< Gismonda da Mendrisio
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Personaggi Atto secondo

GISMONDA DA MENDRISIO.


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ATTO PRIMO.


Sala.


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SCENA I.


IL CONTE, ERMANO, GISMONDA.


 

Il Conte.Figlio, di tue gravi ferito appena
Saldo risorgi, e l’arme vesti? Omai
Di nostre valli uscir che giova? Estinta
La gran face di guerra, estinta è alfine,
Che fe’ si reo di Lombardia governo.
Ermano.Sacri alla pace del natio castello
Riviver bramo anch’io miei dì. Ma sprone
Oggi mi son vendetta e onor. Milano
Cade, se fama non mentía. Vederla
Vo’ nella sua ignominia, esser del crollo
Vo’ testimon. Soave, inebbriante
Vendetta fiami a tanti danni, a tanti
Scherni, a queste ferite! Onor, diss’io,
Spronami inoltre. Da più giorni i vinti
Schiuser le mura a Federico, e indarno
Pregan clemenza. Ei tace, e s’apparecchia
Alla giurata nel cuor suo tremenda,
Piena ruina; ma il decreto ei tarda
Per securarsi de’ fedeli il voto,
E scrutar forse chi secreta annidi
Pietà per gli empi, e l’odio suo si merti.
Deh, non sia ch’oltre il ver magnificate
Pensi il monarca mie ferite, e dica:
«Dubbia è la fè d’Erman, suoi pianti cela

Nel paterno castel, spettator farsi
Dello sterminio di Milan non vuole.»
Si, spettator farmene vo’; i ribelli
Chi più di me abborría? Chi più anelante
Di mirar nella polve i lor vessilli,
Il lor carroccio; le lor torri, e lieto
Cavalcando avventarmi ov’esse furo,
E dir: «Del mio destrïer l’ugna le pesta!»
Il Conte.Ascolta, figlio.
Ermanno.                    Cessa. Il furor mio
Tanto è maggior, quanto più grave è l’onta
Che sovra noi gettato ha quel fellone....
Che fratel dirmisi osa.
Il Conte.                                        Il furor nostro
Contro all’empia città che per tant’anni
Trascinò Italia a ribellar, che tanti
Nostri congiunti trascinovvi, e un figlio,
Un figlio mio! dovuta era giustizia:
E il debito solvemmo. A' suoi stendardi
L’inperador di noi non ebbe un prode
Fra gl’itali baroni e più devoto
E più del proprio sangue in venti pugne
Largo effusore. E noto è a lui che il ferro
Non cessò di rotar mio antico braccio,
Finché da orrendi colpi io lacerato
Non caddi un giorno in sua difesa; — il giorno
Ch’essermi parve estremo, e stato il fòra
Se a me non accorrea quell’infelice....
Ch’io maledissi, e figlio ancor mostrossi.
Ermanno.
Colui cessiam di rammentar. Finiti
Sono e suoi vanti e sue minacce.
Il Conte.                                                            Ah dove
Chiuso avrà forse i mesti dì, o ramingo
E sconsolato li trascina? Il cielo
Severamente lo punì. Deh, flglio,
Tu sol mi resti: al padre tuo, cui turba
Ben non so qual presagio or di sventure,
Compiaci: resta al fianco mio.


Ermanno.                                        Non posso.
Il Conte.Ten prega anco la moglie. Or su, Gismonda,
Che non aggiungi tua dolce parola
A rattener lo sposo?
Gismonda.                              Io fra diverse
Brame ondeggiava.
Ermanno.                         Quali?
Gismonda.                                   O rattenerti,
O mover teco ad allegrar del grande,
Sospirato spettacol mie pupille:
Milano in fiamme!
Ermanno.                              Oh di me degna sposa!
Grato sariami averti a fianco, e i tetti
Avvampanti mirando, «Ecco là, dirti,
Degli uccisori de’ tuoi cari i tetti!»
Ma i perigli pur temo, e a tua salvezza
Mal vegliar potrei forse.
Gismonda.                                        Oh con qual gioja
A quell’orribil vista evocherei
Le sacre ombre del padre e della madre
E de’ prodi fratelli, atrocemente
Tutti della natia Lodi sepolti
Nelle ruine! Oh Lodi mia! quel giorno
Ch’orfana errava io sulle tue macerie,
Invano dunque al cielo io non porgea
Quest’angosciato grido: «Agli atterriti
Sguardi del passeggier simile appaja
Un dì Milano!»
Il Conte.                         Te esaudiva, o figlia,
Te il cielo e noi. Grazie gli sien. Ma quando
Nostre vendette son compiute, al gaudio
Inverecondi non sciogliamo il freno.
Narrasi d’un guerrier che calpestava
Con alto scherno d’un nemico il tronco.
«Non rider della morte; ella t’aspetta
Fra sette giorni!» gli gridò un romito,
E al termine segnato era spirante.
Ermanno.Di Dio alla folgor non applauder? Nostri

Sono di Dio i nemici.
Gismonda.                                             Il suo gastigo
Allor paventerei, se in questo core
Pietà mai mi parlasse a pro degli empi
Ch’arsero la mia patria e sterminaro
La mia famiglia.
Il Conte.                                    Il filïal rammarco
Che t’esacerba, a tua ferocia è scusa.
Ma tal ferocia, o Ermano, in tua consorte
Scusar dèi, non dividerla. Sui vinti
Indegna mai non fu pietà.
Ermano.                                                   Sui vinti
In cui superbia cessi e tradimento;
Non su costor, non su costor che proni
Pace imploraro altra fïata, e in petto
Superbia e tradimento era, e più audaci
A nuove pugne indi sorgeano. Addio.
Il Conte. Se vano dunque è di tuo padre il prego,
Che fermarti vorrebbe, un altro prego
Non rigettar: comando siati. In ceppi
Scontrar potresti forse o in disperata
Battaglia ancor quell’infelice.... In lui
Non mirar se superbia e tradimento
Covin perenni. Ah, chi di lui più iniquo?
Chi più ostinato? il so; più non ispero
Che si ravvegga. Nondimen ricorda
Che fratel gli nascesti. Alta finora
Fu grazia del Signor, che in pugna mai
In lui non t’imbattevi; e se accadesse,
Scansalo deh!
Ermano.                     Scansar chi m’assalisse?
Il Conte. Altr’uom non mai; bensì il fratel. Nel sangue
D’un fratel non intingasi tua destra.
E se.... in periglio il vedi.... e da te penda
Salvar suoi giorni, salvali. E se nudo,
Mendico, fuggitivo.... ah tu d’aita
Generoso gli sii!
Ermano.                                    Padre, obliasti

Qual maledizïon sovra il suo capo
Fulminato abbi tu? quai giuramenti
Pronunciato io? Di Cesare un nemico,
Un traditor, null’altro emmi colui
Pur.... se fuggiasco io l’incontrassi, e aïta
A me chiedesse, oblierò un istante
del codardo i delitti.
Il Conte.                               Oh! a te non mai
Chiederà aïta.
Ermano. (Per partire.)
Gismonda.                    Sposo, ferma. Il nostro
Ricciardo non è quello?
Ermano.                                    Esso?


SCENA II.


RICCIARDO, E DETTI.


Il Conte.                                                   Che rechi?
Milano?...
Ricciardo.           Fu!
Il Conte, Ermano, Gismonda.                                         Che dici?
Ricciardo.                                         Io con quest’occhi
Precipitar la vidi: io con quest’occhi
Rasa vidi la terra ove s’estolse.
Il Conte. Oh spavento! Ella fu! l’altera donna
Delle province! la città che il pugno
Stese alla fronte degli augusti, e il serto
Sveller voleane ed a se stessa imporlo!
La città cui vittoria avea promesso
Quello infra i due pontefici di Roma
Quello che a tutti d’Occidente i regni
Legittimo parea! Bugiarda alfine
Ecco manifestata or d’Alessandro
La santità: pontefice verace
Vittore é adunque.
Ricciardo.                               Il fosse! Eppur bandita
Dal popolo atterrato anco la fede
In Alessandro appien non è. All’editto

Che tutti uscisser dalle mura, e maschi
E femmine e fanciulli, e quanto seco
Portar potean, la miserevol turba
Obbedì urlando: «Ahi; ci tradì Alessandro
Che a Milan gloria predicea!» Ma antichi
Sacerdoti e guerrieri allor fur visti
Che rimaner voleano entro le mura
Esclamando: «É infallibile promessa!
A mantenerla oprerà Dio portenti!»
E i congiunti e gli amici a que’vegliardi
Facean più vïolenza, e trascinarli
Era lor d’uopo; e udiano empi chiamarsi,
Di poca fè, codardi. E molti furo
Che, rigettata ogni pietà, restaro
Ne’ tetti lor, ponendo in Dio fidanza
Che co’ prodigi il popol suo salvasse.
Ermano. Insensati!
Il Conte.           E magnanimi!
Ricciardo.                                         Que’tetti
Crollaron poscia e a’ miseri fur tomba!
Il Conte. Sperando non giacea fuor delle mura
L’espulsa moltitudine? Qui il grido
Venne, che forse con minacce solo
Volesse Federigo umilïarla.
Ricciardo. Più dì nutrian quella speranza i folli
Dalle mura cacciati, e udiansi molti
Dir: «Federigo sterminar non puote
Questa città; vaticinolle gloria
Quell’Alessandro che in ciel legge i fati.»
Il Conte. Oh quanta fede, o illusi!
Ricciardo.                                         Un largo varco,
Diroccate le mura, a Federigo
E al trïonfante esercito fu schiuso,
Che la città spogliaro. Il derelitto
Popolo ancor dicea: «Dio negli averi
Or ne punì, ma porrà quindi in core
Del vincitor, di renderci alle stanze
De’nostri padri.»

Il Conte.                     Ed allorquando il caro
Inganno si disciolse, e uscì l’editto
Dello sterminio?...
Ricciardo.                                    A disperato pianto
Allor diersi le turbe, ed imprecato
Allor s’intese d’Alessandro il nome!
Ma tai v’avea che pur costanti il fero
Evento non credean, che l’aspettato
Miracolo invocavano! A’lor guardi
Cadder le torri e tutti ad uno ad uno
Gli alti palagi e popolani alberghi;
E i deliranti ripeteano: «È un sogno!»
Ermano. A’martelli e alle faci, oh con qual gioja
Stati saran ministri i vincitori!
Ricciardo. Sveve mani non fur.
Il Conte.                                   Lombarde?
Ricciardo.                                                        A queste
Affidò l’opra il sir.
Il Conte.                                    Oh eterno obbrobrio!
Ricciardo.Pensava forse Federigo istesso
Che lombardi guerrieri avrian tant’opra
Supplici ricusato e sopra i vinti
Implorato clemenza: — alle sei parti
Di Milano scagliarsi eccoli invece,
In sei falangi; e la città è sparita.
Il Conte. De’miseri dispersi, oh quai le grida
Esser doveano!
Ricciardo.                               Orribili! favella
D’uom ridirle non puote. Eppure udii
Più d’un di lor, quando Milan fu polve,
Alle mogli e alle vergini che il crine
Si laceravan, susurrar: «Cessate;
Risorgerà; caduti son gli ostelli,
Ma la città è nel popolo, ed è questa
La Milan cui promessa è gloria ancora!»
Il Conte. Non natural, sublime, spaventante
D’orgoglio pertinacia!
Gismonda.                                              A che gli alberghi

Solo atterrar, se ciò che strugger dèssi
Il popol è?
Ermano.                     T’acqueta. Ove il monarca
Deboli cingan consiglieri, a lui
Il forte detto recherò: «Distrutta
Non è Milan, finchè i suoi figli han vita:
Strage sen faccia, o per le vaste selve
Disseminati di Germania e schiavi
Lascin, pari al Giudeo, povera e fiacca
Prole che attesti la paterna infamia.»
Il Conte. Nulla a dirmi, o Ricciardo, hai tu del reo
Che tanti affanni mi costò?
Ricciardo.                                                        Il Signore....
T’ha vendicato.
Il Conte.                               Egli....
Ricciardo                                                  È sotterra.
Il Conte.                                                                       Oh figlio,
Figlio mio sciagurato! a che ti trasse
Il tuo superbo inobbedir! - caduto!
E dove? e quando? e senza alcuno, forse,
Che raccogliesse il suo sospir, che a lui
I rimorsi temprasse, e gli dicesse:
«L’imprecar di tuo padre era giustizia,
Odio non era; e piangerà all’annuncio
Della tua morte, e implorerà da Dio
De’tuoi falli il perdono!» Oh! dimmi, come
Perì?
Ricciardo.                Quando l’assedio ebbe a furore
Suscitato i famelici, in Milano
Discordia orrenda gli animi divise,
E nella turba prevalea il partito
Di sottoporsi al vincitor. Negaro
Di consentire i magistrati. Infrante
Venner lor sedi; alcuni d’essi in brani
Fur fatti, e gli altri all’intimar del volgo
Cessero allor. Fra i morti era il canuto
Iacopo Della Torre.
Il Conte.                                         Il mio nemico!

E il popol suo lo trucidava!
Ricciardo.                                                   A lui
Scudo, narrasi, fean la figlia sua
E il genero Ariberto: insieme oppressi
Sotto i pugnali rimanean del volgo.
Il Conte. Tutti sotterra eccoli dunque! Il figlio,
La nuora, il vecchio che si truce e lungo
Odio portommi e ch’io tanto odiava!
Quante volte la fama io di sua morte
Sospirai! Questa fama ecco; e letizia
No, ma spavento inondami, e dolore.
Ermano. Del cor dagli anni indebolito ascondi,
Ascondi, o padre, i gemiti. A disdegno
L’imperador trarrebbero, al suo orecchio
Ove giugnesser.
Il Conte.                               Che? Dovuta a lui
Era mia fè: la tenni. A lui dovuto
Non è ch’io esulti sugli estinti.
Ermano.                                                              Sposa,
Fra brevi dì rïabbraciarti spero.: A te, padre, l’affido.1


SCENA III.



IL CONTE, E GISMONDA.




Gismonda.                                              Omai mi lice
Più non tremar per esso. I traditori
Che tante volte insidïar suoi giorni
Più non son sulla terra.
Il Conte.                                              Odi, Gismonda,
Quella feroce gioja al tuo sembiante
E’ indecorosa, e irritami; e più assai
Perchè quel figlio che sotterra io piango
Amavi un dì.
Gismonda.                          L’amai, finchè di sposo
La man m’offria. Dovev’io amarlo ancora

Quando gli strazi del cor mio derise,
E ad altra donna posponeami? Oh vile,
S’io tanto oltraggio oblïar mai potessi!
Il Conte.Giustificar del travïato i falli
Nun vo’; di me null’uom più ne fremea:
Di me null’uom più li punì. Ma quando
Il funebre suo vel morte ha disteso
Su qual siasi perverso, il maledirgli
È sacrilega rabbia.
Gismonda.                                   Ai trucidati
Parenti miei non maledisse? al pianto
Della lor figlia non oppose spregio?
Il Conte.Spregio non mai. T’abbandonò ma tristo,
Te con pietà nomava.
Gismonda.                                        E abbandonarmi
Non era spregio? Di pietà insultante
Essere obbietto dovev’io?
Il Conte.                                                     Me pure
Abbandonò, me crudelmente afflisse;
Ma il veggo là trafitto.... e accanto a lui
La sciagurata per cui reo si fece....
Ed il suocero iniquo.... e i pargoletti....
E sovra i corpi loro a sepolcrarli
Precipitare una città! — Gran Dio!
Come a tal vista non tremar, nè spenta
Sentirsi ogn’ira? — Ah, padre io son, tu nulla
Ad Ariberto fosti!


SCENA IV.




GISMONDA.



                                   Ad Ariberto
Io nulla fui? — Troppo gli fui! mia vita
Data per esso un tempo avria. Per esso
Lungamente esecrato ho quella destra
Che in loco della sua strinsi, che farmi
In loco della sua dovea felice -

  1. Parte, e Ricciardo l’accompagna

Note

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