel manoscritto nelle sue appendici Addenda et Corrigenda.

Gli altri due lavori sono un tentativo di ricostruzione. Vuol rifare la vita e gli scritti di uomini già chiarissimi, di cui non era rimasto quasi che il nome. Come da pochi frammenti alcuni tentano ricavare il mondo preistorico, il giovane usa quella sua erudizione infinita a rifare nella vita e negli scritti Ermogene, Esichio, Elio Aristide, Dione Crisostomo, Cornelio Frontone, e molti altri autori presso che ignoti. Chi guardi alla fresca età e alla straordinaria dottrina, non troverà esagerazione la lode del De Sinner e del Thilo, né che il Niebhur lo chiami «Italiae conspicuum ornamentum», e lodi «candidissimum praeclari adolescentis ingenium et egregiam doctrinam».

Tutti questi lavori furono fatti in poco più di due anni, celerità possibile solo a colui che spendeva le giornate a leggere, chiuso in una biblioteca, e tutto ciò che leggeva fissava in carta e faceva suo con ogni maniera di esercizii.

Ci è lì dentro, più che un sapere di biblioteca, quel leggicchiare antologie e dizionarii storici che procaccia fama di erudizione a buon mercato; ci è un sapere condensato e assimilato. Esempio possono essere i suoi commentarii sulla vita e le opere di Dion Crisostomo, di Elio Aristide, di Cornelio Frontone, di Ermogene. Per averne un concetto, scegliamo il primo, che riguarda Dione. Nell’introduzione si sente quanto desiderio di gloria scaldava il giovane, quanto amore di lettere, e quanta ammirazione de’ sapienti:


Doctissimorum virorum exempla revolvere, solet viventibus doctrinae praebere incitamenta. Hinc laudis, hinc gloriae studium, hinc aemulae mentis contentio. Quis enim et infoecundas gloriae et laudum expertes sapientiam vocet et litteras?


Ma, una volta immerso nelle sue ricerche, nessuna più espansione, nessuno studio di frase o di pensiero. Diviene arido come uno scoliaste. Diresti che, affaticando il cervello nelle minuterie del suo argomento, non gli rimanga voglia né forza di alzarsi nelle alte regioni della critica. Sappiamo i nomi di Dione, la sua patria, i suoi discepoli, i suoi viaggi, e i titoli e il soggetto delle sue opere; ma non per ciò conosciamo addentro Dione nel suo essere, nel suo ingegno, nel suo carattere. Ciò che colpisce, è il numero stragrande di citazioni greche e latine, anche dove i fatti sono ammessi, e non ne hanno bisogno. Il risultato più chiaro è di farci dire: — Quanta dottrina aveva accumulato nel suo cervello questo fanciullo! — Il libro ha l’apparenza di note e di notizie raccolte da infinite parti e messe insieme per fare un lavoro. C’è il materiale; manca il lavoro. A questo modo stesso sono tirati giù gli altri commentarii. Si capisce dunque da una parte che il De Sinner ci trovi poca maturità di giudizio, e da altra che uomini sommi sieno stati percossi di maraviglia innanzi a una sì grande erudizione, tutta fatica sua, ciò che faceva sperare all’Italia un filologo insigne. E non aveva che sedici anni! È l’età che potrei chiamare la luna di miele dell’immaginazione, il quarto d’ora di poesia concesso a tutti; e quando Ennio Visconti, divenuto poi il principe degli eruditi, traduceva tragedie greche e faceva versi, egli, contro il costume della sua età, scimieggiava Mai, latineggiava, correggeva testi, discuteva varianti, confrontava date, raccoglieva frammenti, disseppelliva rispettabili rovine, con quello stesso ardore che altri mettevano a disseppellire Ninive, o Troia, o Pompei. Abbiamo l’erudito, o se vi piace meglio, l’eruditissimo, come lo chiama Niebhur, e in quella superlativa erudizione vediamo già svilupparsi quella critica che sta ancora nelle basse regioni dell’emendazione e illustrazione de’ testi.

Certo, se Giacomo avesse potuto nella biblioteca paterna trovare tutti i libri di filologia usciti in Germania, e non solo gli antichi scrittori, ma anche i più recenti, aveva attitudine, pazienza, acume a diventare sommo filologo. Leopardi fin qui non comparisce che come un giovane di grande aspettazione; e tale lo giudicavano que’ dottissimi filologi tedeschi, che ammiravano que’ suoi lavori, miracolosi per così giovane età.

E mi spiego la condotta del De Sinner, che gl’italiani biasimarono con troppa fretta. Egli ebbe in deposito questi manoscritti di Leopardi, e ne pubblicò appena un sunto; e quando Pietro Giordani glieli chiese, il De Sinner non volle. Parecchi dissero: — È per invidia, per appropriarsi i lavori di Leopardi — ; giudizio temerario, che dobbiamo biasimare. De Sinner non volle e disse: — Non capisco la vostra premura, avete un grande scrittore italiano in Leopardi, e volete farne uno scolare di filologia — . L’aver poi egli venduto que’ manoscritti alla Biblioteca Nazionale di Firenze per cavarne un profitto personale, è una azione che sarà giudicata severamente da tutti quelli che hanno in onore la dignità umana.
Il giovane di grande aspettazione, dalla pubblicazione di questi manoscritti attendeva fama e qualche profitto. Il profitto se l’ebbe De Sinner; la fama gli venne per altra via. E i manoscritti, salvo i pochi pubblicati dal Cugnoni, giacciono polverosi nella Biblioteca Nazionale.
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