< Gl'innamorati
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Atto III
Atto II Nota storica

ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Lisetta e Tognino.

Lisetta. Ma che desinare arrabbiato è stato quello di questa mattina!

Tognino. Io non ne saprei indovinare il perchè.

Lisetta. Qualche briga vi è stata fra la signora Clorinda e il signor Fulgenzio.

Tognino. La mia padrona è di temperamento quieto e pacifico. Non vi è mai stato che dire con suo marito; e con suo cognato si amavano come fratelli.

Lisetta. E quest’amore innocente e questa loro buona corrispondenza è quella che fa delirar la signora Eugenia.

Tognino. Me ne sono avveduto questa mattina, quando ella mi ha tirato giù per saper quel che fanno e quel che non famno. Io ho parlato alla buona, non credendo mai che fosse gelosa di una cognata.

Lisetta. Non è vero che sia gelosa.

Tognino. E che cos’è dunque?

Lisetta. È puntigliosa. Non le dispiacciono le attenzioni, che usa il signor Fulgenzio alla signora Clorinda, perchè li dubiti innamorati, ma perchè vorrebbe essere ella sola servita, corteggiata, distinta, e non soffre che l’amante usi una menoma attenzione a qual si sia persona di questo mondo. Lo vorrebbe sempre qui, lo vorrebbe sempre con lei. Crede che la premura per la cognata distragga il signor Fulgenzio dall’assiduità di servirla; s’immagina che gli possano insinuare delle massime poco a lei favorevoli. Sa di aver poca dote. Ha sdegno che la signora Clorinda abbia portato in casa seimila scudi. Dubita che il signor Fulgenzio la stimi e la veneri anche per questo, e che concepisca dell’avversione alla di lei povertà. Noi donne, se nol sapete, siamo per solito ambiziosette. Abbiamo a sdegno quelle che sono, o quelle che possono più di noi. Ogni una vorrebbe essere la sola stimata, la sola riverita ed amata, da colui specialmente che si è dichiarato per lei, e ogni cosa le fa ombra; e chi più, e chi meno, dubita, sospetta, s’inquieta. Ed ecco le fonti donde derivano le smanie della padrona. Amore, timore, vanità e sospetto.

Tognino. E quale di queste passioni nel cuore della signora Eugenia è la dominante?

Lisetta. Oh l’amore, l’amore. Se non amasse tanto, non sarebbe nè sospettosa, nè sofistica a questo segno. La vanità di esser la distinta, provien dall’amore; che importerebbe a lei che il signor Fulgenzio facesse la corte alla cognata, se non avesse per lui della tenerezza, e se non credesse di essere amata?

Tognino. Ma quando termineranno questi loro deliri?

Lisetta. Subito che il signor Fulgenzio l’avrà sposata.

Tognino. E perchè non la sposa?

Lisetta. Intesi dire che non lo fa, se non torna il di lui fratello.

Tognino. Io credo che debba essere qui a momenti. Una lettera venuta questa mattina, mi pare lo faccia poco lontano.

Lisetta. Voglia il cielo che finiscano di penare. Vi assicuro, che delle stravaganze della signora Eugenia ne risento anch’io la mia parte.

Tognino. Farmi sentir del rumore di là dove mangiano.

Lisetta. Sono alle bottiglie. Avranno gli spiriti in moto.

Tognino. Ho curiosità di sentire. Sempre mi trema il cuore per il mio padrone.

Lisetta. Aspettate. Senza che andiamo di là, da questa porta si può rilevar qualche cosa, (va alla porta, e guarda per il buco della chiave.)

Tognino. (È un po’ troppo caldo il padrone).

Lisetta. Oh diancine! non sono in allegria no. Ho sentito delle parole di sdegno. (a Tognino, scostandosi dalla porta)

Tognino. Lasciale che senta. (si accosta alla porta)

Lisetta. Guardate per il buco della chiave. (a Tognino) (Dubito che non voglia finir in bene).

Tognino. Vi sono de’ guai. La mia padrona piange. (scostandosi)

Lisetta. Piange la signora Clorinda? (corre a vedere alla porta)

Tognino. (Quella buona signora non merita queste afflizioni).

Lisetta. Il signor Fabrizio è in collera; ha gettato via la salvietta, e si è partito di tavola. (stando presso la porta)

Tognino. E il mio padrone che cosa fa?

Lisetta. Aspettate. (guarda)

Tognino. (Dubito di qualche gran precipizio).

Lisetta. È sdraiato sopra la tavola, colla testa cacciata fra le braccia. Ho veduto che il signor Ridolfo gli parta, ma egli non gli risponde.

Tognino. Lasciatemi un po’ vedere. (si accosta alla porta)

Lisetta. Sì, soddisfatevi. (si ritira dalla porta)

Tognino. (Non vorrei ne meno conoscerlo, non che essere al suo servizio. Mi fa compassione). (guarda)

Lisetta. (Certo, se durano a far questa vita, io non ci sto).

Tognino. La signora Eugenia è balzata in piedi. (a Lisetta)

Lisetta. Lasciate vedere. (corre alla porta e guarda)

Tognino. Che cosa fa? (con ansietà)

Lisetta. Se ne va via. (osserva)

Tognino. E la mia padrona?

Lisetta. Si asciuga gli occhi. (osserva)

Tognino. E il padrone?

Lisetta. Non si move. (osserva)

Tognino. E la signora Flamminia?

Lisetta. Par che pianga ella pure. (osserva)

Tognino. E quel forastiere?

Lisetta. Prende tabacco, e non parla. (osserva)

SCENA li.

Eugenia e detti.

Eugenia. Che fate lì a quella porta?

Lisetta. Niente, signora. (Lisetta e Tognino si spaventano)

Eugenia. Andate via. ’

Lisetta. Perdoni. (ad Eugenia)

Tognino. Compatisca. (ad Eugenia)

Eugenia. Levatevi di qui, vi dico.

Lisetta. (Oh, le fuma il capo davvero). (parte)

Tognino. (Povero padrone! Voglio vedere se ha bisogno di nulla). (parte)

SCENA III.

Eugenia sola.

(Ponendosi a sedere con isdegno) No, non voglio più far questa vita. Se tirerò innanzi così, diverrò tisica, morirò disperata. Veggo da me medesima, che di giorno in giorno mi vo dimagrando, e per chi? Per un ingrato. Non serve dire; Fulgenzio è un ingrato. Ha sempre finto volermi bene, ma non me ne ha mai voluto. Nelle occasioni si conosce chi ama. Se avesse per me quella premura che dovrebbe avere, cosa gl’importerebbe disgustar per me la cognata? Oh! gliel’ha raccomandata il fratello. Il fratello è fratello, e l’amante è amante; e se ho d’amare, voglio essere amata, e chi mi ama ha da scordarsi d’ogni altro affetto. Ma è impossibile, mi dirà taluno, trovar un uomo come tu vorresti. Bene, se non c’è, non m’importa. Andrò in un ritiro; andrò lontana dal mondo. Già il signor Fulgenzio è annoiato di me, ed ha ragione di esserlo, perchè sono assai delicata. Si è pacificato più volte; si è umiliato; mi ha domandato perdono, non vorrà più farlo, ed io non voglio esser la prima. È meglio così. Ho risolto1; voglio andarmi a chiudere in un ritiro. Sarà contento; non mi vedrà più. Avrà finito di essere tormentato. Servirà la cognata; troverà un’altra amante; si mariterà. (a poco a poco si dispone a piangere)

SCENA IV.

Flamminia e la suddetta.

Flamminia. Che fate qui da voi sola?

Eugenia. Niente. (nascondendo le lagrime)

Flamminia. Eh via, finiamola.

Eugenia. Lasciatemi stare. (come sopra)

Flamminia. Pare lo facciate apposta, perchè il signor Fulgenzio si stanchi, e vi perda l’amore.

Eugenia. Che importa a me del suo amore?

Flamminia. Eh via. Si sa che vi preme.

Eugenia. No davvero, non ci penso più.

Flamminia. È quella maledetta bile, che vi fa parlare così.

Eugenia. Aspettate domani, e vedrete se è bile, o cos’è.

Flamminia. E che cosa volete fare domani?

Eugenia. Voglio ritirarmi dal mondo.

Flamminia. Sì, sì, dormiteci sopra, e non sarà altro.

Eugenia. Sorella, voi ancora non mi conoscete.

Flamminia. Vi conosco pur troppo. (un poco alterata)

Eugenia. Sono irragionevole, è vero? (sdegnata)

Flamminia. Avete delle ore buone, ma altresì delle ore molto cattive.

Eugenia. Ora sono nelle ore pessime. Lasciatemi stare, (come sopra).

Flamminia. Nostro zio è fuori di sè.

Eugenia. Che gli ho fatto io?

Flamminia. Che cosa avete fatto alla signora Clorinda?

Eugenia. Già tutti proteggono quella gran dama. Io sono il cane del macellaio: ossa, e busse.

Flamminia. Dovevate portar rispetto al padrone di casa, che l’ha invitata.

Eugenia. Ma che cosa le ho fatto?

Flamminia. Che lo so io? È venuta a tavola colle lagrime agli occhi.

Eugenia. Oh! sapete perchè è venuta colle lagrime agli occhi? Perchè ha trovato qui suo cognato.

Flamminia. Io so che si è doluta molto di lui, e dice che le ha perduto il rispetto.

Eugenia. Sì, ha ragione; pretende che non si parta da lei, che stia seco a pranzo, a farle fresco su la minestra, se scotta, e se non la fa, dice che le perde il rispetto.

Flamminia. Questa finalmente è una cosa che dee durar poco.

Eugenia. Come poco?

Flamminia. Se vien suo consorte, il signor Fulgenzio ha finito.

Eugenia. E quando verrà questo suo consorte?

Flamminia. Ho inteso dire, che l’aspettano oggi.

Eugenia. Oggi? (un poco placata)

Flamminia. Così disse la signora Clorinda.

Eugenia. Eh sì! se tornerà suo marito, non seguiteranno a convivere insieme? (alterata)

Flamminia. Può esser di no. Se il signor Fulgenzio vi sposa, non sarà cosa illecita, che lo preghiate di metter casa da sè.

Eugenia. La metterebbe poi? (placata)

Flamminia. Son persuasa di sì. Sapete che non vi sa negar cosa alcuna.

Eugenia. Guardate la bella premura che ha di me. Si move per venirmi a vedere? Sa staccarsi un momento dalla cognata?

Flamminia. Eccolo, eccolo, ch’egli viene.

Eugenia. Non gli dite niente, ch’io aveva risolto2 d’abbandonarlo.

Flamminia. Io non so di queste pazzie.

Eugenia. Vien molto adagio. Sarà sdegnato.

Flamminia. Parlategli con umiltà.

Eugenia. Ho da pregarlo? Oh questo poi no.

Flamminia. L’ha fatto egli tante volte con noi.

Eugenia. Basta3. Se sperassi che le cose andassero come dite voi; e se veramente mi volesse bene...

Flamminia. Se non vi amasse, non verrebbe qui...

Eugenia. Zitto, zitto. Sentiamo che cosa dice.

SCENA V.

Fulgenzio e dette.

Fulgenzio. Signora Eugenia, mi permetterete di’io vi dica una cosa, da voi forse non preveduta. Ho piacere che vi si trovi la signora Flamminia.

Flamminia. (Oh, vi è del male. Non l’ho mai più veduto così burbero, come ora).

Eugenia. (Che sì, che vuol fare il bravo).

Fulgenzio. Voi sapete ch’io vi amo, ma sapete altresì ch’io sono un uomo d’onore. (ad Eugenia)

Eugenia. lo non so nessuna di queste cose.

Fulgenzio. Come! mettereste in dubbio la mia onoratezza?

Flamminia. Non le badate, signor Fulgenzio. Io la conosco queste mozzina, lo dice apposta per farvi arrabbiare.

Fulgenzio. La signora Eugenia può dir quel che vuole; può burlarsi di me, può deridermi, può insultarmi, ma non mi può intaccar nell’onore.

Eugenia. Se fossi un uomo, mi sfiderebbe alla spada.

Fulgenzio. Felice voi, che potete scherzare. Nello stato in cui mi trovo, non fo poco, se ho tanto fiato da poter parlare. L’amor che ho per voi, è arrivato all’eccesso, è arrivato a farmi perdere la ragione, son divenuto brutale, nemico degli uomini, e di me stesso. Ma tutto questo sarebbe poco, se non mi facesse essere indiscretto, incivile, e quel ch’è peggio, ingrato al mio sangue, e sprezzatore del decoro della famiglia. Che dirà di me mio fratello? che dirà egli, quando saprà che per cagion vostra ho perduto il rispetto alla di lui moglie?

Eugenia. Oh oh, ecco qui, ecco qui donde derivano le smanie del signor Fulgenzio. Ecco lo sforzo della delicatezza d’onore. Ha detto una parola torta alla dilettissima sua cognata. Ha commesso un error grandissimo. Si sente morire d’averlo fatto. Bisogna rendere soddisfazione a questa illustre signora. Volete che vada io a domandarle scusa per voi?

Flamminia. Che manieraccia è questa? Lo voglio dire al signore zio. (ad Eugenia) Per l’amor del cielo, signor Fulgenzio, non le badate.

Fulgenzio. Non mettete in ridicolo una cosa seria. (ad Eugenia)

Eugenia. Io voglio ridere quanto mi pare.

Fulgenzio. Ridete pure a vostro talento. La vostra ilarità in un caso simile dipende, o da poco amore, o, compatitemi, da poca ragione.

Eugenia. Sì, sono una pazza. Non lo sapete?

Fulgenzio. No signora; sapete esser saggia, quando volete.

Eugenia. Ma questa volta son pazza. Ditelo liberamente.

Flamminia. Se non lo dice egli, lo dirò io.

Eugenia. Voi non e’entrate, signora. (a Flamminia)

Flamminia. Meritereste che tutti vi abbandonassero.

Eugenia. Basta che non mi abbandoni il cielo.

Flamminia. Il cielo non assiste a chi ha massime come le vostre.

Eugenia. Che? sono una bestia io? non merito l’assistenza del cielo?

Flamminia. L’ingratitudine è odiosa agli uomini e ai numi. Voi trattate male con chi vi ama; cercate di affliggere le persone innocenti; odiate chi vi consiglia al bene; tradite voi stessa, calpestate i doni del cielo; e non arrossite di voi medesima?

Fulgenzio. Via, signora Flamminia, non l’affliggete d’avvantaggio. Io non ho cuore di vederla mortificata. Eugenia è assai ragionevole per conoscere da se stessa i trasporti della passione. Sono stato io più debole e più mentecatto di lei, doveva conoscere il peso delle sue parole, compatirla, e dissimulare. La collera mi ha trasportato. Ella non mi ha sforzato a insultar mia cognata; sono stato io l’incauto, il malaccorto, il furente. Eugenia mi ama, ed è per amore gelosa.

Eugenia. Io non sono gelosa di vostra cognata.

Fulgenzio. Lo so; è uno sdegno da voi concepito per timore di non essere preferita; ma, cara Eugenia, disingannatevi; vi amo e vi stimo sopra tutte le cose di questo mondo.

Flamminia. (Parla in una maniera, che farebbe intenerire i sassi. Possibile ch’ella voglia essere così caparbia?)

Eugenia. Se conoscete dunque il motivo delle mie inquietudini, perchè non cercate la via di rendermi consolata? (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Sì, cara, vi chiedo scusa della poca attenzione che avessi avuta per voi; cercherò in avvenire di meglio meritarmi l’affetto vostro; e spero vicino il tempo di potervi dare la più vera testimonianza dell’amor mio.

Eugenia. Sarebbe tempo che il mio cuor respirasse.

Flamminia. Abbiate giudizio. Se siete in pace, sappiateci stare.

Fulgenzio. Eugenia carissima, voi mi avete da accordare una grazia.

Eugenia. Non siete voi padrone di comandarmi?

Fulgenzio. Me l’avete da far con buon animo.

Eugenia. Se non desidero che compiacervi.

Fulgenzio. Mi avete a permettere, ch’io possa ricondurre mia cognata alla propria casa.

Eugenia. Se qui l’ha condotta il signor zio, perchè non può egli restituirla dove l’ha presa?

Fulgenzio. Il signor Fabrizio è sdegnato; non si lascia vedere; e poi aspettasi mio fratello, e non ho piacere che trovi in casa degli sconcerti.

Eugenia. Sì, sì, avete ragione. Accompagnatela pure. (dissimulando)

Fulgenzio. Me lo dite di cuore?

Eugenia. Anzi.

Fulgenzio. Ho paura che vogliate dissimulare, e che dentro di voi non siate contenta.

Flamminia. Che volete voi sottilizzar d’avvantaggio? È una cosa giusta; lo conosce, e l’accorda. Fate quest’atto di onestà, di dovere, e poi subito tornate qui. (a Fulgenzio)

Eugenia. No, no, che non s’incomodi a ritornare.

Fulgenzio. La sentite, signora Flamminia?

Flamminia. Ho sentito tanto che basta, e non ne voglio sentire di più. (Le caccierei la testa nel muro). (parte)

SCENA VI.

Fulgenzio ed Eugenia.

Fulgenzio. Questa è la grazia che avete promesso accordarmi.

Eugenia. Io non v’impedisco che la conduciate.

Fulgenzio. Ma con malanimo.

Eugenia. Non dovete badare all’animo mio; basta che soddisfacciate al vostro.

Fulgenzio. Io non sono portato per altro, che per l’adempimento del mio dovere.

Eugenia. Adempitelo.

Fulgenzio. Sì, in ogni maniera l’adempirò. Posso tutto sagrificarvi, fuor che l’onore di me e della mia famiglia. Se quest’atto del mio dovere mi ha da costare la perdita dell’amor vostro, ne verrà in consegnenza il fine della mia vita, ma non per questo un uomo d’onore dee preferire al decoro la sua passione.

Eugenia. Fatemi almeno un piacere.

Fulgenzio. Oh cielo! comandatemi.

Eugenia. Andate, finitela, e non mi tormentate di più.

Fulgenzio. E ho da lasciarvi qui in questo stato?

Eugenia. Un uomo d’onore non ha da preferire la passione al decoro. Ma che dico io di passione? Andate, andate, che mi sono abbastanza disingannata.

Fulgenzio. Ah nemica della ragione, nemica di me, e di voi medesima.

Eugenia. Avvertite, che insolenze io non ne voglio soffrire.

Fulgenzio. Farò una risoluzione da disperato.

SCENA VII.

Ridolfo e detti.

Ridolfo. Amico, una parola.

Fulgenzio. Ah Ridolfo, soccorretemi per carità.

Eugenia. Soccorretelo quel povero sfortunato. Levatelo dalla presenza di una irragionevole, di una ingrata. (a Ridolfo)

Ridolfo. Perdonatemi, signora, s’io vi dispiaccio. Mi preme l’onor dell’amico. La signora Clorinda ha risolto di partir sola. Ricusa la mia compagnia, ricusa ogni altro, se non la riconduce il cognato.

Eugenia. E perchè non va egli a servirla? È un’ora che glielo dico; ed egli persiste ad importunarmi.

Ridolfo. Via dunque, rammentatevi del fratello, e fate il vostro dovere. (a Fulgenzio)

Eugenia. Più che restate qui, e più mi recate noia. (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Andiamo. (a Ridolfo, sdegnoso contro Eugenia)

Ridolfo. Ogni onestà lo richiede. (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Sì, andiamo. (smanioso e incerto)

Ridolfo. Ma se ve lo dice ella stessa. (a Fulgenzio, accennando Eugenia)

Fulgenzio. Sì, vi dico; andiamo. (come sopra)

Ridolfo. Compatitelo, signora Eugenia.

Fulgenzio. Barbara! (ad Eugenia, fremendo)

Eugenia. Sono stanca.

Fulgenzio. Ingrata! (come sopra)

Eugenia. O andate voi, o vado io.

Fulgenzio. Andrò io, maladetta! (parie correndo)

Ridolfo. Compatitelo. (ad Eugenia)

Eugenia. Andate, andate con lui. (sdegnosa)

Ridolfo. Siete sdegnata meco?

Eugenia. Andate, signor protettore. (come sopra)

Ridolfo. Protettore di chi?

Eugenia. Della parentela,

Ridolfo. Vi compatisco, perchè siete una donna. (parte)

SCENA VIII.

Eugenia sola.

Sia ringraziato il cielo, sarà finita. È meglio così. Già se Fulgenzio fosse mio sposo, non avrei un’ora di bene; e s’ei lo facesse, lo farebbe per forza. Si vede chiaro, che non mi ama. Ed io sarei stolida, se volessi amarlo. Quest’angustia di cuore, che ora mi sento, non è amore, è sdegno. Sdegno non già perchè il perfido mi abbandoni, ma ira contro me stessa per avergli creduto. E sarò così sciocca di andarmi a chiudere in un ritiro per la perdita di un ingrato? Darò a lui questa soddisfazione, acciò se ne vanti, e vada raccontando agli amici la mia disperazione, come un trionfo della sua perfidia? No, non fia vero; vada egli, ed ammiri la mia costanza. Ma quale costanza, se mi sento morire?

SCENA IX.

Fabrizio, Roberto e detta.

Fabrizio. Cospetto di bacco! chi sono io in questa casa? Sono il padrone, o sono qualche stivale?

Eugenia. Con chi l’avete, signore zio?

Fabrizio. L’ho con voi, sciocca.

Eugenia. Con me?

Fabrizio. Sì, con voi. Io sono il padrone; e non ci sono in questa casa altri padroni che io; e una nipote, che dipende da me, non dee far all’amore, senza che io lo sappia; e molto meno parlare di maritarsi. Insolente.

Eugenia. (Or ora mi sente, con queste sue baggianate).

Roberto. Signore, non la mortificate così. (a Fabrizio)

Fabrizio. La vede, signor Conte? Questa è la più stolida ragazza di questo mondo. Non sa che si faccia, non sa che si dica; non è buona da nulla; e parla di maritarsi.

Eugenia. (Non vorrei che mi tirasse a cimento).

Roberto. Ma voi, signore, me l’avete pure lodata, avete pur detto che non c’è in tutto il mondo una giovane come lei.

Fabrizio. Mi disdico di quel che ho detto. È una sciocca, è una frasca, è un’impertinente.

Eugenia. Signor Conte, siccome non avrete dato fede all’elogio, spero non crederete al biasimo, con cui vorrebbe discreditarmi.

Roberto. Tant’è vero ch’io non lo credo, che se mai per avventura accadesser di que’ casi da me previsti, non avrei alcuna difficoltà ad offerirvi la mano.

Fabrizio. Come? il signor Conte si degnerebbe di sposar mia nipote?

Roberto. Sì, certo, e mi chiamerei felice, se avessi la sorte di conseguirla.

Fabrizio. Ah nipote, questa sarebbe per voi una gran fortuna, e per me una gloria immortale. Il signor conte d’Otricoli, cavaliere sublime, illibato, celebre, dovizioso, rampollo illustre di eccelsi progenitori, il fiore della nobiltà, l’esempio della onoratezza, il prototipo della vera cavalleria. Felice voi, felice me, felice la nostra casa. Dice davvero? (al Conte)

Roberto. Io non ho tutti i pregi dei quali mi caricate: ma vanto quello della sincerità; e ve lo dico di cuore.

Fabrizio. Senta, signore, la collera fa dire delle pazzie; per altro Eugenia è un portento: fa invidia a tutte le donne, è una gioia, è un incanto. Sa di tutto, sa far di tutto, ha una mente chiarissima, ha un cuor bellissimo: saggia, morigerata, obbediente. Ha tutte le buone parti immaginabili della bontà.

Roberto. Credo tutto, ma ella ha il cuor prevenuto per altro amante.

Fabrizio. Siete voi impazzita per il signor Fulgenzio? per quello stolido? per quell’ignorante? uomo vile, indegno della mia casa, spiantato, vagabondo, plebeo?

Eugenia. Signore, non vi ricordate voi d’averlo lodato?

Fabrizio. Che lodare! che lodare! io non fo conto di quella sorta di gente. In casa mia non ci verrà più. E se voi ardirete di amarlo...

Eugenia. Acchetatevi, che già è finita. Fulgenzio è da me licenziato.

Fabrizio. Oh brava! sente, signor Conte? Queste si chiamano donne. Questo è pensar giusto, pensar con prudenza.

Roberto. Signora Eugenia, sarebbe per avventura venuto il caso?

Eugenia. (Ah, una vendetta sarebbe pure opportuna).

Fabrizio. Via, risolvete. In un momento potete diventare una gran dama, una gran signora, una principessa.

Roberto. Non tanto, signora. Ma uno stato comodo non vi mancherà. (ad Eugenia)

Eugenia. (Quand’è fatta, è fatta. Può essere che quell’ingrato frema, e si disperi, e si penta, quando mi avrà perduta).

Fabrizio. Via. Cuor mio, risolvete. (ad Eugenia)

Eugenia. Signore, disponete di me. (a Fabrizio)

Fabrizio. Oh bocca d’oro! l’avete sentita? (al Conte)

Roberto. Tocca a voi a terminare di consolarmi. (a Fabrizio)

Fabrizio. Per me ve l’accordo subito, in questo momento.

Roberto. Signore, vostra nipote vale un tesoro; ma le convenienze della mia casa esigono qualche dote. (piano a Fabrizio)

Fabrizio. (Dote!) (a Roberto, con maraviglia)

Roberto. La volete maritar senza dote?

Fabrizio. (Ho sempre che fare con degli spiantati).

Eugenia. Signore, la mia dote ci deve essere. Me l’ha lasciata mio padre, e mio zio non la può negare.

Fabrizio. Bisogna vedere, se il signor Conte la può assicurare.

Eugenia. Un cavalier così ricco? (a Fabrizio)

Fabrizio. Ricco! ricco! che so io, se sia ricco?

Roberto. Fareste meglio, signore, a esaltar meno le persone non conosciute, e a risparmiare gl’insulti ai cavalieri onorati. Voi mi avete promesso vostra nipote; ella v’ha acconsentito. Penserò io a farmi render giustizia. (parte)

SCENA X.

Fabrizio ed Eugenia.

Fabrizio. Orsù, io non voglio impegni. Ho data la parola, converrà mantenerla. (ad Eugenia)

Eugenia. Ma signore...

Fabrizio. Non c’è altro signore; converrà ch’io trovi la dote, e voi lo dovete sposare. (parte)

SCENA X!.

Eugenia sola.

Povera me! cosa ho fatto? Ma ho fatto bene. Fulgenzio mi veda sposa, e crepi di gelosia. So che viverò poco, che già a quest’ora mi principia a rodere il verme di una patetica disperazione; ma prima di morire, avrò la consolazione di vederlo fremere e delirare. Fremere e delirare? perchè? Se non ha per me quell’amore ch’io mi credeva, di che ha da fremere e delirare? Stolta ch’io sono; riderà piuttosto, se crederà ch’io mi sia legata altrui per isdegno. Farò forza a me stessa, cercherò che il Conte mi piaccia; imiterò l’indifferenza di quel perfido, di quel disumano... Oh cieli! eccolo. A che viene a tormentarmi l’indegno? Non posso reggere a quella vista. Sarà meglio ch’io mi allontani. (in atto di partire)

SCENA XII.

Fulgenzio e detta.

Fulgenzio. Fermatevi, signora Eugenia.

Eugenia. Che pretendete da me? (cori isdegrxo)

Fulgenzio. Ascoltatemi per carità.

Eugenia. L’avete servita la signora Clorinda? (con ironia)

Fulgenzio. No, non è ancora partita.

Eugenia. E che fa in casa mia? Perchè non l’accompagnate? (con isdegno)

Fulgenzio. Finito ho l’obbligo di servirla, terminato ho l’incarico d’accompagnarla.

Eugenia. E perchè? (sostenuta)

Fulgenzio. Perchè è giunto in Milano il di lei consorte.

Eugenia. È arrivato il signor Anselmo? (meno sostenuta)

Fulgenzio. Sì, è arrivato poc’anzi. Non ritrovò in casa la sposa. Seppe dov’era; è venuto egli stesso a vederla, ad abbracciarla. Fa ora i suoi convenevoli col signor Fabrizio e colla signora Flamminia. Chiese di voi, le fu risposto che siete in camera ritirata, e parte a momenti accompagnata dal caro sposo.

Eugenia. E voi? (patetica)

Fulgenzio Resterò qui, se mel concedete.

Eugenia. Non volete essere col fratello a discorrere degli affari vostri?

Fulgenzio. In due parole ho seco lui trattato, e concluso il maggior affare che mi premesse.

Eugenia. Cioè gli avrete reso conto della custodia, in cui gli teneste la sposa.

Fulgenzio. No, ingrata. Gli palesai l’amor mio: gli spiegai la brama di avervi in moglie. Il mio caro fratello me l’accorda placidamente; mi esibisce poter condurre la moglie in casa. E pronto dividere, s’io lo voglio, l’abitazione e le facoltà. Mi ama tanto, che nulla seppe negarmi, e permettetemi ch’io lo dica, se il zio non vi può dar dote, brama ch’io sia contento, e non avrà per voi meno stima e meno rispetto.

Eugenia. (Ah incauta! ah ingrata! perchè impegnarmi col Conte?) (smaniosa e piangente)

Fulgenzio. Oh stelle! così accogliete una nuova, che mi lusingai dovesse rendervi consolata? Ardireste voi paventare, ch’io frequentassi con passione mia cognata? Non fate a lei, non fate a me un sì gran torto. Pure se l’impressione nell’animo vostro non può per ora scancellarsi, vi prometto, vi giuro di non trattarla, di non vederla mai più.

Eugenia. Povera me! son morta. (si abbandona sopra una sedia)

Fulgenzio. Eugenia, che cosa è questa?

Eugenia. Ah sì, Fulgenzio, maltrattatemi, disprezzatemi, che avete giusta ragion di farlo.

Fulgenzio. No, cara, voglio amarvi teneramente.

Eugenia. Non merito l’amor vostro.

Fulgenzio. Voi sarete la mia cara sposa.

Eugenia. No, non deggio esserlo; abbandonatemi.

Fulgenzio. Non dovete esserlo? Anima mia, perchè mai?

Eugenia. Perchè ad altri ho data la mia parola.

Fulgenzio. E a chi? (tremante)

Eugenia. Al conte Roberto.

Fulgenzio. Quando?

Eugenia. Poc’anzi.

Fulgenzio. E perchè?

Eugenia. Per vendetta.

Fulgenzio. Contro di chi vendetta?

Eugenia. Contro di me medesima; contro il mio cuore, contro la mia colpevole debolezza. Oimè, mi sento morire, (si copre col fazzoletto e resta così.)

Fulgenzio. Ah perfida! ah disleale! quest’è l’amore? questa è la fedeltà? No, che non aveste amore per me. Furono sempre finti i vostri sospiri. Mendaci sono ora le vostre smanie. Me ne sono avveduto della vostra inclinazione pel mio rivale. Erano pretesti per istancarmi le gelosie mal fondate, i sospetti ingiuriosi, le invettive e gl’insulti. Godi, o barbara, della mia disperazione, trionfa della mia buona fede, deridi un misero, che per te more, ma trema della giustizia del cielo. Ti lascio in preda del tuo rossore; parlino per me i tuoi rimorsi; e per ultimo dono di chi tu sprezzi, assicurati di non vedermi mai più. (in atto di partire)

Eugenia. (Svenuta cade sopra una sedia vicina.)

Fulgenzio. (Sentendo strepito si volta) Oimè; che è questo? Eugenia, Eugenia, aiuto, soccorso.

SCENA XIII.

Flamminia, Lisetta e detti.

Flamminia. Che cos’è?

Lisetta. Cos’è stato?

Fulgenzio. Soccorretela.

Flamminia. Sorella.

Lisetta. Signora padrona. (l’alzano, e la rimettono sulla sedia)

Fulgenzio. (Ah! se non mi amasse... Ma oh cieli! potrebbe fingere? E perchè fingere, se non mi amasse?)

Lisetta. Via, via, è rinvenuta.

Flamminia. Ah, sorella mia, ve l’ho detto. Siete nemica di voi medesima.

Eugenia. Deh lasciate ch’io mora.

Fulgenzio. Ah no, vivete; il cielo mi vuol infelice. Pazienza. Vi amerò da lontano, benchè mia non sarete.

Flamminia. E perchè non ha da esser vostra? (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Perchè ad altri si abbandonò per vendetta.

Flamminia. Volete dire, perchè ha dato parola al conte Roberto? (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Ah sì, fortunatissimo Conte.

Flamminia. Fortunato voi vi potete chiamare, che aveste me in aiuto; fortunata Eugenia, che ha una sorella che l’ama. Il Conte fu da me illuminato. Seppe che lo faceva per astio, per capriccio, per disperazione. Non è sì pazzo a volersi nutrire una serpe nel seno; e lascia in libertà la fanciulla.

Eugenia. Oimè, dite il vero? (alzandosi con tenerezza a Flamminia)

Flamminia. Così è, sorella, Fulgenzio è vostro.

Eugenia. No, che non sarà mio.

Fulgenzio. Perchè no, crudele?

Eugenia. Perchè non lo merito.

Fulgenzio. Lo conoscete il torto che mi faceste?

Flamminia. Via, non parlate altro. (a Fulgenzio)

Eugenia. Lasciatelo dir, che ha ragione. (a Flamminia, con tenerezza)

Fulgenzio. Abbandonarmi per così poco! (ad Eugenia)

Flamminia. Ma via, dico. (a Fulgenzio)

Eugenia. Sì, insultatemi, che mi si conviene. Conosco l’amor grande, che per me avete; so di non meritarlo. Usatemi carità, se vi aggrada; siatemi rigoroso, se il vostro cuor lo comporta; in ogni guisa mi duole d’avervi offeso, e vi domando perdono.

Fulgenzio. Ah non più, idolo mio.

Eugenia. Sì, perdonatemi.

Flamminia. O che sian benedetti.

Lisetta. Mi fanno piangere.

SCENA XIV.

Fabrizio e detti.

Fabrizio. Cosa fa qui questo temerario?

Flamminia. Abbiate pazienza, signore. Questi ha da essere lo sposo di mia sorella.

Fabrizio. Non è degno d’imparentarsi con me.

Flamminia. Sentite. La sposerà senza dote.

Fabrizio. Senza dote? (a Flamminia)

Flamminia. Sì, signore.

Fabrizio. La prendete voi senza dote? (a Fulgenzio)

Fulgenzio. Non ci ho veruna difficoltà.

Fabrizio. Caro nipote, il cielo vi benedica. (l’abbraccia)

SCENA ULTIMA.

Roberto, Ridolfo e detti.

Ridolfo. Ecco qui il signor Conte, il quale persuaso dalle mie ragioni, si contenterà che il signor Fabrizio gli faccia una semplice scusa.

Fabrizio. Scusatemi, signor Conte. Il cielo ha voluto così. Mia nipote merita molto, e la fortuna le ha concesso in isposo il re de’ galantuomini, il più bravo giovane di questo mondo, il più saggio, il più dotto, il più nobile cittadino di Milano.

Roberto. Scuso in voi la più sonora, la più ridicola caricatura del mondo.

Fabrizio. Viva mille anni il Conte dei Conti, il Cavaliere dei Cavalieri.

Fulgenzio. Deh concedetemi che io le porga la destra. (a Fabrizio)

Fabrizio. Sì, generoso nipote; eroe del Ticino, gloria del nostro secolo.

Eugenia. Caro sposo, finalmente siete mio, vostra sono. Oh quante stravaganze prodotte furono dal nostro amore! Vicendevoli sono state le nostre gelosie, i nostri affanni, le nostre pene. Chi potrà dire, che non fummo noi, e che non siamo tuttavia Innamorati? Oh quanti si saranno specchiati in noi! Deh quelli almeno, che si trovassero nel caso nostro, alzin le mani, ed applaudiscano alle nostre consolazioni.


Fine della Commedia.

Note

  1. Ed. Zatta: È meglio così, ho risoluto ecc.
  2. Zatta: risoluto.
  3. Nell’ed. Zatta c’è soltanto una virgola.
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